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Autore: Alopix    19/08/2012    3 recensioni
Cato e Clove.
Due Favoriti, i tributi più odiati da quelli degli altri distretti, ma idolatrati e portati in gloria a casa, nel loro.
Ma com'è la vita di un Tributo Favorito, aldilà della gloria e dell'onore?
Enjoy :)
(Sì, le mie introduzioni sono sempre spettacolari, eh)
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Cato, Clove
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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THE RULER AND THE KILLER 

 

 

 






“Run fast as you can
No one has to understand”
{The Civil Wars- Kingdom come}

 

 

Capitolo 3

Quando apro la porta di casa, mia madre sobbalza. Ovviamente non mi aspettava prima di due ore.
I suoi occhi si spalancano quando mi vede.
“Clove!”, la sua voce è piena di apprensione. “Sei ferita?”. Mi guarda preoccupata, avvicinandosi a me.
Questo mi prende totalmente alla sprovvista.   Non penso di star sanguinando e, anche se fosse, non sarebbe una cosa inusuale. Càpita di ferirsi quando ti alleni per uccidere. Per quello che so, avrò solo qualche livido .
Scuoto la testa e faccio per andare verso la mia camera, supponendo che sia stato il mio ritorno anticipato ad averla spinta a porre la domanda.
Lei mi rincorre e mi ferma. “Stai poco bene?”, persiste lei.
“No, mamma. Sto bene”, le dico in tono brusco , cercando di sorpassarla, ma lei mi afferra il braccio.

 

“Sembri malata...”, insiste, mettendomi una mano sulla fronte. “...e sei calda!”.

“Certo che sono calda!”, ribatto, allontanando la sua mano. “Cosa pensi che abbia fatto fin’ora? Faccende domestiche?”. Lei stringe le labbra ma non dice niente. Si capisce che è stanca di discutere per tutto.
Raggiungo la mia camera.
Appeso a una parete, c’è un vecchio specchio, che ha resistito in qualche maniera a tutti gli anni in cui ho sfogato la mia frustrazione mettendo la mia stanza sottosopra.
Osservo il mio riflesso. Un’esausta ragazza scompigliata, pallida da far paura ricambia il mio sguardo. Molte ciocche di capelli sono sfuggite disordinatamente all’elastico  che le legava e le danno l’aria di essersi appena svegliata da un sonno durato secoli. Non c’è da chiedersi il perché mamma mi abbia domandato come mi sentissi. Ho un aspetto terribile.
Probabilmente dovrei sentirmi in colpa per averle urlato contro, ma non lo faccio.
Guardo con distrattamente il mio riflesso mentre ripercorro gli eventi della giornata.
Il pensiero di quanto sono andata vicino alla morte mi colpisce in un’unica improvvisa ondata. Riesco a mala pena a raggiungere il bagno, quando il mio pranzo inizia a tornarmi su. Quando i conati finiscono, le mie mani stanno tremando violentemente. Mi bagno la faccia più e più volte prima di ritornare in camera. Osservo di nuovo lo specchio: sono ancora più pallida di prima, se è possibile.
Mi lascio cadere nel letto e mi avvolgo nel lenzuolo. Devo calmarmi.
Paura. Ecco cosa mi ha lasciato il mio primo incontro con la morte. Se qualcuno fosse in grado di percepirla diventerei una preda, invece che predatore. Non posso assolutamente permettere che accada. Non posso permettermi di cadere a pezzi così, neanche per poco.
 E’ solo un’altra debolezza. Una anche bella grande.
Per liberarmi da questo stato di malessere, cerco rievocare quello che mi ha aiutato, paradossalmente, ad andare avanti oggi: la mia rabbia verso Cato, la frustrazione con me stessa.
Quest’ultima ritorna facilmente, visto che sono già frustrata e stanca del mio corpo, che sta tremando violentemente.
Ma non riesco a risentire la rabbia verso Cato. Ogni volta che provo a ricordarmi di come rideva di me, mi prendeva in giro, finisco per ricordarmelo steso a terra in una pozza di sangue, che combatte con se stesso per non svenire. Quando capisco che questo non mi porta da nessuna parte, cerco di focalizzarmi sul pensiero di lui che tira le lance-  per ricordarmi dell’ostacolo che lui rappresenta, essendo un potenziale tributo. Ma ,invece, lo rivedo mentre mi combatte. In realtà anche questo dovrebbe portarmi a sentire la rabbia, l’ira che ho provato verso di lui, ma tutto quello che riesco a pensare è che, forse, lavorare con qualcuno così potrebbe farmi migliorare.
E cosa porterebbe di buono combattere con Cato, comunque? Dividerò le lezioni con lui in ogni caso, non ho alcuna voce in capitolo. Perciò, che senso ha finire ogni giorno l’addestramento in anticipo solo perché non riusciamo a resistere all’idea di pugnalarci?
Ugh! Salto giù dal letto, alla ricerca di qualcosa da tirare, ma è stato tutto demolito nella collera di ieri.
Finisco per prendere a pugni la parete, il che ovviamente fa più danni a me che a l’intonaco. Ma almeno aiuta.
Continuo a colpirla nello stesso punto, ancora e ancora, cercando in qualche modo di intaccarla, e provando a rimuovere ogni pensiero positivo riguardo Cato dalla mia testa. Pensare bene di lui mi renderà solo più esposta a inganni o a fallimenti.
Iodevo odiarlo.
Dopo un po’ le mie nocche iniziano a sanguinare e capisco che non sto arrivando da nessuna parte. La parete è ancora lì, intatta, e i miei pensieri stanno sempre girando in tondo, in un cerchio infinito.
Collasso sul letto ed entro in un sonno agitato, fino al ritorno di mio padre.
Ma allora, non riesco ad alzarmi. Non importa quanto ci provi, i miei muscoli non obbediscono.
Sono troppo esausta.
“Clove”, mi chiama mio padre, bussando alla porta. “Vieni”.
“Non- non ci riesco”, balbetto.
La porta si apre e mio padre entra, rivelando una faccia preoccupata.
“Stai male?”, domanda ansioso.
All’inizio scuoto la testa, poi ci ripenso e annuisco. Mi guarda interrogativo.
“Non sono malata, se è quello che intendi”, spiego.
“Sei ferita, allora?”, investiga.
“No. Ho solo qualche graffio e qualche livido.”
Lui mi guarda e sospira, non convinto. “Ne possiamo parlare dopo cena, quindi? Tua madre ci sta aspettando”.
Mi alzo di malavoglia e lo seguo.
E’ una cena molto silenziosa, la nostra.
Mamma serve il cibo, e vuole chiaramente dire qualcosa, ma non ha altrettanto chiaramente il fegato di iniziare la conversazione.
Papà mangia e mi guarda pensieroso di continuo, cercando di capire che cosa mi turbi.
Io, da parte mia, non dico niente e mi concentro sul cibo, cercando di non far caso alla sua consistenza molliccia.
Appena finiamo di mangiare, mamma lava i piatti, li ripone con cura nella credenza e si ritira in camera, senza fiatare. Quindi rimaniamo io e papà da soli.
Aspetto che dica qualcosa, ma lui si limita a guardarmi.
“Sono tornata a casa prima oggi”, incomincio io, quindi, non sapendo veramente da dove cominciare.
“Sì, tua madre me l’ha menzionato”. E’ questo tutto quello che ottengo. Nessuna punzecchiatura. Nessun discorso sulla mancanza di rispetto. Niente.
“Cato si è ferito durante l’allenamento, così abbiamo dovuto finire prima”, aggiungo, cercando di ottenere una reazione di qualche tipo.
“Ferito? Bé, sono cose che possono capitare”, mi risponde invece lui, in tono piatto, mentre scruta attentamente il mio volto.
“Si,  era orribile. Il pavimento era coperto di sangue”, continuo.
“Sangue? Come mai Hugo ha permesso che accadesse?”, chiede, stupito.
“Ci stava testando”, rispondo sinceramente.
“Per…?”, m’incoraggia.
“Per vedere se ci saremmo uccisi a vicenda”.
Le sue sopracciglia si alzano. “E l’avresti fatto?”.
“Sì”, rispondo, cercando di mantenere un’espressione indifferente.  “Sono quasi morta, ma poi l’ho quasi ucciso”.
Quasi?”, mi chiede interrogativo.
“Hugo ha scelto quel momento per intervenire”, spiego.
“E questo ti turba perché…?”, mi stimola.
Respiro profondamente. E’ una bella domanda. E non ho alcuna idea di quale sia la risposta.
Inizio dalle basi. “ Devo allenarmi con lui, e non posso fare niente a riguardo. E se continuassimo a farlo puntando sempre alla gola dell’altro non arriveremmo da nessuna parte. Ma se lo accettassi…”
“… sarebbe una debolezza”, finisce lui per me.  Annuisco.
“… Ma lo sarebbe solo se tu lo permettessi”.
Lo guardo confusa. “Eh?”.
Sospira. “Solo perché non lo accoltelli ogni giorno non significa che tu debba essergli amica. C’è differenza fra tollerare e accettare”, spiega brevemente.
“E se invece potessi farci qualcosa?”, domando, avendo un’ispirazione improvvisa. Lui mi guarda scettico.
“Hugo”, spiego, con un sorriso.
Hugo? Cosa c’entra Hugo?”, chiede lui, confuso.
“E’ così debole! E’ un gigante gentile, se non si conta il fatto che non è poi così alto e…” . Non so come continuare. Papà ci ha messo tanto per trovarmi un allenatore e non voglio offenderlo. Ma devo dirlo.
“Non penso che con due di noi sarà capace ci mantenere il controllo e di spingerci a migliorare tanto quanto ne abbiamo bisogno”.
Il volto di papà non lascia trapelare emozioni. “Clove, lascia che ti faccia una domanda. Hugo ti ha mai urlato contro?”
“Sì”, rispondo.
“Si vede, quindi che non ha alcun problema con la disciplina. Ti sei mai sentita male durante gli allenamenti?”, continua.
“Sì”.
“Ti sei mai ferita?”.
“Sì”. Non mi piace dove sta andando a parare …
“Allora non ha neanche problemi a farti lavorare. Ti ha mai picchiata?”
“No, ma-”, lui alza una mano, intimandomi a tacere.
“Allora sei veramente una ragazza fortunata. Hai idea di quanto sia difficile trovare un istruttore ben informato e volenteroso che non picchi ogni giorno i suoi allievi?”
“Io-”
“Ne hai idea?”, m’interrompe.
“Sì”, borbotto, con gli occhi bassi.
“Allora dovresti sapere anche quanto sei fortunata”.
“E’ per questo che hai scelto lui?”, esplodo improvvisamente. “Non pensavi che ce l’avrei potuta fare? Che dovessi scegliere qualcuno gentile così che non interrompessi l’addestramento a metà del primo anno? E’ per questo?”, urlo.
“Clove!”
“E’ per questo?”, continuo, ignorandolo. “Perché sono perfettamente capace di prendermi cura di me stessa! Non ho bisogno di nessuno! Non di Hugo, non di mamma, e neanche di te!”, sento una calda lacrima di frustrazione scendermi lungo la guancia e la spazzo via violentemente. “Tu non hai fatto niente per me! Siamo poveri per colpa tua! Perché non hai preso parte ai Giochi! Io devo mettere a posto quello che tu hai fatto, o non fatto, e tu non puoi neanche trovarmi un trainer decente! Neanche quello puoi fare!”, urlo, sfogando tutta la mia rabbia repressa sull’unica persona a cui so di tenere.
“Clove.”, il viso di mio padre è contorto dalla rabbia, ma la sua voce lascia trasparire il dolore. Io non dico niente e lui coglie l’occasione per parlare. “O ti allenerai con Hugo, o non ti allenerai per niente”.
Mi ha messo nell’angolo, e lui lo sa.  Fisso i suoi caldi occhi marrone, ora pieni di collera, identici ai miei.
Tirando fuori tutti i sentimenti negativi degli ultimi due giorni, lo attacco con l’unica arma che mi rimane. Le parole.
“Ti odio” articolo, ponendo enfasi in ogni sillaba. Corro verso la mia camera e, una volta chiusa la porta alle mie spalle, scoppio in lacrime.
Mi accorgo di essermi addormentata solo la mattina dopo, al mio risveglio. Sento ancora i segni delle lacrime sulla mia faccia per cui mi dirigo velocemente in bagno ,per lavargli via. Mentre mi asciugo il viso, mi prometto che non piangerò mai più. Mai.  Nessun dolore, fisico o psicologico, sarà mai in grado di farmi piangere.
Io sono più forte.
 E non lascerò che nessuno mi ferisca. Perché non m’importerà più di niente.
A qualsiasi costo, i miei occhi non rilasceranno altre lacrime. Mai più.

   
 
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