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Autore: SAranel    21/08/2012    7 recensioni
John non riesce a dormire, da tanto, troppo tempo. Qualcun altro, più vicino di quanto lui pensi, ha lo stesso pressante problema. Esiste una soluzione?
"Si dice che quando si fa fatica ad addormentarsi vuol dire che si è svegli nei pensieri di qualcuno" esclama, cogliendomi di sorpresa.
Non so come rispondere. Sembra una consolazione, una giustificazione amichevole per spingermi a distrarmi, a volgere i miei pensieri altrove mediante una metafora romantica, ma conoscendolo, non posso esserne sicuro.
"Sono certo che è così" dico, un sorriso appena accennato. "Anche se non credo di essere tanto importante da essere nei pensieri di qualcuno ogni notte".
Mycroft ride, ma non riesco a interpretare quella risata. Non c'è cattiveria, questo sì, forse compassione e forse, come con Sherlock, un sottile sottointeso che forse non coglierò mai."[...]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Hello fandom!
E’ l’ultima one-shot che pubblico per adesso, il prossimo aggiornamento sarà con l’ultimo capitolo della mia long in corso, giurin giurello! Su questa non c’è molto da dire, scritta tutta al cellulare (non so neppure io come le dita mi funzionino ancora) in un periodo abbastanza particolare che sto passando, e spero veramente che vi piaccia. Davvero.
Buona lettura!

S.

 

Awake
*

 

“Or who always sleep eyes open and never sleep!
This love f
eel I, that feel no love in it”

-W. Shakespeare

 

 

 

Non riesco più a dormire, da quel giorno.
E' inevitabile che la mia mente vaghi inesorabile verso di lui, verso quello che ho visto, verso immagini impresse nella mia mente come sanguinanti incisioni a fuoco.
Credevo fosse finita, quando tornai dalla guerra e incontrai quell'uomo pazzo eppure unico, allo stesso tempo. Credevo non avrei più sofferto, e invece, sopporterei altri mille proiettili, altre mille lunghe convalescenze in ospedale se solo servisse a riportare lui da me.
Non riesco più a dormire, perché mi sembra di vederlo ogni giorno, per le vie della mia Londra. Lo scorgo in ogni ombra, in ogni sventolio fugace di un cappotto scuro e il mio cuore si ferma quando vedo occhi così simili ai suoi guardarmi per poi scomparire tra la folla della metro.
Adesso c'è suo fratello di fronte a me, in una delle sue sempre più frequenti visite.
Mycroft è sempre più diverso nei miei confronti, come fossi un cucciolo bisognoso di cure e affetto, e sorrido ogni volta che ripenso a quanto lui non lo sopportasse.
Forse Mycroft si sente semplicemente in colpa, dopotutto dovrebbe, e cerca di limitare i danni con le sue capatine a sorpresa. Non capisce che se è destino che io impazzisca per la sua mancanza, la sua presenza non cambierà affatto le cose, ma non ho intenzione di dirglielo. Mi conforta vedere qualcosa di Sherlock in lui, nonostante siano due persone ai completi opposti.
I suoi occhi mi tranquillizzano. Non hanno niente di quelli di Sherlock, se non una pallida seppur gradevole sfumatura d'azzurro, ma hanno un effetto calmante su di me, come se fin quando quello sguardo sarà puntato su di me nulla potrà accadermi. Il mio cuore si ferma quando il più grande degli Holmes, l'ultimo Holmes, la mia crudele coscienza mi spinge a ricordare, abbassa lo sguardo per scrutarmi, sfiorandosi il mento con gli indici uniti, come faceva lui.
"Ti vedo stanco, John" mi dice, dopo un sospiro. "Dovresti riguardarti di più".
Voglio rispondergli maleducatamente, cacciarlo via, dirgli che non ho bisogno dei suoi inutili consigli spassionati ma rimango zitto. Non ho voglia di litigare.
"Sto bene" mento. "Ho solo qualche problema ad addormentarmi".
Mycroft mi guarda con espressione contrita ma so che non è arrabbiato con me. È il suo modo di farmi capire che disapprova.
"Dovresti lasciare che qualcuno ti aiuti John" è il suo consiglio. "Potresti farti prescrivere qualcosa".
Rido, e so che la sta interpretando come una reazione sarcastica. E infatti, lo è. Il solito pragmatico senso della consolazione di Mycroft. Una pillola, un paio di gocce e tutto passa. Se solo fosse bastato davvero…
"Non posso" gli rispondo, guardandolo negli occhi chiari. "Preferisco l’insonnia a un sonno indotto da benzodiazepina. Voglio poter pensare" concludo.
Lui sospira. Sfiora il manico del suo ombrello con una dolcezza non da lui.
"E pensare a cosa, John?".
Sorrido, ed è un sorriso amaro.
"Non ho una gran varietà di pensieri negli ultimi tempi. Vuoi dirmi che non lo sai?".
Mycroft gioca con il suo orologio -acciaio e inserti d'oro, maledetto Sherlock e la sua lezioncina sull’osservare i dettagli- e annuisce, con aria onnisciente.
"Fossi nei tuoi panni, cercherei una soluzione. Anche una che va contro i miei principi".
Classico. Semplice. Mycroftiano.
"Tu non sei nei miei panni, Mycroft?" domando poi, ma non sono del tutto sorpreso. I fratelli Holmes non avevano mai seguito i canoni di comportamento delle persone comuni e non vedo perché il dolore di una perdita non debba rientrare i quei canoni.
"Lo sono. Ma mi trovo in una posizione tale che non mi permette di soffermarmi su quello che provo o non provo".
Sorrido, senza allegria.
"Potresti chiedere alla vecchia Elizabeth se ha un qualche incarico per me. Ammazzarmi di lavoro potrebbe essere anche la mia soluzione al problema" scherzo ma so di non essere convincente. Odio dover forzare un sentimento che non provo.
Mycroft sorride e capisco che non mi sta prendendo in giro. Al massimo, mi sta compatendo.
"Farò qualche domanda in giro, John" mi assicura, stando al mio gioco e alzandosi dalla sua poltrona con lentezza, come se lasciarmi gli costi una fatica immane. Sento un inaspettato moto d'affetto verso di lui ma non lo abbraccerò, su questo può stare sicuro.
"Cerca di stare bene, John" mi augura, sfiorandomi una spalla con la mano. Non me lo aspettavo, sono interdetto e lo guardo. 
"Grazie, tenterò" gli dico.
Lui fa per andarsene e poi si ferma, con la mano sulla maniglia della porta, e mi guarda. Sembra combattuto, come se volesse dirmi qualcosa che farebbe meglio a non proferire.
Sospira.
"Si dice che quando si fa fatica ad addormentarsi vuol dire che si è svegli nei pensieri di qualcuno" esclama, cogliendomi di sorpresa.
Non so come rispondere. Sembra una consolazione, una giustificazione amichevole per spingermi a distrarmi, a volgere i miei pensieri altrove mediante una metafora romantica, ma conoscendolo, non posso esserne sicuro.
"Sono certo che è così" dico, un sorriso appena accennato. "Anche se non credo di essere tanto importante da essere nei pensieri di qualcuno ogni notte".
Mycroft ride, ma non riesco a interpretare quella risata. Non c'è cattiveria, questo sì, forse compassione e forse, come con Sherlock, un sottile sottointeso che forse non coglierò mai.
"Io credo tu lo sia, John. Sei un uomo buono. E qualcuno pensa sempre ad un uomo buono".
Scompare dietro la porta nel tempo di un battito di ciglia.
Non so cosa pensare e decido semplicemente di non farlo. Ho bisogno di un Time-Out, sono stanco, spossato, distrutto da un incontro che non ho neppure disputato. Sono lo zimbello della squadra ma tutto ciò che voglio e spegnere il cervello per qualche ora.
Parlare di lui, anche se il suo nome non è spuntato fuori nemmeno una volta, mi spossa quasi fisicamente.
Mi sdraio nel mio letto e ricomincio il solito deprimente rituale. Osservo. Passa un'auto, di sotto. Osservo il riflesso dei fari accarezzare il soffitto, l'armadio, il vecchio maglione beige appoggiato sulla sedia. Poi sposto lo sguardo alla finestra. Il dirimpettaio chiude le tende, poi le riapre, poi le chiude nuovamente Sorrido. Credo abbia un serio disturbo d'ansia. Lo fa ogni sera. La Signora Hudson di sotto getta la spazzatura, il tonfo del coperchio del bidone che si richiude è familiare, confortante.
Quando la sento chiudere a chiave la sua porta, sono più sveglio che mai.
Non riesco a dormire comunque questa sera, e dubito che ci riuscirò domani. L'amore è uno schifo. L'amore non dovrebbe essere affatto così, un cocktail letale di sofferenza, dolore e rimpianti. Dovrebbe essere come nei libri tascabili di Harry che leggevo di nascosto da ragazzino, quelli con cui avevo paura di farmi vedere in giro per non morire d'imbarazzo. L'amore doveva essere quello che univa due persone completamente diverse che però scoprivano di avere tanto in comune, l'amore doveva essere quel sentimento meraviglioso ed eccitante che bramava solo di essere suggellato da un pittoresco bacio sotto la pioggia. 
Il mio amore invece, è solo morte.

Sono un uomo buono, dice Mycroft. Sono un uomo buono innamorato di un uomo morto. Sarebbe una buona trama per una sit-com di basso livello ma purtroppo per me, è soltanto la mia vita. 
Qualcuno mi pensa, ha anche detto. Sono nei pensieri di qualcuno ogni notte, qualcuno che mi ruba il sonno, l'incoscienza, la capacità di abbandonare per qualche ora la frenetica attività della mia mente.
Non riesco a capire chi, se mai fosse vero. Non so nemmeno chi conosco talmente bene da poter meritare un tale onore e onere. O meglio uno c'è, o meglio c'era. Spero davvero che le persone possano pensare nel luogo dove lui è adesso, quel posto che mi piace credere sia il Paradiso, o almeno, qualcosa di molto molto simile. Mi piace pensare che danni l'anima a qualche povera creaturina volante per farsi preparare il suo the pomeridiano con il giusto dosaggio di latte.
Mi sento annegare senza di lui e non ho nulla intorno a me a cui potermi aggrappare. Sprofondo, e non sono nemmeno sicuro, a volte, di desiderare che qualcuno mi salvi.
La mattina mi alzo dal letto spiegazzato, caldo, le lenzuola quasi rose dal continuo movimento. Ogni gesto è meccanico dal momento in cui poggio il piede sul parquet scricchiolante. Un primo cigolio stridulo e arrivo alla porta, entro in bagno, accendo la doccia e lascio che l'acqua scorra, sperando di sentire un'esplosione dal piano di sotto, un rumore di passi lungo le scale, un insistente bussare alla porta seguito da un'esortazione a scendere per placare un principio d'incendio.
Tutto quello che sento intorno a me invece, una volta girato l'interruttore della doccia, è solo il lento gocciolare del rubinetto difettoso. Scorgo quasi una voce, nel lieve ma roboante tic tic tic delle gocce nell'acqua schiumosa, come un mantra lamentoso, cadenzato, come quelle preghiere che ti spingono in un lieve torpore. Sembrano chiamarmi.
John John John John John.
Ma non sono quelle labbra a pronunciarlo. E' solo il freddo metallo, e la ruggine, e l'acqua e la ceramica bianca. Fredda. Inumana.
Non è lui. Non sarà lui mai più.
La Signora Hudson tossisce al piano di sotto, la sento sedersi sul vecchio materasso cigolante che non vuole sostituire. Dice che non lo fa per il suo significato. La sua vita a Londra, il suo matrimonio, anche se non era stato esattamente come lei aveva sognato, l'idea di casa, calore, conforto.
Io non riuscirei. Non ce la farei. Se solo non sapessi dell'enorme errore che commetterei facendolo, chiuderei Sherlock in un vecchio scatolone, identico a quello dove tengo la mia uniforme, le mie piastrine, il berretto e le vecchie fotografie. Se solo non sapessi del dolore ancora più immenso che mi causerebbe, lascerei che il ricordo dell'uomo che amavo si ricopra di quella spessa patina di polvere, dimenticanza e abbandono di tutto il resto dei miei ricordi.
So che non lo farò mai. So che morirei piuttosto che lasciare che la sua memoria svanisca come una goccia d'acqua in un nubifragio.
Lo amo ancora, oltre qualsiasi ostacolo, oltre ogni pregiudizio, male lingua o chissà cos'altro. Lo amo oltre la morte. E se quest'amore mi pregiudicherà qualsiasi mia capacità di amare chiunque altro, io lo accetterò di buon grado. Non voglio che ci sia nessun altro. Abbraccerò una vecchia fotografia, bacerò quel logoro cuscino che donava sollievo alla sua schiena, farò l'amore con la sua immagine, nei sogni. Se i sogni potranno riportarlo indietro da me, allora vivrò in loro vece, ignorando tutto il resto. Che la vita scorra, io sto bene qui.
"Quando non si riesce a dormire, vuol dire che si è svegli nei pensieri di qualcun altro" ha detto anche Mycroft.
Non voglio che sia la Signora Hudson, ma so, per una ragione a me ignota, che non è lei, nonostante il suo affetto sia costante e profondo. Non è Harry, che ha molti più problemi da sé senza che si metta a preoccuparsi dei miei, non è Lestrade, non è Sarah né qualcuno dei vecchi amici spuntati fuori nel momento del bisogno.
Lo sento, ma forse in cuor mio è solo quello che il mio inconscio vuole sentire.
Voglio che sia lui. Voglio che sia Sherlock. Voglio che le parole dolci di mia madre, le sento ancora come se fossero state pronunciate ieri, siano vere.

"Nessuno ci lascia mai veramente" disse, dopo la morte del nonno.
Vorrei allungare la mano e sapere che c'è, senza bisogno di parole, solo sapere che è lì, che è con me, sempre.
Lo voglio con me, sono egoista, avido, mai sazio di lui, come se fossi un assetato e lui fosse acqua pura, sorgiva. Sono un assetato, ma tutto ciò che mi lasciano bere è acqua salata, dal sapore pungente e amaro, lasciandomi sempre più disidratato, in attesa, in un limbo eterno.
Mi basterebbe anche solo un momento. Vorrei potergli dire quello che significa per me. 
Vorrei che fosse lui, colui che mi impedisce di riposare. Se solo ne avessi la certezza, potrei vivere in pace per il resto della mia vita. 
Solo un segno, e potrei chiudere gli occhi e ricominciare a vivere.

 

§

 

La mia vecchia stanza è esattamente come la ricordavo, esattamente come l'ultimo giorno in cui vi dormii. I poster erano ancora incollati alle pareti, quello della grande tavola periodica che troneggiava su tutti gli altri perfettamente allineato con il controsoffitto, come se la mia previdente madre avesse predetto una mia futura lunga permanenza e avesse insistito perché la manutenzione non mancasse mai. Le pareti erano dello stesso pallido colore azzurro di cui erano sempre state e il lampadario in vetro rifletteva un raggio di sole proveniente dalla persiana semichiusa. La persiana sì, era diversa. Nuova, di un verde lucido e chiaro, non quella vecchia, con le listarelle scrostate a staccare dal predominante verde acceso. Avrei preferito quelle di prima. Mi avrebbero ricordato quelle di casa.
L'armadio è vuoto, le ante spalancate a fare da lignea cornice ai disegni damascati al suo interno.
Passo ogni notte ad osservarli, a delineare con gli occhi ogni cresta, punta o iperbole.
Non dormo più. Non mi ricordo quasi più come si fa. E mi pesa, nonostante non sia mai stato uno abituato ad un sonno regolare, perché nonostante io lo veda costantemente nella mia mente, nonostante io possa quasi plasmare la sua immagine con il mio cervello, non ho più quel sollievo totale, spontaneo e meraviglioso del vedere John nei miei sogni.
Amare mi fa schifo. Perché non voglio stare in questo modo, perché non vorrei desiderare di rivederlo così fortemente, perché vorrei non odiarmi così tanto ripensando a come l'ho lasciato.
Amo e odio John per come mi fa sentire. Amo e odio John perché il suo costante pensiero mi impedisce di dormire e quindi allo stesso tempo di rivederlo. Non ha senso, lo so, ma non importa. Nulla legato a me ha mai senso, secondo la maggioranza della gente, e non m'interessa.
Guardo la polvere levitare lenta in cerchi casuali nell'unico fascio di luce che entra nella stanza. Mi viene in mente quando da piccolo credevo fossero lucciole, quelle minuscole particelle lucenti che vagavano per la mia stanza. Ricordo di come mi ero attrezzato per poterle catturare, con la complicità di mia madre, con un vecchio setaccio per la farina, per poterle tenere nel mio piccolo zoo personale in giardino. La delusione dentro di me, scoperta la verità, era stata quasi palpabile, forte, profonda. Poi mia madre mi aveva preso da parte e mi aveva detto che se volevo che quei granelli divenissero lucciole potevo farlo, con la mia mente, con il dono della mia immaginazione. E la delusione era svanita in meno di un secondo.
Ora vorrei che lei me lo dicesse ancora, che mi dicesse che per avere John qui devo solo chiudere gli occhi, immaginare che la vecchia cassapanca tarlata sia in realtà il nostro tavolino da caffè e che John sia dall'altra parte di esso, con indosso uno dei suoi maglioni a righe a lamentarsi della confusione in salotto.
Purtroppo per me, sono adulto, ora.
Qualcuno bussa alla mia porta, e svogliatamente mi passo la mano tra i capelli, alzandomi dalla posizione supina assunta sul letto.
"Avanti" dico, in tono neutro. Spero non sia Mycroft. Non voglio parlare con lui e della sua ultima visita a Baker Street, perché so che vorrei conoscere ogni particolare della sua conversazione con lui. Una parte di me ha paura di sapere. Sapere che sta male mi distruggerebbe, ma allo stesso tempo sapere che tutto va bene, mi ucciderebbe.
Quando la porta si apre, il visitatore si rivela essere mia madre. Lei e Mycroft hanno lo stesso modo di bussare alla porta. Non so se è mio fratello ad essere troppo delicato, quasi esitante, o mia madre ad essere troppo energica.
"Ciao bambino" mi dice con un sorriso. Non lo ricambio. Non sono un bambino, e forse non lo sono mai stato davvero, lucciole e pirati a parte, ma lei continua a chiamarmi in quel modo. 
"Ciao mamma" dico, guardando ancora la finestra.
"Sono felice che tu sia qui" mi dice, e sento una mano sfiorare i miei capelli. La sua carezza è lenta, metodica, sempre la stessa. Come faceva quando ero bambino e faticavo a prendere sonno.
"Sono qui da una settimana" le faccio notare in tono distaccato. Vorrei avere più riguardo per lei, lo vorrei veramente, ma la mia lontananza da lui sembra aver prosciugato ogni traccia di amore, in me. Lei si adombra, ma dura un secondo. La carezza si fa più profonda.
"Lo so, ma sentivo il bisogno di dirtelo ora" mi risponde. Cala il silenzio, per almeno cinque minuti. Io comprendo. E' palese.
"Sai" mi basta dire. Lei sospira.
"Tuo fratello mi ha detto cosa hai fatto quando sei stato via. Prima di tornare qui da me".
Apro gli occhi e fisso il soffitto, stringendo i denti e reprimendo l'insulto che ho in serbo per Mycroft, torno a guardarla. I suoi occhi, uguali ai miei in ogni sfumatura, sono tristi. 
"Non avrebbe dovuto. Non era necessario dirtelo ora" esclamo, e da qualche parte dentro di me, cerco di immaginare la pena di mia madre nel sapermi da qualche parte del mondo alla ricerca di un manipolo di assassini. Stranamente, in fondo al cuore, sento uno strano impulso smuovermi. Vorrei sorriderle e confortarla. Stringerla per un secondo. Non lo faccio.
"E invece ha fatto la cosa giusta. Non puoi tagliarmi fuori dalla tua vita, bambino".
Sorrido, senza alcuna allegria. Mi ha chiamato di nuovo in quel modo, oltretutto.
"Tagliarti fuori dalla mia vita è il miglior regalo che potrei farti, mamma".
Lei non dice nulla e sento che è combattuta. Sa che cosa intendevo dire con la frase di poco prima, ma quello che la distrugge è un altro dubbio.
"Non m'importa se lo fai per tenermi al sicuro. Se lo scotto da pagare per non perderti è quello di vivere in costante pericolo io sono pronta a pagare" è la sua risposta. La conosco. L'avevo predetta sin da quando aveva formulato l’affermazione precedente.
"John avrebbe fatto lo stesso" aggiunge poi e il mio cuore ha un fremito, come se un proiettile invisibile gli fosse passato accanto di striscio. Non voglio parlare di lui. Non con lei. Non voglio parlare di lui con nessuno se non me stesso.
"John non c'entra".
"So che non vuoi parlarne. So cosa ti distrugge. Non sono qui per contestare la tua decisione".
"Non vuoi parlarne? Non è quello che sembra".
"È quello che è" la sua voce è secca, autoritaria. È seria ora. È la Signora Holmes adesso, non la madre dolce e amorevole. Non parlo.
"So che pensi a lui ogni notte, Sherlock. Ti sento... pensare" il suo tono è preoccupato, ma la voce cambia in un tono sereno, come se non volesse trasmettere a me quella preoccupazione.
"Non posso farci niente. Non posso smettere di pensare" dico, non voglio parlare di questo, non adesso, non posso parlare di lui, la ferita è aperta, i punti freschi, non voglio che si riaprano, non voglio sanguinare ancora. 
"Bambino... "
"Io l'ho fatto per lui" mi difendo. È vero, per lui, per la sua sicurezza, per far sì che lui avesse un futuro. C'è davvero cattiveria in questo?
"Io lo so" dice, e mi spiazza completamente. Non so cosa pensare.
"Io so che non è per questo che non dormi più. Io so che temi che quando ritornerai da lui, lui potrebbe non volerti più".
Guardo mia madre senza dire niente. Non voglio sapere come abbia fatto a leggermi dentro tanto profondamente. Non mi sento degno di conoscere la maniera in cui ha letto sul mio viso e sul mio corpo segni di un qualcosa rimasto sempre celato, qualcosa che ho cercato sempre di lasciare custodito dentro di me.
Segreti di una madre, suppongo, segreti che rimarranno per sempre tali e che io non comprenderò probabilmente mai.
Non negherò. Non ne ho la forza.
"Lui non mi vorrà. Mi accuserà di non essermi fidato di lui" affermo, aspettando una sua frase di conforto.
"Probabilmente sarà così" dice invece, spiazzandomi. La guardo, la mia bocca semiaperta in un'espressione sorpresa. Smette per un secondo di pettinarmi le ciocche tra le dita e mi sorride. Il suo tocco mi manca.
"Il tuo compito sarà spingerlo a comprendere il tuo gesto, bambino
mio" bisbiglia al mio orecchio, poggiando un bacio sulla mia guancia. "Sarà lungo, magari difficile, ma tu ce la farai. Sei forte. Lo sei sempre stato".
La guardo. Improvvisamente sento qualcosa, la stessa lieve sensazione di poco prima moltiplicata per dieci, e ho voglia di baciarla, stringerla, dirle che le voglio bene più di quanto riesca a esprimere con gesti o parole. Non riesco ancora. Non lo faccio da troppo tempo.
"Non mi è mai successo, non così. Non mi è mai successo di perdere il sonno e la ragione per una persona" sussurro. "Per un uomo".
Lei annuisce e sorride appena. Riprende la sua carezza, con dolcezza.
"Per un amico" mi corregge lei.
"Lui è di più" mi ritrovo a dire e mi mordo la lingua fino a sentire il sapore metallico del sangue, nonostante io sappia che lei sa.
"È chiaro" afferma, con voce cristallina. Osservo il suo viso prima di rispondere. Rughe profonde solcano il suo viso adesso, al contrario di quando vivevo stabilmente qui. I capelli sono raccolti in una treccia che scivola sulla spalla, e i capelli, una volta rossi come il fuoco, sono striati di grigio ma ancora lisci e lucidi come seta. È bella. Bellissima. Lo è sempre stata. Penso a John, a quando sarà vecchio, i capelli biondi ormai bianchi e il suo bel volto segnato dall'inevitabile passare del tempo. Immagino chi potrà essere al suo fianco e la mia crudele coscienza non palesa la mia immagine ma quella di una donna senza volto, una donna che lo tiene per mano e lo bacia teneramente. Un lamento esce dalla mia gola a quel pensiero e chiudo gli occhi, scacciando quell'immagine.
"Io non so più che pensare. Mi confonde. Mi spaventa" ammetto, anche se mi ero riproposto di tacere, di non espormi fino a quel punto. Non sei fragile se non lo sembri, ma invece di mantenere la mia apparenza, io avevo ammesso la mia debolezza. Stupido, stupido, stupido.
"Tu puoi tutto bambino mio. Tu puoi fare qualunque cosa. Lui ti ama. Lo si vede in ogni gesto, in ogni piccolo sguardo sul suo viso quando ti guarda. Pensi che io non lo abbia notato sin dal primo giorno in cui lo vidi?" mi dice, come se fosse la cosa più chiara e palese del mondo. "Non sarò un genio come voi uomini Holmes, ma non sono stupida, affatto".
Dopo quello che ha appena detto, non posso fare nulla per impedirmelo ancora. Sollevo una mano e la faccio scorrere sulla ciocca di capelli ribelle che è sfuggita alla treccia, portandola dietro l'orecchio. Piego appena le labbra in un pallido bocciolo di un sorriso.
"No, non lo sei. Tu sei migliore di tutti noi" affermo e ne sono sicuro. Lei abbassa lo sguardo e si siede meglio sul mio letto, sollevandomi delicatamente la testa e invitandomi a posarla sul suo grembo. Rimaniamo in silenzio per qualche minuto, senza bisogno di dire niente. La guardo e lei guarda me, con uno sguardo pieno di dolcezza che mi trasmette una sicurezza che non provavo da troppo tempo.
"Te ne andrai di nuovo, non è vero?" mi domanda poi all'improvviso, e vedo i suoi occhi adombrarsi. Guardo le mie mani e le intreccio, nervosamente.
"Sì. Presto" rispondo, diretto, crudo.
"Presto" ripete, come se così riuscisse a metabolizzare meglio le mie parole e il poco tempo che ci rimane da passare insieme.
"Cercherai di fermarmi?" chiedo. Lei scuote la testa e guarda altrove.
"Non servirebbe a nulla. Lo so" Interrompe il contatto con i miei capelli, e so per certo che non ricomincerà. È il suo modo silenzioso per dirmi che mi accetta ma che non è d'accordo.
“Mi dispiace” mi sforzo di dire. In fondo, soffro a darle quella pena.
“Non dispiacerti per me” sussurra, guardando fuori dalla finestra. “Devi affrontare i tuoi demoni”.
Il silenzio cala ancora. Voglio parlarle ancora, spinto da qualcosa che non so spiegarmi.

"Voglio riuscire ad addormentarmi, mamma. Voglio tornare a sognarlo" dico poi all'improvviso e so che con quella frase, le ho aperto completamente le porte del mio cuore. "Voglio avere almeno una speranza e tutto è nero. Ho paura che lui mi lasci andare".
Lei annuisce di nuovo e mi dice senza parole che sa anche questo, che sa tutto, che conosce ogni sfumatura del mio malessere.
"Una volta, quando aveva cinque anni, tuo fratello mi chiese come mai faticasse ad addormentarsi" comincia a raccontare con la sua voce posata "Io gli dissi che quando non si riesce a dormire è perché si è costantemente svegli nei pensieri di qualcun altro".
Il mio cuore salta un battito e respiro profondamente, come se riprendessi a respirare dopo ore sott'acqua. Mi sento mancare per un secondo e cerco la sua mano, stringendola in cerca della conferma che voglio sentire.
"Ed era vero?" le chiedo. Voglio che mi risponda che sì, era vero, che è sempre vero, come una legge universale mai scritta, perché se così fosse saprei per certo che è lui, soltanto lui.
"Era vero. Ed è vero anche per te" risponde e stringo più forte la sua mano, assaporando con i polpastrelli la delicatezza della sua pelle, il lieve sudore sul suo palmo che si mescola col mio in una mia tacita dimostrazione di affetto.
"Allora spero di non addormentarmi mai più" è la mia risposta sincera, vera, schietta. Rinuncerei a qualunque cosa se bastasse per tornare alla mia vita di sempre, per tornare da lui. Senza riserve o eccezioni. Tutto.
Lei non risponde. Non ce n'è bisogno. Non lascia la presa sulla mia mano e non voglio che lo faccia. 
"Ho una speranza?" domando infine, e so che è una domanda cui nemmeno lei può dare una risposta certa. Voglio sentire comunque la sua voce. Tutto sembra possibile se è lei a dirlo.
"Tutti hanno una speranza. Non dimenticarlo mai" la sua risposta è diplomatica, vaga, ma a me va più che bene così. Non mi illude e non mi annienta. Mi lascia un dubbio, e un dubbio è più di quanto sperassi di poter ricevere.
"Grazie" le dico, la parola che spunta fuori dalle mie labbra senza che io possa fermarla.
"Di niente, Sherlock" mi risponde. Io sorrido e scuoto la testa. È curioso come sia passata al mio nome proprio nel momento in cui le ho palesato la mia unica vulnerabilità.
"Chiamami con il mio nome" le chiedo. Lei capisce immediatamente e comprendo che quello che ho detto poco prima è vero, lei è migliore di tutti noi, lei è oltre. 
"Bambino" sussurra al mio orecchio, prima di sciogliersi i capelli e sdraiarsi lentamente accanto a me. Sa quanto adoravo, da bambino, sfiorare i suoi capelli sciolti quando sedeva accanto a me. Lo faccio anche adesso e affondo il viso tra le ciocche chiare e morbide, lasciando che lei mi culli a sé.
Non voglio pensare a quello che potrebbe succedere. Non voglio credere che tutto possa finire, che John si dimentichi di me e di ogni momento passato insieme quando io ricordo ogni istante trascorso con lui, ogni suono del suo respiro, ogni sfumatura del suo sorriso. 
Voglio pensare che sia davvero lui quello che mi impedisce di cadere nell'oblio del sonno, mi piace credere che anche lui si giri e rigiri nel suo letto ogni notte a causa mia, a causa della sua eterna presenza nei miei pensieri.
Sono egoista. Sono un uomo meschino, spregevole ad augurargli la mia stessa condizione ma mi serve per vivere, il suo pensiero mi occorre per donare respiro ai miei polmoni, sangue alle mie vene e al mio cuore, stimoli al mio cervello.
Mi serve una speranza, è l'unica cosa che può spingermi a continuare, a lottare, a sopportare la lontananza.
Una speranza. Una sola. 
E John, è la mia.

 

 

 

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