Hello
fandom!
E’ l’ultima one-shot che pubblico per adesso, il
prossimo aggiornamento sarà
con l’ultimo capitolo della mia long in corso, giurin
giurello! Su questa non c’è molto da dire, scritta
tutta al cellulare (non so neppure io
come le dita mi funzionino ancora) in un periodo abbastanza particolare
che sto
passando, e spero veramente che vi piaccia. Davvero.
Buona lettura!
S.
Awake
*
“Or
who always sleep eyes open and never
sleep!
This love feel I, that feel no
love in it”
-W. Shakespeare
Non
riesco più a dormire, da quel giorno.
E' inevitabile che la mia mente vaghi inesorabile verso di lui, verso
quello
che ho visto, verso immagini impresse nella mia mente come sanguinanti
incisioni a fuoco.
Credevo fosse finita, quando tornai dalla guerra e incontrai quell'uomo
pazzo
eppure unico, allo stesso tempo. Credevo non avrei più
sofferto, e invece,
sopporterei altri mille proiettili, altre mille lunghe convalescenze in
ospedale se solo servisse a riportare lui da me.
Non riesco più a dormire, perché mi sembra di
vederlo ogni giorno, per le vie
della mia Londra. Lo scorgo in ogni ombra, in ogni sventolio fugace di
un
cappotto scuro e il mio cuore si ferma quando vedo occhi
così simili ai suoi
guardarmi per poi scomparire tra la folla della metro.
Adesso c'è suo fratello di fronte a me, in una delle sue
sempre più frequenti
visite.
Mycroft è sempre più diverso nei miei confronti,
come fossi un cucciolo
bisognoso di cure e affetto, e sorrido ogni volta che ripenso a quanto lui non lo sopportasse.
Forse Mycroft si sente semplicemente in colpa, dopotutto dovrebbe, e
cerca di
limitare i danni con le sue capatine a sorpresa. Non capisce che se
è destino
che io impazzisca per la sua mancanza, la sua presenza non
cambierà affatto le
cose, ma non ho intenzione di dirglielo. Mi conforta vedere qualcosa di
Sherlock in lui, nonostante siano due persone ai completi opposti.
I suoi occhi mi tranquillizzano. Non hanno niente di quelli di
Sherlock, se non
una pallida seppur gradevole sfumatura d'azzurro, ma hanno un effetto
calmante
su di me, come se fin quando quello sguardo sarà puntato su
di me nulla potrà
accadermi. Il mio cuore si ferma quando il più grande degli
Holmes, l'ultimo Holmes, la mia
crudele
coscienza mi spinge a ricordare, abbassa lo sguardo per scrutarmi,
sfiorandosi
il mento con gli indici uniti, come faceva lui.
"Ti vedo stanco, John" mi dice, dopo un sospiro. "Dovresti
riguardarti di più".
Voglio rispondergli maleducatamente, cacciarlo via, dirgli che non ho
bisogno
dei suoi inutili consigli spassionati ma rimango zitto. Non ho voglia
di
litigare.
"Sto bene" mento. "Ho solo qualche problema ad
addormentarmi".
Mycroft mi guarda con espressione contrita ma so che non è
arrabbiato con me. È
il suo modo di farmi capire che disapprova.
"Dovresti lasciare che qualcuno ti aiuti John" è il suo
consiglio.
"Potresti farti prescrivere qualcosa".
Rido, e so che la sta interpretando come una reazione sarcastica. E
infatti, lo
è. Il solito pragmatico senso della consolazione di Mycroft.
Una pillola, un
paio di gocce e tutto passa. Se solo fosse bastato davvero…
"Non posso" gli rispondo, guardandolo negli occhi chiari.
"Preferisco l’insonnia a un sonno indotto da benzodiazepina.
Voglio poter
pensare" concludo.
Lui sospira. Sfiora il manico del suo ombrello con una dolcezza non da
lui.
"E pensare a cosa, John?".
Sorrido, ed è un sorriso amaro.
"Non ho una gran varietà di pensieri negli ultimi tempi.
Vuoi dirmi che
non lo sai?".
Mycroft gioca con il suo orologio -acciaio e inserti d'oro, maledetto
Sherlock
e la sua lezioncina sull’osservare i
dettagli-
e annuisce, con aria onnisciente.
"Fossi nei tuoi panni, cercherei una soluzione. Anche una che va contro
i
miei principi".
Classico. Semplice. Mycroftiano.
"Tu non sei nei miei panni, Mycroft?" domando poi, ma non sono del
tutto sorpreso. I fratelli Holmes non avevano mai seguito i canoni di
comportamento delle persone comuni e non vedo perché il
dolore di una perdita
non debba rientrare i quei canoni.
"Lo sono. Ma mi trovo in una posizione tale che non mi permette di
soffermarmi
su quello che provo o non provo".
Sorrido, senza allegria.
"Potresti chiedere alla vecchia Elizabeth se ha un qualche incarico per
me.
Ammazzarmi di lavoro potrebbe essere anche la mia soluzione al
problema"
scherzo ma so di non essere convincente. Odio dover forzare un
sentimento che
non provo.
Mycroft sorride e capisco che non mi sta prendendo in giro. Al massimo,
mi sta
compatendo.
"Farò qualche domanda in giro, John" mi assicura, stando al
mio gioco
e alzandosi dalla sua poltrona con lentezza, come se lasciarmi gli
costi una
fatica immane. Sento un inaspettato moto d'affetto verso di lui ma non
lo
abbraccerò, su questo può stare sicuro.
"Cerca di stare bene, John" mi augura, sfiorandomi una spalla con la
mano. Non me lo aspettavo, sono interdetto e lo guardo.
"Grazie, tenterò" gli dico.
Lui fa per andarsene e poi si ferma, con la mano sulla maniglia della
porta, e
mi guarda. Sembra combattuto, come se volesse dirmi qualcosa che
farebbe meglio
a non proferire.
Sospira.
"Si dice che quando si fa fatica ad addormentarsi vuol dire che si
è
svegli nei pensieri di qualcuno" esclama, cogliendomi di sorpresa.
Non so come rispondere. Sembra una consolazione, una giustificazione
amichevole
per spingermi a distrarmi, a volgere i miei pensieri altrove mediante
una
metafora romantica, ma conoscendolo, non posso esserne sicuro.
"Sono certo che è così" dico, un sorriso appena
accennato.
"Anche se non credo di essere tanto importante da essere nei pensieri
di
qualcuno ogni notte".
Mycroft ride, ma non riesco a interpretare quella risata. Non
c'è cattiveria,
questo sì, forse compassione e forse, come con Sherlock, un
sottile sottointeso
che forse non coglierò mai.
"Io credo tu lo sia, John. Sei un uomo buono. E qualcuno pensa sempre
ad
un uomo buono".
Scompare dietro la porta nel tempo di un battito di ciglia.
Non so cosa pensare e decido semplicemente di non farlo. Ho bisogno di
un
Time-Out, sono stanco, spossato, distrutto da un incontro che non ho
neppure
disputato. Sono lo zimbello della squadra ma tutto ciò che
voglio e spegnere il
cervello per qualche ora.
Parlare di lui, anche se il suo nome non è spuntato fuori
nemmeno una volta, mi
spossa quasi fisicamente.
Mi sdraio nel mio letto e ricomincio il solito deprimente rituale. Osservo. Passa un'auto, di sotto. Osservo
il riflesso dei fari accarezzare il soffitto, l'armadio, il vecchio
maglione
beige appoggiato sulla sedia. Poi sposto lo sguardo alla finestra. Il
dirimpettaio chiude le tende, poi le riapre, poi le chiude nuovamente
Sorrido.
Credo abbia un serio disturbo d'ansia. Lo fa ogni sera. La Signora
Hudson di
sotto getta la spazzatura, il tonfo del coperchio del bidone che si
richiude è
familiare, confortante.
Quando la sento chiudere a chiave la sua porta, sono più
sveglio che mai.
Non riesco a dormire comunque questa sera, e dubito che ci
riuscirò domani.
L'amore è uno schifo. L'amore non dovrebbe essere affatto
così, un cocktail
letale di sofferenza, dolore e rimpianti. Dovrebbe essere come nei
libri
tascabili di Harry che leggevo di nascosto da ragazzino, quelli con cui
avevo
paura di farmi vedere in giro per non morire d'imbarazzo. L'amore
doveva essere
quello che univa due persone completamente diverse che però
scoprivano di avere
tanto in comune, l'amore doveva essere quel sentimento meraviglioso ed
eccitante
che bramava solo di essere suggellato da un pittoresco bacio sotto la
pioggia.
Il mio amore invece, è solo morte.
Sono un uomo buono, dice Mycroft. Sono un uomo buono innamorato di un
uomo
morto. Sarebbe una buona trama per una sit-com di basso livello ma
purtroppo
per me, è soltanto la mia vita.
Qualcuno mi pensa, ha anche detto. Sono nei pensieri di qualcuno ogni
notte,
qualcuno che mi ruba il sonno, l'incoscienza, la capacità di
abbandonare per
qualche ora la frenetica attività della mia mente.
Non riesco a capire chi, se mai fosse vero. Non so nemmeno chi conosco
talmente
bene da poter meritare un tale onore e onere. O meglio uno
c'è, o meglio c'era.
Spero davvero che le persone possano pensare
nel luogo dove lui è adesso, quel posto che mi piace credere
sia il Paradiso, o
almeno, qualcosa di molto molto simile. Mi piace pensare che danni
l'anima a
qualche povera creaturina volante per farsi preparare il suo the
pomeridiano
con il giusto dosaggio di latte.
Mi sento annegare senza di lui e non ho nulla intorno a me a cui
potermi
aggrappare. Sprofondo, e non sono nemmeno sicuro, a volte, di
desiderare che
qualcuno mi salvi.
La mattina mi alzo dal letto spiegazzato, caldo, le lenzuola
quasi rose
dal continuo movimento. Ogni gesto è meccanico dal momento
in cui poggio il
piede sul parquet scricchiolante. Un primo cigolio stridulo e arrivo
alla
porta, entro in bagno, accendo la doccia e lascio che l'acqua scorra,
sperando
di sentire un'esplosione dal piano di sotto, un rumore di passi lungo
le scale,
un insistente bussare alla porta seguito da un'esortazione a scendere
per
placare un principio d'incendio.
Tutto quello che sento intorno a me invece, una volta girato
l'interruttore
della doccia, è solo il lento gocciolare del rubinetto
difettoso. Scorgo quasi
una voce, nel lieve ma roboante tic tic
tic delle gocce nell'acqua schiumosa, come un mantra
lamentoso, cadenzato,
come quelle preghiere che ti spingono in un lieve torpore. Sembrano
chiamarmi.
John John John John John.
Ma non sono quelle labbra a pronunciarlo. E' solo il freddo metallo, e
la
ruggine, e l'acqua e la ceramica bianca. Fredda. Inumana.
Non è lui. Non sarà lui mai più.
La Signora Hudson tossisce al piano di sotto, la sento sedersi sul
vecchio
materasso cigolante che non vuole sostituire. Dice che non lo fa per il
suo significato. La sua vita a
Londra, il
suo matrimonio, anche se non era stato esattamente come lei aveva
sognato,
l'idea di casa, calore, conforto.
Io non riuscirei. Non ce la farei. Se solo non sapessi dell'enorme
errore che
commetterei facendolo, chiuderei Sherlock in un vecchio scatolone,
identico a
quello dove tengo la mia uniforme, le mie piastrine, il berretto e le
vecchie
fotografie. Se solo non sapessi del dolore ancora più
immenso che mi
causerebbe, lascerei che il ricordo dell'uomo che amavo si ricopra di
quella
spessa patina di polvere, dimenticanza e abbandono di tutto il resto
dei miei
ricordi.
So che non lo farò mai. So che morirei piuttosto che
lasciare che la sua
memoria svanisca come una goccia d'acqua in un nubifragio.
Lo amo ancora, oltre qualsiasi ostacolo, oltre ogni pregiudizio, male
lingua o
chissà cos'altro. Lo amo oltre la morte. E se quest'amore mi
pregiudicherà
qualsiasi mia capacità di amare chiunque altro, io lo
accetterò di buon grado.
Non voglio che ci sia nessun altro. Abbraccerò una vecchia
fotografia, bacerò
quel logoro cuscino che donava sollievo alla sua schiena,
farò l'amore con la
sua immagine, nei sogni. Se i sogni potranno riportarlo indietro da me,
allora
vivrò in loro vece, ignorando tutto il resto. Che la vita
scorra, io sto bene
qui.
"Quando non si riesce a dormire,
vuol dire che si è svegli nei pensieri di qualcun altro"
ha detto
anche Mycroft.
Non voglio che sia la Signora Hudson, ma so, per una ragione a me
ignota, che
non è lei, nonostante il suo affetto sia costante e
profondo. Non è Harry, che
ha molti più problemi da sé senza che si metta a
preoccuparsi dei miei, non è
Lestrade, non è Sarah né qualcuno dei vecchi
amici spuntati fuori nel momento
del bisogno.
Lo sento, ma forse in cuor mio
è solo
quello che il mio inconscio vuole sentire.
Voglio che sia lui. Voglio che sia Sherlock. Voglio che le parole dolci
di mia
madre, le sento ancora come se fossero state pronunciate ieri, siano
vere.
"Nessuno
ci lascia mai veramente"
disse, dopo la morte del nonno.
Vorrei allungare la mano e sapere che c'è, senza bisogno di
parole, solo sapere
che è lì, che è con me, sempre.
Lo voglio con me, sono egoista, avido, mai sazio di lui, come se fossi
un
assetato e lui fosse acqua pura, sorgiva. Sono un assetato, ma tutto
ciò che mi
lasciano bere è acqua salata, dal sapore pungente e amaro,
lasciandomi sempre
più disidratato, in attesa, in un limbo eterno.
Mi basterebbe anche solo un momento. Vorrei potergli dire quello che
significa
per me.
Vorrei che fosse lui, colui che mi impedisce di riposare. Se solo ne
avessi la certezza,
potrei vivere in pace per il resto della mia vita.
Solo un segno, e potrei chiudere gli occhi e ricominciare a vivere.
§
La mia
vecchia stanza è esattamente come la ricordavo, esattamente
come l'ultimo giorno in cui vi dormii. I poster erano ancora incollati
alle
pareti, quello della grande tavola periodica che troneggiava su tutti
gli altri
perfettamente allineato con il controsoffitto, come se la mia
previdente madre
avesse predetto una mia futura lunga permanenza e avesse insistito
perché la
manutenzione non mancasse mai. Le pareti erano dello stesso pallido
colore
azzurro di cui erano sempre state e il lampadario in vetro rifletteva
un raggio
di sole proveniente dalla persiana semichiusa. La persiana
sì, era diversa.
Nuova, di un verde lucido e chiaro, non quella vecchia, con le
listarelle
scrostate a staccare dal predominante verde acceso. Avrei preferito
quelle di
prima. Mi avrebbero ricordato quelle di casa.
L'armadio è vuoto, le ante spalancate a fare da lignea
cornice ai disegni
damascati al suo interno.
Passo ogni notte ad osservarli, a delineare con gli occhi ogni cresta,
punta o
iperbole.
Non dormo più. Non mi ricordo quasi più come si
fa. E mi pesa, nonostante non
sia mai stato uno abituato ad un sonno regolare, perché
nonostante io lo veda
costantemente nella mia mente, nonostante io possa quasi plasmare la
sua
immagine con il mio cervello, non ho più quel sollievo
totale, spontaneo e
meraviglioso del vedere John nei miei sogni.
Amare mi fa schifo. Perché non voglio stare in questo modo,
perché non vorrei
desiderare di rivederlo così fortemente, perché
vorrei non odiarmi così tanto
ripensando a come l'ho lasciato.
Amo e odio John per come mi fa sentire. Amo e odio John
perché il suo costante
pensiero mi impedisce di dormire e quindi allo stesso tempo di
rivederlo. Non
ha senso, lo so, ma non importa. Nulla legato a me ha mai senso,
secondo la
maggioranza della gente, e non m'interessa.
Guardo la polvere levitare lenta in cerchi casuali nell'unico fascio di
luce
che entra nella stanza. Mi viene in mente quando da piccolo credevo
fossero
lucciole, quelle minuscole particelle lucenti che vagavano per la mia
stanza.
Ricordo di come mi ero attrezzato per poterle catturare, con la
complicità di
mia madre, con un vecchio setaccio per la farina, per poterle tenere
nel mio
piccolo zoo personale in giardino. La delusione dentro di me, scoperta
la
verità, era stata quasi palpabile, forte, profonda. Poi mia
madre mi aveva
preso da parte e mi aveva detto che se volevo che quei granelli
divenissero
lucciole potevo farlo, con la mia mente, con il dono della mia
immaginazione. E
la delusione era svanita in meno di un secondo.
Ora vorrei che lei me lo dicesse ancora, che mi dicesse che per avere
John qui
devo solo chiudere gli occhi, immaginare che la vecchia cassapanca
tarlata sia
in realtà il nostro tavolino da caffè e che John
sia dall'altra parte di esso,
con indosso uno dei suoi maglioni a righe a lamentarsi della confusione
in
salotto.
Purtroppo per me, sono adulto, ora.
Qualcuno bussa alla mia porta, e svogliatamente mi passo la mano tra i
capelli,
alzandomi dalla posizione supina assunta sul letto.
"Avanti" dico, in tono neutro. Spero non sia Mycroft. Non voglio
parlare con lui e della sua ultima visita a Baker Street,
perché so che vorrei
conoscere ogni particolare della sua conversazione con lui. Una parte
di me ha
paura di sapere. Sapere che sta male mi distruggerebbe, ma allo stesso
tempo
sapere che tutto va bene, mi ucciderebbe.
Quando la porta si apre, il visitatore si rivela essere mia madre. Lei
e
Mycroft hanno lo stesso modo di bussare alla porta. Non so se
è mio fratello ad
essere troppo delicato, quasi esitante, o mia madre ad essere troppo
energica.
"Ciao bambino" mi dice con un sorriso. Non lo ricambio. Non sono un
bambino, e forse non lo sono mai stato davvero, lucciole e pirati a
parte, ma
lei continua a chiamarmi in quel modo.
"Ciao mamma" dico, guardando ancora la finestra.
"Sono
felice che tu sia qui" mi dice,
e sento una mano sfiorare i miei capelli. La sua carezza è
lenta, metodica,
sempre la stessa. Come faceva quando ero bambino e faticavo a prendere
sonno.
"Sono
qui da una settimana" le faccio
notare in tono distaccato. Vorrei avere più riguardo per
lei, lo vorrei veramente,
ma la mia lontananza da lui sembra aver prosciugato ogni traccia di
amore, in
me. Lei si adombra, ma dura un secondo. La carezza si fa più
profonda.
"Lo
so, ma sentivo il bisogno di dirtelo
ora" mi risponde. Cala il silenzio, per almeno cinque minuti. Io
comprendo. E' palese.
"Sai"
mi basta dire. Lei sospira.
"Tuo
fratello mi ha detto cosa hai fatto
quando sei stato via. Prima di tornare qui da me".
Apro
gli occhi e fisso il soffitto, stringendo i
denti e reprimendo l'insulto che ho in serbo per Mycroft, torno a
guardarla. I
suoi occhi, uguali ai miei in ogni sfumatura, sono tristi.
"Non
avrebbe dovuto. Non era necessario
dirtelo ora" esclamo, e da qualche parte dentro di me, cerco di
immaginare
la pena di mia madre nel sapermi da qualche parte del mondo alla
ricerca di un
manipolo di assassini. Stranamente, in fondo al cuore, sento uno strano
impulso
smuovermi. Vorrei sorriderle e confortarla. Stringerla per un secondo.
Non lo
faccio.
"E
invece ha fatto la cosa giusta. Non puoi
tagliarmi fuori dalla tua vita, bambino".
Sorrido,
senza alcuna allegria. Mi ha chiamato
di nuovo in quel modo, oltretutto.
"Tagliarti
fuori dalla mia vita è il
miglior regalo che potrei farti, mamma".
Lei
non dice nulla e sento che è combattuta. Sa
che cosa intendevo dire con la frase di poco prima, ma quello che la
distrugge
è un altro dubbio.
"Non
m'importa se lo fai per tenermi al
sicuro. Se lo scotto da pagare per non perderti è quello di
vivere in costante
pericolo io sono pronta a pagare" è la sua risposta. La
conosco. L'avevo
predetta sin da quando aveva formulato l’affermazione
precedente.
"John
avrebbe fatto lo stesso"
aggiunge poi e il mio cuore ha un fremito, come se un proiettile
invisibile gli
fosse passato accanto di striscio. Non voglio parlare di lui. Non con
lei. Non
voglio parlare di lui con nessuno se non me stesso.
"John
non c'entra".
"So
che non vuoi parlarne. So cosa ti
distrugge. Non sono qui per contestare la tua decisione".
"Non
vuoi parlarne? Non è quello che
sembra".
"È
quello che è" la sua voce è secca,
autoritaria. È seria ora. È la Signora Holmes
adesso, non la madre dolce e
amorevole. Non parlo.
"So
che pensi a lui ogni notte, Sherlock.
Ti sento... pensare" il suo tono
è preoccupato, ma la voce cambia in un tono sereno, come se
non volesse trasmettere
a me quella preoccupazione.
"Non
posso farci niente. Non posso smettere
di pensare" dico, non voglio parlare di questo, non adesso, non posso
parlare di lui, la ferita è aperta, i punti freschi, non
voglio che si riaprano,
non voglio sanguinare ancora.
"Bambino...
"
"Io
l'ho fatto per lui" mi difendo. È
vero, per lui, per la sua sicurezza, per far sì che lui
avesse un futuro. C'è
davvero cattiveria in questo?
"Io
lo so" dice, e mi spiazza
completamente. Non so cosa pensare.
"Io
so che non è per questo che non dormi
più. Io so che temi che quando ritornerai da lui, lui
potrebbe non volerti
più".
Guardo
mia madre senza dire niente. Non voglio
sapere come abbia fatto a leggermi dentro tanto profondamente. Non mi
sento
degno di conoscere la maniera in cui ha letto sul mio viso e sul mio
corpo
segni di un qualcosa rimasto sempre celato, qualcosa che ho cercato
sempre di
lasciare custodito dentro di me.
Segreti
di una madre, suppongo, segreti che
rimarranno per sempre tali e che io non comprenderò
probabilmente mai.
Non
negherò. Non ne ho la forza.
"Lui
non mi vorrà. Mi accuserà di non
essermi fidato di lui" affermo, aspettando una sua frase di conforto.
"Probabilmente
sarà così" dice invece,
spiazzandomi. La guardo, la mia bocca semiaperta in un'espressione
sorpresa.
Smette per un secondo di pettinarmi le ciocche tra le dita e mi
sorride. Il suo
tocco mi manca.
"Il
tuo compito sarà spingerlo a
comprendere il tuo gesto, bambino
mio"
bisbiglia al mio orecchio, poggiando
un bacio sulla mia guancia. "Sarà lungo, magari difficile,
ma tu ce la
farai. Sei forte. Lo sei sempre stato".
La
guardo. Improvvisamente sento qualcosa, la
stessa lieve sensazione di poco prima moltiplicata per dieci, e ho
voglia di
baciarla, stringerla, dirle che le voglio bene più di quanto
riesca a esprimere
con gesti o parole. Non riesco ancora. Non lo faccio da troppo tempo.
"Non
mi è mai successo, non così. Non mi è
mai successo di perdere il sonno e la ragione per una persona"
sussurro.
"Per un uomo".
Lei
annuisce e sorride appena. Riprende la sua
carezza, con dolcezza.
"Per
un amico" mi corregge lei.
"Lui
è di più" mi ritrovo a dire e mi
mordo la lingua fino a sentire il sapore metallico del sangue,
nonostante io
sappia che lei sa.
"È
chiaro" afferma, con voce
cristallina. Osservo il suo viso prima di rispondere. Rughe profonde
solcano il
suo viso adesso, al contrario di quando vivevo stabilmente qui. I
capelli sono
raccolti in una treccia che scivola sulla spalla, e i capelli, una
volta rossi
come il fuoco, sono striati di grigio ma ancora lisci e lucidi come
seta. È
bella. Bellissima. Lo è sempre stata. Penso a John, a quando
sarà vecchio, i
capelli biondi ormai bianchi e il suo bel volto segnato
dall'inevitabile
passare del tempo. Immagino chi potrà essere al suo fianco e
la mia crudele coscienza
non palesa la mia immagine ma quella di una donna senza volto, una
donna che lo
tiene per mano e lo bacia teneramente. Un lamento esce dalla mia gola a
quel
pensiero e chiudo gli occhi, scacciando quell'immagine.
"Io
non so più che pensare. Mi confonde. Mi
spaventa" ammetto, anche se mi ero riproposto di tacere, di non espormi
fino a quel punto. Non sei fragile se non lo sembri, ma invece di
mantenere la
mia apparenza, io avevo ammesso la mia debolezza. Stupido,
stupido, stupido.
"Tu
puoi tutto bambino mio. Tu puoi fare
qualunque cosa. Lui ti ama. Lo si vede in ogni gesto, in ogni piccolo
sguardo
sul suo viso quando ti guarda. Pensi che io non lo abbia notato sin dal
primo
giorno in cui lo vidi?" mi dice, come se fosse la cosa più
chiara e palese
del mondo. "Non sarò un genio come voi uomini Holmes, ma non
sono stupida,
affatto".
Dopo
quello che ha appena detto, non posso fare
nulla per impedirmelo ancora. Sollevo una mano e la faccio scorrere
sulla
ciocca di capelli ribelle che è sfuggita alla treccia,
portandola dietro
l'orecchio. Piego appena le labbra in un pallido bocciolo di un sorriso.
"No,
non lo sei. Tu sei migliore di tutti
noi" affermo e ne sono sicuro. Lei abbassa lo sguardo e si siede meglio
sul mio letto, sollevandomi delicatamente la testa e invitandomi a
posarla sul
suo grembo. Rimaniamo in silenzio per qualche minuto, senza bisogno di
dire
niente. La guardo e lei guarda me, con uno sguardo pieno di dolcezza
che mi
trasmette una sicurezza che non provavo da troppo tempo.
"Te
ne andrai di nuovo, non è vero?"
mi domanda poi all'improvviso, e vedo i suoi occhi adombrarsi. Guardo
le mie
mani e le intreccio, nervosamente.
"Sì.
Presto" rispondo, diretto, crudo.
"Presto"
ripete, come se così
riuscisse a metabolizzare meglio le mie parole e il poco tempo che ci
rimane da
passare insieme.
"Cercherai
di fermarmi?" chiedo. Lei
scuote la testa e guarda altrove.
"Non
servirebbe a nulla. Lo so"
Interrompe il contatto con i miei capelli, e so per certo che non
ricomincerà.
È il suo modo silenzioso per dirmi che mi accetta ma che non
è d'accordo.
“Mi dispiace” mi sforzo di dire. In fondo, soffro a
darle quella pena.
“Non dispiacerti per me” sussurra, guardando fuori
dalla finestra. “Devi
affrontare i tuoi demoni”.
Il silenzio cala ancora. Voglio parlarle ancora, spinto da qualcosa che
non so
spiegarmi.
"Voglio
riuscire ad addormentarmi, mamma.
Voglio tornare a sognarlo" dico poi all'improvviso e so che con quella
frase, le ho aperto completamente le porte del mio cuore. "Voglio avere
almeno una speranza e tutto è nero.
Ho
paura che lui mi lasci andare".
Lei
annuisce di nuovo e mi dice senza parole che
sa anche questo, che sa tutto, che conosce ogni sfumatura del mio
malessere.
"Una
volta, quando aveva cinque anni, tuo
fratello mi chiese come mai faticasse ad addormentarsi" comincia a
raccontare con la sua voce posata "Io gli dissi che quando non si
riesce a
dormire è perché si è costantemente
svegli nei pensieri di qualcun altro".
Il
mio cuore salta un battito e respiro
profondamente, come se riprendessi a respirare dopo ore sott'acqua. Mi
sento
mancare per un secondo e cerco la sua mano, stringendola in cerca della
conferma che voglio sentire.
"Ed
era vero?" le chiedo. Voglio che
mi risponda che sì, era vero, che è sempre vero,
come una legge universale mai
scritta, perché se così fosse saprei per certo
che è lui, soltanto lui.
"Era
vero. Ed è vero anche per te"
risponde
e stringo più forte la sua mano,
assaporando con i polpastrelli la delicatezza della sua pelle, il lieve
sudore
sul suo palmo che si mescola col mio in una mia tacita dimostrazione di
affetto.
"Allora
spero di non addormentarmi mai
più" è la mia risposta sincera, vera, schietta.
Rinuncerei a qualunque
cosa se bastasse per tornare alla mia vita di sempre, per tornare da
lui. Senza
riserve o eccezioni. Tutto.
Lei
non risponde. Non ce n'è bisogno. Non lascia
la presa sulla mia mano e non voglio
che lo faccia.
"Ho una speranza?" domando infine, e so che è una domanda
cui nemmeno
lei può dare una risposta certa. Voglio sentire comunque la
sua voce. Tutto
sembra possibile se è lei a dirlo.
"Tutti hanno una speranza. Non dimenticarlo mai" la sua risposta
è
diplomatica, vaga, ma a me va più che bene così.
Non mi illude e non mi annienta.
Mi lascia un dubbio, e un dubbio è più di quanto
sperassi di poter ricevere.
"Grazie" le dico, la parola che spunta fuori dalle mie labbra senza
che io possa fermarla.
"Di niente, Sherlock" mi risponde. Io sorrido e scuoto la testa.
È
curioso come sia passata al mio nome proprio nel momento in cui le ho
palesato
la mia unica vulnerabilità.
"Chiamami con il mio nome" le chiedo. Lei capisce immediatamente e
comprendo che quello che ho detto poco prima è vero, lei
è migliore di tutti
noi, lei è oltre.
"Bambino" sussurra al mio orecchio, prima di sciogliersi i capelli e
sdraiarsi lentamente accanto a me. Sa quanto adoravo, da bambino,
sfiorare i
suoi capelli sciolti quando sedeva accanto a me. Lo faccio anche adesso
e
affondo il viso tra le ciocche chiare e morbide, lasciando che lei mi
culli a
sé.
Non voglio pensare a quello che potrebbe
succedere. Non voglio credere che tutto possa finire, che John si
dimentichi di
me e di ogni momento passato insieme quando io ricordo ogni istante
trascorso
con lui, ogni suono del suo respiro, ogni sfumatura del suo sorriso.
Voglio pensare che sia davvero lui quello che mi impedisce di cadere
nell'oblio
del sonno, mi piace credere che anche lui si giri e rigiri nel suo
letto ogni
notte a causa mia, a causa della sua eterna presenza nei miei pensieri.
Sono egoista. Sono un uomo meschino, spregevole
ad augurargli la mia stessa condizione ma mi serve per vivere, il suo
pensiero
mi occorre per donare respiro ai miei polmoni, sangue alle mie vene e
al mio
cuore, stimoli al mio cervello.
Mi serve una speranza, è l'unica cosa che può
spingermi a continuare, a
lottare, a sopportare la lontananza.
Una speranza. Una sola.
E John, è la mia.
*