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Autore: Dernier Orage    22/08/2012    1 recensioni
Seguito di No Human Can Drown.
Michelle richiedeva le coccole del padre quanto Louise tendeva ad esasperarlo. Forse era genetico oppure una questione di abitudini; Annik Alunir, la nonna delle bambine, trovava come spiegazione la massima “non si sa quale forma possa prendere un desiderio, può manifestarsi in un figlio concepito pensando involontariamente ad un’altra persona” – Stéphane era certo che la madre se la fosse inventata. Quando andava a prendere a scuola la figlia minore tendeva ad accontentare ogni sua richiesta di soste lungo i giardini, tazze di cioccolata calda alla ricerca di un café che le accompagnasse con un piattino di caldi churros.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'No Human Can Drown '
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Your Smile and the Other Lies





Metà Giugno
L’aria dei ventilatori non bastava a rinfrescare la libreria, si abbatteva contro gli scaffali e non circolava tra i corridoi. Sollevava le copertine dei libri in esposizione nella vetrina, libri antichi, lontani dalle mode letterarie del momento, dalle classifiche dei più venduti, dalla critica furiosa e plastica. Libri da leggere in silenzio, per non rivelare i loro segreti, muri di parole ormai desuete.
Il caldo faceva venire dolorosissime emicranie a Carole, cercava distratta refrigerio in un bicchiere di carta pieno di milkshake alla fragola, piccoli sorsi aspirati con la cannuccia rosa. Si faceva aria con un ventaglio, un gesto quasi istintivo, lo sventolava furiosamente, era di plastica, pescato tra tanti in un cesto di vimini alla cassa di un magazzino cinese. Aveva spento lo stereo e le casse nascoste sopra gli scaffali avevano emesso degli inquietanti stridìi. Carole gettò la custodia di un CD masterizzato in un tirétto della cassettiera metallica, c’era una collezione di dischi non indifferente ma confusionaria, da Barry McGuire ai Doors, dai Sound ai Complot Bronswick, un gruppo originario di Rennes, e poi i Bunker Strasse, il duo Kas Product. Attirava lo sguardo la copertina ciano con scritto semplicemente “Dvořák” e seguito in corsivo da “orchestrato da Jarmil Burghauser”.
Carole stava immaginando un pachiderma rosa che attraversava gli Champs-Élysées, era enorme, con la proboscide teneva un mazzo di margherite, sbatteva le palpebre per scacciare le luci stroboscopiche del corteo di sapeur-pompier che lo accompagnava verso l'arc de triomphe. A stento udì il campanello sopra la porta che annunciava un cliente, venne invece disturbata dal fracasso dietro gli scaffali e le étagères. Vide una signora anziana con un vestito a fiori ed una borsetta di lacca bianca ma aveva lo sguardo ancora appannato dal sogno ad occhi aperti.
- Buongiorno, aspetti un attimo, la prego.- Disse precipitosa quando si riscosse; si dileguò nel retro della libreria.- Ismaël, che succede?-
- Sono caduto dal divano.- Bofonchiò il datore di lavoro seduto di traverso e scarmigliato.
- Caduto dal divano, ma che?- Domandò stupita la ragazza; la lampada, di solito accesa, sulla scrivania ed il computer erano spenti, quell’intero angolo della libreria era nella penombra.
- Mi sono un attimo addormentato.- Minimizzò Ismaël cercando di liquidare il tutto con una scrollata di spalle, ma l’espressione sconvolta da chi si è svegliato di soprassalto lo tradiva.
- Non dormi di notte?- Chiese apprensiva Carole guadagnandosi un’occhiate eloquente.- Vado, c’è una signora.-
Ismaël rimase a guardare i profili delle due donne, Carole, da dietro al bancone, era china su dei cataloghi, la signora si era voltata per vedere a che categoria corrispondessero i libri allineati negli scaffali a muro, tra le mani teneva una piccola borsetta bianca e, ogni tanto, vi tamburellava sopra con la punta delle dita.
- Cosa cerca?- Mormorò Ismaël quando vide ritornare la ragazza.
- Le Juif errant di…- Cominciò Carole allontanandosi ed avvicinandosi ad uno scaffale come molte persone fanno davanti ai quadri dei musei, per catturare sia il colpo d’occhio che il particolare.
- Eugène Sue.- Ismaël recuperò il portasigarette da una tasca della giacca abbandonata sullo schienale del divano. Si prese il tempo necessario a tirare fuori una sigaretta, accenderla ed inspirare profondamente, poi aggiunse:- In basso, a sinistra. Ecco.-
Quando, un paio d’ore dopo, Stéphane entrò nella libreria, Ismaël seppe d’aver sprecato un’intera mattinata a fumare e fissare il vuoto. Eppure Stéphane era raggiante, lui gli aveva preso il polso per controllare l’orologio ed aveva continuato a tenerlo per mano.
Stéphane era rimasto in piedi, gli aveva ricordato del pranzo nel microonde, pronto ad esser scaldato, gli aveva chiesto come stava, si era avvicinato e lo aveva abbracciato, aveva detto che doveva andare a prendere Michelle a scuola perché sennò avrebbero ritardato all’appuntamento dal dentista. Ismaël aveva visto la sua mano scivolare dalle dita, aveva sentito le sue labbra premute contro la bocca. E poi Stef se n’era andato.
Stef se n’era andato ed Ismaël era rimasto a fumare sul divano.

Louise, a dodici anni appena compiuti, veniva accompagnata a scuola e, invece, tornava a casa da sola. Quel martedì diciassette Giugno – mancavano neanche dieci giorni all’inizio delle vacanze estive, cercando di sopportare il caldo e il vociare degli italiani e degli spagnoli, raggiunse la libreria. A casa non c’era nessuno, sarebbe potuta andare con Jasmine per negozi ma voleva aspettare l’inizio dei saldi. Victorio era tornato a Formentera per passare l’estate con il padre, la madre di Touria era venuta a prenderla a scuola, Julie era in punizione e Alice era partita con il padre per Tahiti, dopo la morte della madre era rimasta per due settimane a casa loro, la notte piangeva e lei provava a consolarla con il cuore stretto e costretto tra le costole. Si immaginava nella stessa situazione, si chiedeva cosa sarebbe successo, fosse morto Ismaël, il padre sarebbe impazzito; fosse morto il padre, lei sarebbe finita con la madre o, con un po’ di fortuna, con la nonna. L’idea stessa le dava troppi pensieri e preoccupazioni.
In negozio c’era soltanto Ismaël, poteva giocare indisturbata al computer mentre lui stava alla cassa. Separava le carte rosse da quelle nere e le allineava in ordine decrescente, sullo schermo del monitor c’era un fastidioso riflesso dovuto alla polvere.
- Se vuoi il the, è pronto. In quella scatola ci sono dei biscotti al burro.- Le disse Ismaël ruotando sullo sgabello, la vide sbadigliare sommessamente.- Sei stanca?-
- Il the è freddo? Li ha portati una cliente?- Domandò Louise osservando i fuochi d’artificio che festeggiavano la conclusione di una partita al computer. Erano color ciano, magenta e giallo.
- A temperatura ambiente. Sai che li ha portati la madre di Carole? Non sono poi così cattivi.- Erano biscotti di tipo danese, molto dolci e pastosi, differenti dai palets bretons, friabili, dai deliziosi sentori salati del burro e morbidi dello zucchero vanigliato. Si trovavano sovente nel reparto dei prodotti regionali dell’Auchan.
Louise si era inginocchiata sulla sedia ed aveva aperto il quaderno di matematica, ogni tanto smangiucchiava un biscotto, soffiava via le briciole e cercava di non rovesciare il the sopra i compiti.
Capitava che il disegno fosse l’unico modo per vedere i cambiamenti del tempo nelle persone vicine, come guardare fotografie scattate a distanza di mesi, ma molto più profondo e sconvolgente, non manifestandosi direttamente agli occhi ma con leggere diversità dei movimenti tracciati a matita. Nei ritratti di Louise il mento si faceva appuntito, le sopracciglia dritte, scure e sottili. Le guance scavate evidenziavano gli zigomi. Ismaël rimaneva disorientato a non riconoscerla completamente. I suoi tratti poco precisi, scuri di mine morbide, dati con velocità e caparbietà, si incuneavano, si accavallavano, si incrociavano, saturavano la carta. Nei pochi dettagli a favore dell’immediatezza espressionista spiccavano gli occhi, enormi, vuoti, appena tinti con la grafite rimasta sulla punta delle dita.
- Posso muovermi?- Borbottò Louise aggrottando la fronte, doveva scostarsi i capelli dagli occhi, doveva cercare sul libro un’altra pagina con una colonna di esercizi.
- Sì, tranquilla.- Ismaël lasciò la matita sul bancone, piegò il foglio in quattro e lo coprì con un quaderno cartonato.- Sai che mi sono innamorato di tuo padre ritraendolo?-
Louise sentì la curiosità crescere e volle farsi raccontare. Ismaël le spiegò che, quando frequentò la première littéraire, scelse come materia Arte perché garantiva settantadue ore annuali di laboratorio, d’atelier d'expression artistique, e poi come terza lingua l’Italiano, abbandonato prontamente il Settembre successivo. Dopo un trimestre a ricopiare nature morte, Côme, l’insegnante, propose di mettersi a coppie per una prima lezione di ritratto frontale e profilo. Nella narrazione, Ismaël represse ogni dubbio riguardo all’avvenimento, ogni esitazioni di fronte alle date o alle variazioni di intensità, decise che quel pomeriggio sarebbe stato la svolta su cui basare l’intera storia, l’intera vita. Tra i cavalletti e le tavole di legno, il foglio teso con tre puntine, la musica proveniente da un mangianastri sulla cattedra, aveva notato per la prima volta la fronte spaziosa di Stéphane, il naso non troppo pronunciato, dritto e sottile fino alla curva arrotondata della punta, la fossetta sopra il labbro superiore, il colore della bocca, la linea del mento. Forse per la prima volta percepì Stéphane come un’entità separata, lontana, entrata per caso nella sua orbita e scombussolata dalla stessa. Notò il colore degli occhi, della pelle. Con un pennello imbevuto di acquerello blu gli aveva percorso una guancia. Già conosceva il corpo di Stéphane in rapporto al suo, le eccitazioni, i brividi, le preferenze, ma, quel pomeriggio, scoprì la sua individualità.

Fine Giugno
L’aria rovente creava una zona sfocata poco sopra il livello della strada. Se Stéphane avesse lasciato vagare la mente avrebbe potuto immaginare l’asfalto sciogliersi sotto le ruote e colare verso i guardrail dell’autostrada infinita per Brest.
Abbassò la musica e alzò l’aria condizionata, Louise fingeva di dormire e Michelle lo faceva sul serio. Macinava chilometri in tranquillità, il traffico nella direzione opposta; aveva rallentato quando un’automobilista gli aveva lampeggiato, aveva controllato che le figlie avessero le cinture di sicurezza. Aveva distinto i profili di una pattuglia di flics dietro un’insegna, mimetizzati, pronti a prendere le targhe; era tranquillo, guidava appena sotto al limite, aveva i fari accesi.
Raramente vedeva le croci verdi luminose delle farmacie, soprattutto nelle zone commerciali e industriali delle periferie, incastonate tra i capannoni di una catena di abbigliamento, o di articoli sportivi, o arredamento, o ristorazione, piccole botteghe dagli interni bianchi, non legni e ampolle ma truciolati impiallacciati. Via via che si avvicinavano al Finistère, i numeri dei gradi centigradi diminuivano, fino a trovare una leggera pioggia negli ultimi cento chilometri, capace di scongiurare il traffico del rientro dopo una giornata al mare.
Le bambine scaricarono i loro borsoni, Stéphane le aiutò a portarli fino all’ultimo piano, lui sarebbe ripartito la sera dopo.
L’appartamento sfitto del secondo piano aveva cambiato la porta blindata, probabilmente dentro era stato completamente rinnovato. Sicuramente sua zia Alice aveva chiamato per chiedere quanto era l’affitto, Stéphane non pensava che fosse una buona idea: erano quasi trent’anni che sua zia viveva da ospite, sui divani e sulle brandine delle case dei fratelli o della sorella, da amici in giro per il mondo, certe cose non andrebbero cambiate. Chissà quale allineamento di pianeti aveva portato il nucleo originario della famiglia Alunir, indigeni e legati al territorio, a vagare per il mondo, portare il cognome in Germania, in Inghilterra del Nord. Tenersi in contatto garantiva il modo più economico di viaggiare. Giusto l’anno precedente, Friedrich, suo cugino, aveva passato l’estate a Parigi, in casa loro; non era stato facile rilassare la tensione iniziale, non sapeva come trattare Ismaël e un po’ lo metteva in soggezione.
Il gradimento di certi piatti si basava su quante sensazioni positive fossero in grado di scatenare, allacciandosi ai ricordi, ai colori. Un piatto etnico o sconosciuto doveva avere almeno una percentuale, ben definita, di sapori comuni. C’era la tovaglia blu con i girasoli, una brocca d’acqua traboccante di cubetti di ghiaccio. Sul piatto gli spinaci, l’uovo al tegamino e le patate bollite al burro, occupavano tre spazi ben distinti, mancava un po’ di sale e il pepe. Era buono, quel buono composto da sapori semplici da comprendere, ben bilanciati, carezzevoli ma di consistenze differenti.
Annik aveva i capelli corti biondo platino, la permanente e la matita azzurra sotto gli occhi. Era felice di stare con le nipoti e le bambine sarebbero state più libere che a casa. Louise raccontava dell’ultimo giorno di scuola, del fermento, di due ragazze che piangevano. Il padre notò come cercasse di omettere dalla narrazione il bacio sul naso da parte di un compagno di classe. A lui l’aveva raccontato imbarazzatissima.
Il telefono squillava a vuoto. Ismaël non rispondeva, probabilmente era con Marc, chissà se a cena fuori o già a letto. Faceva un po’ male, ma non tantissimo.
Stéphane temeva che un giorno gli potesse capitare di sentire l’odore di Marc tra i capelli di Ismaël. Non si sarebbe arrabbiato, ne sarebbe rimasto turbato.













   
 
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