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Autore: IreneZolea    23/08/2012    0 recensioni
Vicino Oriente Antico, anno 1115 a.C.
Agli albori dell'Età del Ferro, tra sangue e polvere, il racconto si dipana narrando le vite degli uomini in Mesopotamia, la Terra tra i Due Fiumi. Tutto inizia durante il sedicesimo anno di regno del Servo di Aššur, il Sovrano assiro Assûr-rēsh-išhi.
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Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità
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-VI-
 

La sera giunse fresca. Era l'ultimo sussulto dell'estate e l'autunno aveva fretta, ma Padū-Ḫepa non riusciva a rammentare il nome con cui aveva chiamato, da bambina, quel periodo dell’anno. Sapeva che in Assiria era chiamato mese di Abū, e tanto le bastava.
Attendeva sull’uscio della tenda Ešarra, rapita dalle stelle che sorgevano. Quante ce n'erano, quella notte! Come gioielli trapuntati sulla stoffa nera del cielo. Il pensiero corse a Issh-ā, la moglie del Principe. Rabbrividì, e le sembrò che l'aria fosse divenuta velenosa e mortale. Lasciare questo mondo per colpa di una capra! No, non era pronta a crepare per del latte.
Ogni giorno assisteva all'agonia di numerosi soldati per le ferite riportate in battaglia. Ne vide seppellire ventisette nella notte precedente. Ventisette figli, ventisette padri, ventisette fratelli, ventisette mariti. E le loro donne non sapevano ancora nulla, continuando ad attenderli e a scaldare il focolare come niente fosse.
Padū-Ḫepa si guardò intorno: si trovava nella parte più chiassosa dell’intero Accampamento, tra le tende delle mogli dei dignitari assiri. Ma erano una minima parte rispetto agli alloggi riservati alle donne di Assûr-rēsh-išhi. Storse il naso: era una campagna militare, o una gita fuori porta che il Re faceva fare alle sue concubine?

“Ă-Anûnit-Šhāla”, le sussurrò all'improvviso una voce calda e rassicurante all’orecchio.
Si voltò, e vide Ešarra. Non s’era lavato dalla polvere del viaggio; era unto con gli oli profumati cosparsi al mattino, rivestito di porpora finemente ricamata. Nel suo sguardo cocente si riflettevano le stelle. Aveva le sopracciglia ben disegnate e la carnagione, tinta d’una calda velatura bruno dorata, assumeva affascinanti sfumature nella notte.
“Ă-Anûnit-Šhāla. Da oggi in avanti”, tornò di nuovo a dire Ešarra. Fu seguito dai risolini di due schiave che li fissavano, nascoste dietro i veli di un tenda vicina.
Il Principe sbuffò e la portò all’interno del suo alloggio di tela, al cui interno c'era pochi utensili e una stuoia rialzata da terra per potersi riposare, più ampia e raffinata di quella sulla quale la donna aveva riposato fino a quel giorno.
“Cosa vuol dire?”, sussurrò Padū-Ḫepa, tenendolo per le frange. “C’entra quel sogno che hai fatto?”
Ešarra si mise a sedere su uno sgabello, nella penombra. L’unica luce che filtrava era quella delle stelle.
“Si, c’entra con il sogno. Šhāla, è il nome d’una dea. Così come Ă e Anûnit. Tre dee, tre Signore, tre Regine.”
“...C’è altro, vero?”
“Si, ma ogni cosa a suo tempo. Da oggi verrai chiamata così, e sarà questo il nome al quale risponderai.”
Šhāla. Non le suscitava nulla, e non protestò. Sapeva che chi dà il nome, possiede profondamente ciò che nomina. Sentì un brivido profondo attraversarle la schiena.
Si sedette a terra, ai piedi dello sgabello dove stava seduto Ešarra. Questi le ordinò di slacciargli i sandali e lavargli i piedi, in un elegante catino lì vicino già colmo d'acqua profumata con erbe. Tipico lavoro da wardû, ma Šhāla non protestò. Le suole di cuoio del Principe erano consumate, e la polvere si era insinuata ovunque. Le doleva ancora la schiena. I lividi sulle spalle le ricordavano costantemente di restare in guardia, che la gentilezza di quell'uomo era sospetta.
“Non dici nulla? Mh?”, mormorò lui, reclinando il volto.
Šhāla taceva, chinando il capo per nascondersi davanti allo sguardo indagatore dell’uomo, applicandosi a quel lavoro infamante. Quando Ešarra allungò una mano verso di lei per rialzarle il viso, la ritirò inumidita dalle lacrime.
"Domani tornerai a farmi picchiare? Quando ti sarai dimenticato questo fantomatico sogno, come mi tratterai? Sei mutevole come le nuvole", sibilò Šhāla.
Ešarra non si alterò e continuò a guardarla pacato. La giovane si attendeva l'ira con cui era solito trattarla, ma non ci fu. Ne fu sorpresa e smarrita. Continuò a parlare, con il piede del Principe ancora in grembo.
"Tu hai cambiato giudizio su di me perché la birra ti ha fatto sognare chissà cosa, e tu, come hanno fatto già a Karkemiš, hai fatto volare la tua immaginazione. Io sono vera, carne, sangue, ossa! Non sono un sogno di Aššur, e non voglio restare in balìa di fantasie notturne che cambiano come il vento! Tienimi se vuoi come tua serva ewardû. Non protesterò. Ma giudicami in base al mio spirito e alla mia carne, a ciò che sono, non a ciò che qualche demonio ti mostra di notte!”
Šhāla pose l'indice sulle proprie labbra, mormorando severa: “Da questo momento io sigillo la mia bocca. Sarò il vento muto che ti accompagna, ti sta vicino, ma non dice nulla. Sono troppo stanca”.
Ešarra levò l’indice dalle sue labbra: “Ed io, Principe di Aššur, ti levo questo sigillo. Voglio udire la voce del vento. In ogni caso, non ho bisogno di serve. Ne ho a sufficienza”, sussurrò nella penombra.
Šhāla si raggelò. “Non ti chiedo di sfamarmi. Lavorerò, anche senza il salario in orzo.” Temeva di finire tra le mani di Tukultī-Ninurta. Le ritornarono alla mente gli occhi di lui ardenti di desiderio, e fece involontariamente una smorfia.
“Stupida. Ad una schiava che non voglio sfamare do' la portantina di mia moglie? Sei abituata ai modi da pollaio che hanno a Karkemiš?”
“Perchè stai agendo così con me, Principe? Che ne ricavi?”, Šhāla l'interruppe.
Ešarra era indecifrabile tra le ombre della notte, un regale alito di tenebra. La giovane riusciva a malapena a distinguere i suoi occhi, dai quali non si staccava.
“Donna, da principio ti ho concesso una tenda e del cibo in rispetto a mia madre. Doveva esserti conterranea. Ero bambino quando scese negli Inferi tra le braccia di Ereshkigal, e ciò che ho fatto a te ha raggiunto lei”.
"Anche le bastonate?"
Ešarra fece un ghigno. "Per quelle hai esclusivamente colpa tu."
"Se questo è il rispetto che porti a tua madre, la maleducazione è di casa anche presso la famiglia reale."
Anche stavolta Ešarra ignorò la sua provocazione e fece una smorfia impercettibile. Si stava controllando a stento.
Šhāla si rialzò di scatto in piedi, scostando violentemente un lembo della tenda e lasciando che la luce della luna appena sorta le illuminasse il volto. Aveva ancora il grembiule umidiccio legato alla vita, e le braccia sporche della terra dei sandali del Principe.
“Guardami Ešarra. Guardami attentamente e rispondimi! Sono lei? Sono tua madre, Nûri l'Alta?"
Ešarra alzò gli occhi su Šhāla, restando a lungo a fissarla.
“No.”
"Assomiglio a lei?”
"No."
"Assomiglio a tua moglie?"
"No."
Šhāla non accennava a scostarsi dall’uscio, lasciando che la luce della luna continuasse ad illuminarla. Stringeva nervosamente quel lembo di stoffa.
“Dunque, Principe, non assomiglio a colei che ti ha generato. Non sono lei. Non sono la tua serva. Non sono la tua wardû. Non sono tua moglie né la tua concubina. Chi sono io?”
Ešarra si alzò in piedi, fermandosi davanti a lei.
“Davvero non lo sai?", domandò, avvicinando le mani grandi verso le sue guancie.
"Tu sei Ă-Anûnit-Šhāla", disse ancora, sottovoce.
Il Principe le alzò il mento con un gesto delicato. Erano così vicini che l’uno percepiva il fiato dell’altra. Šhāla sentì le proprie viscere contorcersi. Voleva ribellarsi, ma si sentiva di pietra.
“Chi vorresti essere per stanotte, Šhāla?”
“Principe...”
Šhāla crollò sul suo petto cogliendolo di sorpresa. Udiva il battito del cuore di Ešarra che la stringeva dolcemente a sé, sotto la luce lunare che filtrava dalla stoffa. In quella stretta calda sfogava il proprio dolore con lacrime silenziose. Si sentiva stupida, profondamente stupida. Che stava facendo? Quell'uomo viziato era il suo aguzzino, colui che cambia idea secondo quello che gli passa per la testa di notte. Ma aveva un tremendo bisogno di conforto. Era stanca di sentirsi dentro acida come un succo di limone.
“Solo per stanotte”, sussurrò a fior di labbra Šhāla. Non ci furono altre parole. Non servivano, mentre una profonda pace scese su entrambi. Il profumo pungente e dolcissimo degli oli del Principe, mescolati all'odore buono della terra, investì la donna. Si sentì ubriaca di serenità dopo tanto tempo. Ešarra le accarezzava i capelli neri con tenerezza infinita, fino a farle perdere i sensi tant’era la pace che portavano le sue dita. Šhāla doveva fuggire da quella presa. Ma non lo fece. L'unica legge di quella notte era quell'abbraccio e nient'altro. Dormì, con la testa reclinata sul suo petto.
Così rimasero finché non li colse, crudele, il rapido mattino.
   
 
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