Era
rimasta basita.
Sul serio, era basita.
Non c'era combinazione di parole migliore per descrivere come si
sentiva in
quel momento.
La sua Sara le aveva praticamente detto che i suoi tanto amati
Versailles
avevano annunciato una pausa per dicembre.
Il dicembre era il mese del suo compleanno.
Controllò meglio sul sito ufficiale della sua band
preferita, l'ultimo loro
concerto era fissato per il venti di dicembre alla NHK Hall di Tokyo.
Controllò per scaramanzia anche il giorno di vendita dei
biglietti per i fan
oltreoceano.
Era già passato. Era tre giorni prima.
Che peccato, pensò. Avrebbe tanto voluto
esserci, ma non avrebbe potuto.
E, oltretutto, il dicembre era anche il mese del natale.
Il Natale, con la lettera maiuscola, così le piaceva
scriverlo.
Era quella la festa che tanto le piaceva, tra tutte le feste dell'anno.
Perchè poteva sentire quei canti che tanto le piacevano.
Ma il giorno di Natale 2012 i Versailles non sarebbero esistiti
più.
E lei avrebbe pianto.
Si accorse che piangeva solo perchè una sua lacrima le aveva
bagnato la
maglietta.
Lei piangeva, e guardava il cielo fuori della sua grande finestra.
"Avrei tanto voluto passare un ultimo Natale con Voi..." si disse.
"Oh, Signore, vi prego siate buono con i Versailles, fate che abbiano
il
successo che si meritano, e fate che tornino insieme...
Vi auguro solo tanta fortuna.
E spero vivamente che non coviate odio gli uni per gli altri. "
Non aveva neanche mai potuto vederli. E ne era dispiaciuta. Molto.
Prevedeva che sarebbe stata molto male di lì a pochi giorni.
E sperava che le sue amiche, ovvero le ragazze che sentiva quasi tutti
i giorni
su facebook o su messenger, avessero potuto aiutarla.
O almeno, lei le sentiva come sue amiche.
E, infatti, fu così.
Quella mattina si era svegliata, era verso fine di agosto.
Si sentiva debole e calda.
Era ancora mattina presto, sua madre doveva ancora partire per lavoro.
Si sentì la fronte, era molto calda.
Poi si sentì il polso, ma aveva un tale mal di testa che non
riusciva a
prenderselo per sentire i suoi battiti.
Chiamò sua madre da sotto.
"Ehi, che ti è successo?!" era sempre così, sua
madre, quando la
figlia stava male.
"to...ae..." cercò di confabulare lei.
Non ricordava di aver mai avuto un mal di gola tanto forte.
"Cosa?? Non capisco. Comunque ho visto che stai male. Aspetta, prendo
il
termometro."
Dopo poco tornò con il termometro.
Segnava 37 e 4.
"Io ti lasco qualcosa da riscaldarti nel microonde. Ora devo andare.
Papà
è al lavoro. Ciao."
"...ao..." salutò lei.
Sembrava più un barrito che un saluto, ma comunque andava
bene così.
L'orologio segnava le 5:30 del mattino.
Teneva sempre nota di che ora era, nel caso dovesse prendere una
tachipirina.
Poi, forse troppo stanca, si addormentò.
Quando si risvegliò era quasi mezzogiorno, e lei aveva fame.
Riuscì a scendere al piano di sotto con non poca fatica, e
trovò nel microonde
delle cosce di pollo.
Sforzandosi molto, riuscì a riscaldarle e a portarle su,
cercando di
concentrarsi sul fatto che camminava e non era ancora giunta
nel suo caldo
letto.
Quando vi giunse, si tirò su alla bell'e meglio e si
mangiò (con qualche
barrito e qualche sputacchio qua e là) le sue due amate
cosce.
Il corpo lo lasciò li, nel piatto.
Dovette fare il doppio della fatica per tornare sotto e mettere i resti
di cibo
nel frigo.
Si sedette a tavola e si sentì di nuovo la febbre, o
perlomeno ci provò, ma
dato che tremava decisamente troppo dovette rinviare il tentativo.
Il padre le aveva spiegato come vedere se una persona era ammalata o
meno, dal
tocco del polso.
Le disse: "Se è debole e veloce, allora hai la febbre; se
invece è
regolare allora sei sano come un pesce".
Era troppo svelto, quel suo piccolo polso carotideo.
Almeno il suo corpo le aveva permesso di arrivare alla confezione di
paracetamolo, alias il bene che le premeva più
della vita in quel momento,
se in vita voleva restare.
Tornata nel suo caldo letto dopo aver preso il farmaco, si
addormentò di nuovo.
Si svegliò la sera, sua madre era tornata, riusciva a
distinguere dei rumori da
sotto.
Se la trovò accanto dopo un po', che continuava a guardarla
con sguardo
critico.
"Hai ancora la febbre. Te la sei misurata?"
"No."
Miracolo!
Parlava, con qualche sforzo e tanto dolore, ma parlava.
"Ora la misuriamo. 39 e 2. Hm, non è tanto, ma è
meglio se ti prendi una
tachipirina. Aspettami qui."
"E dove cristo vuoi che vada? Sulla luna??"
Le era salita di nuovo, come temeva.
Sua madre un giorno che era malata le disse che la febbre si alza (o
che
comunque tende ad alzarsi) sempre verso sera, mentre all'alba si
abbassa.
Mah, di sicuro era vera la prima parte.
La mattina dopo invece, stava ancora peggio.
Era
come se fosse stata investita da uno schiacciasassi e buttata
nell'acido.
Pensò
alle sue amiche.
Valentina l'aveva conosciuta su quel sito in cui poteva pubblicare le
sue
storie sui musicisti giapponesi.
Quelli che, come i Gazette e i Versailles e i Malice Mizer, le
piacevano tanto.
Dei Gazette amava le ballate, in particolare Cassis, Guren e Reila.
Ma le piaceva anche Miseinen.
Cassis era inglese, ne era sicura (per lei quella lingua aveva ben
pochi
segreti).
Guren era giapponese, e voleva dire "Loto Rosso".
Oh cielo, quanto amava quella parola.
Il loto rosso era il suo fiore preferito, dopo la rosa.
Di Cassis amava la melodia, il ritmo e il testo, cioè in
pratica tutto.
Specie il ritornello, che le sue orecchie ritenevano così
melodioso.
Reila, invece, a quanto sapeva dalla sua dolce Sara, l'aveva scritta
Ruki, dopo
che la sua ragazza si è suicidata buttandosi da un
cornicione.
Ruki altrimenti detto "nano malefico", ma solo perchè era un
nano,
intendiamoci.
Le aveva anche detto che i motivi di quel suicidio non si sapevano, e a
tutt'oggi non si sapranno mai, ma che Ruki ne soffrì molto.
E che Reila era il vero nome della sua ragazza.
Miseinen
invece era un pezzo forte, e nella seconda parte era una ballata, e
niente
altro.
Anche Sofia l'aveva conosciuta su quel sito. Era una ragazzina molto
dolce.
Parlavano di tutto insieme, di animali, di fattorie, dei classici
Disney. E del
visual kei. Guren si era messa pure a piangere quando aveva scoperto
che i
"The Gazette" erano giapponesi e non americani. Perchè lei,
sia
chiaro, pensava che fossero americani fin da quando aveva sentito una
canzone
che al suo orecchio tanto allenato pareva inglese pronunciato male.
Con lei, anche se non si erano mai viste in faccia (in fondo si erano
scambiate
solo fotografie di loro stesse), aveva costruito un rapporto
SENPAI-KOHAI.
E sembrava che alla piccola andasse bene.
A Sara parlava su facebook, invece.
Si sedette al computer, o forse è meglio dire si
buttò sul computer.
Per fortuna quello là con il nuovo sistema operativo fece
poche storie e si
accese subito.
La ragazza con cui lei voleva parlare, era online.
"Sto male".
"Come stai male?" chiese lei.
"Sto male, ho la febbre. Se tra tre settimane non sono guarita, allora
posso preoccuparmi?"
"Allora, ok. In quel caso dimmelo. Che vengo da te."
"Che??"
"Si, hai capito bene. Tanto l'indirizzo lo so già. Ora
riposati, mangia
riso in bianco e ti riprenderai. A meno che non sia qualcosa di serio."
"Ok. Allora tra tre settimane ti chiamo io se qualcosa peggiora. Per
favore non dire nulla alla mia Kohai. Vorrei parlarle io di tutto il
caos che
ho dentro."
"Certo."
Quella
sera...
Poteva
suonare il suo pianoforte a coda per distrarsi, tutte le volte che
voleva.
Così aprì la grande finestra della sala che dava
sul giardino, si stirò le dita
da brava pianista e le pose sulla tastiera .
E suonò.
E un suono incredibile colpì le sue
orecchie.
Le sue dolci orecchie, che lei sapeva essere così affidabili.
Aveva sentito qualcosa che definire suono forse
era un errore.
Arricciò il naso in una smorfia schifata.
Almeno la febbre era calata, se lei poteva fare una tale smorfietta.
Filò a prendere uno dei suoi diapason e
una chiave quadrata.
Preferiva usare il metodo "a mano e orecchio", visto che, l'avesse
mai accordato elettronicamente, il suono sarebbe risultato di bassa
qualità.
Dopo un po', finito il lavoro di accordatura, iniziò a
suonare il "Kanon
in D Mayor".
Nutriva una profonda ammirazione per quella composizione.
Finchè si addormentò.
Quando si risvegliò, era nel suo letto, coperta e ancora
febbricitante.
"Come stai?" una voce alla sua destra attirò la sua
attenzione.
Si sentiva tappata e debole, ma quella voce la riconosceva.
Era suo fratello.
"Ho visto che ti avviavi in sala, e non ho saputo resistere."
Stava per mettersi a ridere?
"Anche oggi mamma e papà sono al lavoro tutto il
giorno. Siamo soli in
casa. Appena ti sei seduta al piano ed hai iniziato a suonare il Canone
mi sono
nascosto dietro alla porta e ti ho ascoltata suonare. Sei stata brava,
lo sei
sempre stata."
Lei era la migliore. Avrebbe sempre faticato pur di esserlo,
fino a morire.
Qui ci giuravano tutti quelli che la conoscevano.
"Grazie. Mi porti una tachipirina?" parlava a voce bassa, e non
cantava per evitare di distruggere quel gioiello di cui i Kami
l'avevano
dotata.
"Certo."
Così lei prese la sua tachipirina.
E dormì di nuovo.