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Autore: Kimmy_90    24/08/2012    2 recensioni
[Sequel de "I Frutti dell'Oblio"]
Un battito dopo l’altro, ed uno ancora per abitudine.
Fame, bisogno, bisogno e fame. Non erano quelle le giuste parole. Le parole non dovevano far parte del suo mondo, assai superiore a questo.
Non importava.
Un battito dopo l’altro, avrebbe aspettato. Ancora ed ancora.

Chi è tua madre?, aveva chiesto Obito.
Kushina si era drizzata tutta, prendendo un paio di centimetri nella sola estensione della colonna vertebrale. Aveva levato il mento e aveva risposto con inaudita sicurezza: "Io non ho madre".
Minato aveva sentito un moto di comprensione per l’altra, la quale, a quanto pareva, come lui era orfana di un genitore.
Ma poi Obito era andato avanti, mantenendo una voce insolitamente salda: "Chi è tuo padre?"
E lei: "Io non ho padre."
Minato aveva osservato la bambina gonfiarsi, impettirsi, senza riuscire a capire il perché di tale atteggiamento.
Tu, cittadino, sei figlio del passato e padre del futuro. Apprendi e insegna, non dimenticare mai. Vivi il presente costruendo dalle macerie del passato: ciò che fai appartiene ai tuoi figli, ciò che sei lo devi ai tuoi avi. Sii un buon figlio, sii un buon avo."
[ Warning: "inversione generazionale"]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Kushina Uzumaki, Nuovo Personaggio, Yondaime | Coppie: Minato/Kushina
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Cristallo di sale'
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(4) – [ Anima e tomba ]



Era usanza più che comune portare i bambini a visitare il cimitero e, in particolare, il Ludus. Anche chi non aveva figli, almeno una volta ogni tre anni, andava a farvi visita. Un pellegrinaggio continuo, un continuo via vai, discreto e solenne.

La maggior parte dei compagni di classe di Minato c’era già stato almeno una volta, e lui voleva assolutamente vederlo. Dopotutto, era lì che la sua bisnonna si era inferta le sue famose cicatrici, era lì che la rivoluzione aveva avuto inizio – era lì che Naruto Uzumaki era morto.

Tutto partiva dal Ludus.

Visitare l’altipiano, andando a rendere onore ai morti anonimi ivi seppelliti, era oramai tradizione talmente consolidata nella cultura della Magna Regio che si usava organizzare spedizioni di alunni della Scuola: in questo modo i professori potevano ben spiegare loro cosa era successo, come, quando, perché.

La maggior parte dei ragazzini era affascinata dallo stile di vita che si conduceva in quel posto: se da un certo punto di vista suonava rigido ed inquietante, dall’altro nascondeva un potenziale che essi per primi intuivano, rendendosi conto di quanta efficienza vi fosse in tal sistema, di quanto fosse selezionata l’elite, di che incredibile gradino – forse rappresentato dall’altipiano stesso – separava Philosophi e Custodes dal resto del mondo.

Un gradino da cui in molti, continuamente, cadevano.

Era compito dei professori – e dei genitori, e comunque della società tutta – fare in modo che i ragazzini non si facessero strane idee, mitizzando un passato che con tanta fatica era stato cambiato.

Ad ogni modo, le due volte in cui sarebbe toccato a Minato visitare il Ludus con la Scuola, non c’era riuscito: era sempre rimasto incastrato in visite mediche dovute alla sua propensione alle mutazioni. Ne faceva in continuazione, di queste visite: essere il pronipote di Sakura Haruno rendeva la cosa ancora più pedissequa, in quanto lei era la massima autorità in merito. E, ovviamente, si preoccupava per il pronipote.

Inutile dire che tutte le due volte in cui mancò la visita al Ludus il bambino ci rimase particolarmente male. La prima volta, a sei anni, aveva passato una settimana a chiedere ‘per favore, per favore, per favore’ – mentre sua mamma gli ripeteva che prima o poi nella sua vita ci sarebbe stato, al Ludus, doveva solo aver pazienza. La seconda volta, a sette anni e mezzo – pochi mesi prima degli attentati bombaroli – a stento aveva trattenuto un pianto infinito, concedendosi di scoppiare in lacrime solo una volta giunto in camera sua, da solo.

D’altronde, si ripeteva Mebuki, era logico che il bambino si sentisse leggermente sfortunato e tagliato fuori dalla sua fettina di società – aveva un che di alienante essere l’unico a non aver ancora visto il Ludus. Per non parlare del fatto che lui, a queste cose, ci teneva. Aveva avanzato richiesta di visitare l’altipiano del Ludus prima ancora di sapere esattamente cosa fosse, e che fosse meta comune di brevi pellegrinaggi: a quattro anni aveva puntato il dito verso la mezza montagna, chiedendo cosa fosse, e se poteva vederla.


Quattro anni dopo, finalmente, Minato poteva vedere i piedi del Ludus dalle pareti trasparenti dell’Effluxum – il siluro ad acqua che, nei tempi andati, scorreva come un fiume dal Ludus attraversando tutta la regio, collegando i Custodes con il resto del mondo.

Man mano che si avvicinava all’altipiano, questo cresceva sempre più: aveva facilmente intuito che era enorme, a guardarlo dalla sua finestra di Konoha, ma non era mai riuscito a quantificare bene la cosa.

Il termine ‘colossale’ iniziava a perdere di forza di fronte a quello.

"Ma com’è fatto, sopra?"

Obito sospirò per l’ennesima volta, tentando di non farsi sentire.

"Esattamente come te lo avevo descritto ieri." rispose al ragazzino, con calma.

"Sì, ma ci sono strade di cemento?"

"Ti ho detto di sì. Il piazzale è di cemento."

"Ma fuori?"

"Fuori dove?"

"Fuori dal piazzale."

"Cemento, terra, alberi."

Mebuki continuava a guardare fuori, assorta, ignorando lo scambio di battute tra i due cugini.

"Ma che alberi?"

"E che ne so?"

"Pini?"

"Ti ho detto che non lo so."

"Fichi?"

"Perché proprio fichi?" domandò Obito, sinceramente perplesso da tal domanda.

Non è che Obito non sopportasse i bambini, era solo che un po’ lo esasperavano. O forse lo esasperava Minato. Non gli voleva del male, anzi, semmai il contrario, e per questo cercava sempre di mantenere la calma, con lui, e di essere gentile. Solo che ogni tanto non ce la faceva più.

E sì che l’idea di fuggire dal consiglio per qualche tempo gli era parsa buona. Un’ottima occasione da sfruttare, quella di dover accompagnare Minato e Mebuki al Ludus - l’anziana Sakura non aveva nemmeno dovuto dare una spiegazione per fargli una richiesta del genere, lui aveva accettato senza guardarsi indietro: delle discussioni inconcludenti del consiglio non ne poteva veramente più. Doveva staccare.

"Perché sto cercando di indovinare." spiegò Minato, continuando a fissare l’altipiano. "Peri?" continuò.

"Di sicuro ci sono ciliegi – " si lasciò sfuggire Obito.

"Ahsì?" Minato si voltò di scatto verso di lui: "E cos’altro?"

Bene, adesso che si era lasciato sfuggire un’informazione, il bambino non lo avrebbe mollato più. Sapendo che sapeva, gli avrebbe estratto ogni singola nozione in merito, senza possibilità di scampo.

Chissà su cosa stavano litigando, ora, in consiglio.

"Non lo so."

"Querce?"

"Tu ho detto che non lo so, Minato..."

"Ma come non lo sai?"

"Non mi ricordo!" si lasciò sfuggire, con un minimo di esasperazione. Scosse il capo, sentendosi colpevole di tal scatto.

Minato corrugò la fronte, tornando poi a guardare fuori.

"Secondo me è pieno di querce."

"Perché?"

"Perché sì."

Toccò ad Obito corrugare la fronte, questa volta.

"Ma perché ti interessa?" domandò poi.

"Perché sì."

"... alla faccia dell’argomentazione..."


Due mesi erano passati. Due – non uno: due.

Due lunghi, interminabili mesi in cui ormai Obito non sapeva più distinguere l’ordine dei giorni, i quali si susseguivano uno identico all’altro nelle infinite discussioni del consiglio. Nessuna evoluzione. Nessun cambiamento. Rassettare le macerie, riorganizzare i turni agli edifici scolastici, fare un bel respiro ed andare avanti.

Senza che nessuno lo chiamasse, il tanto nominato Esodo stava avvenendo in modo, se si può dire, naturale: famiglie su famiglie di bianchi tornavano nel deserto, diretti prevalentemente verso la città di Suna, alla ricerca di tranquillità.

Quello che più gli logorava i nervi era il fatto che da allora, da due mesi, nessun attacco secessionista, nessuna scorribanda, nessun’altra bomba, nessun pestaggio od incendio era avvenuto. Era tutto dannatamente immobile, congelato agli istanti successivi alle esplosioni di quel giorno ormai lontano.

Ciò nonostante, la vita andava avanti.

Minato era praticamente guarito, ed ora se ne andava tutto contento a visitare il Ludus.

Sakura aveva guardato Obito dritto negli occhi, a lungo, e non a caso: gli aveva detto di fare attenzione. Di usarli, quegli occhi.

Lui aveva annuito, serio, ma non per questo non perplesso da una richiesta così specifica: in fondo, non v’era nulla di pericoloso, al Ludus.

Di particolare, sì. Insolito, magari. Qualsiasi mutato, indipendentemente dalla mutazione, percepiva la sacralità di quel posto grazie al suo dono – probabilmente dovuto alla densità degli eventi che si erano svolti in quel luogo. Cosa o perché rimanevano tendenzialmente misteri – come ancora tutte da studiare e capire a fondo erano le mutazioni; ma comunque la morale del ragionamento era che per quanto ci fosse da vedere, da sentire, da odorare, nessuno aveva mai subito danno, da quell’atmosfera pregna e satura che aleggiava sulle macerie del vecchio sistema.


In lontananza iniziava a vedersi l’imboccatura della galleria, intenta ad inabissarsi nell’altipiano. Minato storse la testa cercando di vedere meglio, dalla vetrata laterale, quello che accadeva in testa: dopo aver spiaccicato la guancia ed il naso contro il vetro nelle più svariate posizioni possibili, vi si staccò, scendendo dal sedile per mettersi in piedi.

"Matre, posso andare a vedere davanti?" domandò, i piedi che gli bruciavano dalla voglia di percorrere i pochi metri che lo separavano dal muso affusolato del convoglio.

"Non si vede niente, Minato."

"Per favore!"

Mebuki storse la bocca, scuotendo il capo.

"Non si vede niente davvero, Minato –" rincarò Obito, nel tentativo di dissuaderlo.

Minato non sembrava molto intenzionato a credere ai due. Rimase lì, in piedi, zitto, aspettando una risposta che fosse diversa da un ‘no’.

Gli sembrava una tattica intelligente – non troppo infantile, ma non per questo più remissiva.

Obito lo fissava perplesso, mentre Mebuki era già tornata a fissare fuori – senza risparmiarsi di scuotere il capo due volte in più.

Il bambino fece scivolare lo sguardo dal cugino alla madre, il cui atteggiamento appariva sin troppo stanco, per il suo solito. Era così da quando era stato ricoverato – anzi, a ben pensarci, dalla sfuriata che le aveva fatto riguardo la radio e Sasori.

Anche se rimaneva zitta, comunque, non stava certo dicendogli che poteva fare quello che voleva: Minato era testardo, ma non molto disubbidiente – salvo quando andava contro i suoi principii, sosteneva lui.

Alla fine il buio li avvolse: di colpo, la luce solare scomparve, e solo le lampade interne rimanevano ad illuminare il vagone. Avvenne così rapidamente che Minato fu più traumatizzato dall’insorgere di tanto buio che dal realizzare d’aver appena perso la possibilità di vedere le pendici del Ludus dalla testa dell’Effluxum.

Obito lo osservò, quasi divertito, guardarsi attorno disorientato non prima di aver compiuto un piccolo sussulto per tutto quel buio inaspettato: Minato non doveva ancora aver ben realizzato qual era la prodigiosa velocità a cui si muoveva quel siluro.

Dopo un po’, il bambino si risedette, mugugnando un ‘uffa’ alquanto deluso.



***


E’ un battito dopo l’altro.

Uno dopo l’altro.


Non ha lo stesso odore, ma non ha importanza.

Non è l’odore che conta.


Un battito dopo l’altro, un battito ancora.


Era nato per caso, quel corpo così piccolo e fragile.

Solo istinto.

Solo dato di fatto.

Era lì, e basta.


Un battito dopo l’altro, il concetto di umano si era rifatto oggetto. Lentamente.

Corpo. Carne. Mente.

E la più incredibile debolezza dell’universo intero.


Un battito dopo l’altro, ed uno ancora per abitudine.


Fame, bisogno, bisogno e fame. Non erano quelle le giuste parole. Le parole non dovevano far parte del suo mondo, assai superiore a questo.


Non importava.


Un battito dopo l’altro, avrebbe aspettato. Ancora ed ancora.



Due occhi si schiudono, svegli. Rossi.

La pupilla allungata, nera ed infinita nella sua profondità.

I polmoni respirano. Inspirano.

E fanno male.


Quale immensa magia, questo mondo.

Quale immensa gioia, di colpo.



***


Obito non ricordava di essere stato così dannatamente euforico quando aveva visitato il Ludus per la prima volta.

Anzi.

Appena aveva buttato un’occhiata in giro con lo Sharingan - cosa che usava fare sin da quando gli si era manifestata la mutazione ereditaria - si era trovato di fronte a quell’atmosfera opprimente che tutti i mutati raccontavano esserci, sua madre in primis – suo nonno pure. Non preoccuparti, gli aveva detto. E’ sempre così, qua. E’ normale.

Se lo diceva nonno Sasuke, si era ripetuto Obito allora, non c’era nulla di cui valeva la pena preoccuparsi.

Non che questo gli avessi impedito di lasciarsi scappare la sua solita lacrimuccia impaurita.

Che fastidio.

A lui visitare il Ludus non era mai realmente piaciuto.

Minato invece saltellava in giro come un capretto, fermandosi ogni tanto ad osservare ora lo scheletro metallico della Sphaera, ora le palazzine bianche e candide della zona ospedaliera – in tal caso rimaneva immobile, per lunghi minuti, le labbra schiuse e gli occhi azzurri incollati sull’oggetto cui rivolgeva tanta ammirazione. Ogni tanto sembrava si dimenticasse pure di respirare.

Il fatto che avessero già visto sia il piazzale del Ludus che il così detto ‘regno di Tsunade’ stava a significare che di strada ne avevano fatta abbastanza. Erano almeno due ore che camminavano, Obito e Mebuki intenti a seguire il bambino che più che in un reliquiario e cimitero sembrava essere entrato in un negozio di dolciumi.

Per quanto riguardava lui, Minato, non appena aveva messo piede nella stazione della SubSphaera era rimasto allibito, attonito, sconvolto – e si era esaltato. In un istante solo, appena aveva levato gli occhi verso l’alto, verso il soffitto infinito ed oscuro da cui solo pochissime lampadine diffondevano una luce tenue in tutto l’enorme stanzone, si era reso conto di dove era veramente.

Di cosa era successo su quel cemento, sopra e sotto, per centinaia d’anni, o in un giorno solo.

La SubSphaera era nota per essere scarscamente illuminata: già così Minato non vedeva niente – in realtà, gli aveva spiegato Obito, una volta di luce ce n’era ancora di meno.

Serviva per abituare i Custos a vedere al buio – aveva aggiunto Mebuki.

Lì si erano allenate generazioni di ignari, elitari e praticamente perfetti guerrieri.

Al buio.

"Sembra un controsenso." aveva detto, Minato, fra sé e sé.

"Io non direi – " gli aveva risposto Obito, facendo spallucce. " – nelle notti del deserto riuscire a vederci qualcosa non è mica particolarmente semplice."

"Sì, ma – loro imparavano a vedere al buio, ma in realtà stavano in un buio molto più profondo."

Obito aveva corrugato la fronte, a tratti sgomento – Mebuki invece ci aveva fatto l’abitudine, a queste sue uscite: ciò nonostante, si lasciò sfuggire un sospiro.

"La prossima volta ti ci mando a te, in consiglio, al posto mio." aveva concluso il cugino, scuotendo la testa divertito.


Di lì a poco sarebbe iniziata la zona del cimitero: fra le fronde degli alberi la luce del sole filtrava in minuscoli fasci, che proiettavano chiazze rotonde sul sentiero sterrato. Ogni tanto, nel cammino, si incontrava qualche altro visitatore: a parte un piccolo cenno di saluto con il capo, poco ci si diceva. La gente tendeva a guardare in silenzio – ed il silenzio, ivi, regnava. Niente a che vedere con il perenne rumore di fondo dell’attiva, vigile e instancabile – per quanto turbata – Konoha. Alla lunga quel silenzio iniziava addirittura a fare male alle orecchie: i suoni del bosco, ormai impossessatosi delle strutture umane, era così diverso dal suono della città che, nel paradosso, sembrava loro innaturale.

Con tacito accordo, che solo dopo trent’anni era diventato legge, nessuno, da dopo il giorno della rivoluzione, aveva toccato nulla: né per demolire, né per conservare. Solo il cimitero continuava a riempirsi delle sue tombe volutamente anonime; per il resto, si aspettava che il tempo, la natura, la vita, facessero il loro lavoro sugli edifici: le radici degli alberi avevano dissestato con persistente calma il cemento, l’edera si era arrampicata sulle travi metalliche e nude della Sphaera, gli animali si erano impossessati delle zone chiuse, l’acqua aveva corroso, i vetri si erano rotti, il legno aveva iniziato a marcire e ad ospitare tarli, funghi ed uccelli.

Prima o poi tutto sarebbe scomparso: forse, si dicevano i più anziani, solo allora ogni traccia sarà svanita anche dal cuore di questa umanità, così impaurita da cosa si era fatta, così terrorizzata da cosa si vedeva, ora, fare.

"Mater..." iniziò Minato, non appena il terreno ordinato e curato del cimitero iniziò a comparire all’orizzonte, insieme ai suoi piccoli paletti anonimi.

Attese, con calma, che quella gli dicesse qualcosa.

"Sì."

"Ma tu sai dov’è sepolto Pater?"

Mebuki fece un respiro profondo, maledicendosi per non essersi resa conto che quella domanda sarebbe arrivata, lì – era ovvio, dopotutto. Le era come sfuggito di mente, impegnata ad elaborare su altri problemi: e sì che, più o meno, era la stessa cosa.

Dopo aver ammesso a se stessa d’aver peccato d’attenzione, s’aggrappò con tutte le sue forze alla risposta più ovvia, sana e corretta che poteva dare a Minato:

"Minato, lo sai che non ci sono i nomi, sulle tombe. E’ fatto apposta."

"Ma magari, avendolo sepolto..."

"Siamo tutti uguali, nella morte. Non penso proprio che saprei riconoscere il punto esatto – e sinceramente, mi spiace, ma nemmeno vorrei poterlo fare."

Obito si fermò di colpo.

"E Naruto? Naruto è stato il primo ad essere sepolto, no? Quindi sarà facile da trovare."

"Non è un gioco, Minato. Stai perdendo di vista il punto focale." Mebuki sembrava leggermente infastidita, ma non lo lasciava troppo a vedere. In realtà, lei stessa aveva pensato, le prime volte, di poter trovare la sepoltura esatta dei cari e dei grandi – suo nonno Itachi prima di tutti.

Ovviamente non c’era riuscita.

E solo una volta diventata più grande aveva capito quando fosse insensata quella ricerca.

Madre e figlio continuavano a camminare, senza essersi resi conto che il cugine s’era fermato.

Obito, dalla sua posizione, strinse gli occhi, nell’intento di mettere meglio a fuoco quello che gli era parso un lampo, un guizzo, come il pulsare istantaneo, rapidamente dissolto. Dopo aver atteso per qualche istante che questo si ripresentasse, rinunciò: riprese a camminare, il passo veloce per raggiungere gli altri due.









______________________________________________




[NDA]


Chissà se vi ho incuriosito abbastanza,o ho spoilerato troppo, o mi sono buttata su classici troppo sospetti xD Sono molto indecisa.

Però mi sento una faigah per il titolo di ‘sto capitolo, mi piace da impazzire.


Saluti e ringraziamenti per le letture. Spero gradiate leggere quanto io gradisco scrivere.


Kimmy






   
 
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