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Autore: Kimmy_90    27/08/2012    2 recensioni
[Sequel de "I Frutti dell'Oblio"]
Un battito dopo l’altro, ed uno ancora per abitudine.
Fame, bisogno, bisogno e fame. Non erano quelle le giuste parole. Le parole non dovevano far parte del suo mondo, assai superiore a questo.
Non importava.
Un battito dopo l’altro, avrebbe aspettato. Ancora ed ancora.

Chi è tua madre?, aveva chiesto Obito.
Kushina si era drizzata tutta, prendendo un paio di centimetri nella sola estensione della colonna vertebrale. Aveva levato il mento e aveva risposto con inaudita sicurezza: "Io non ho madre".
Minato aveva sentito un moto di comprensione per l’altra, la quale, a quanto pareva, come lui era orfana di un genitore.
Ma poi Obito era andato avanti, mantenendo una voce insolitamente salda: "Chi è tuo padre?"
E lei: "Io non ho padre."
Minato aveva osservato la bambina gonfiarsi, impettirsi, senza riuscire a capire il perché di tale atteggiamento.
Tu, cittadino, sei figlio del passato e padre del futuro. Apprendi e insegna, non dimenticare mai. Vivi il presente costruendo dalle macerie del passato: ciò che fai appartiene ai tuoi figli, ciò che sei lo devi ai tuoi avi. Sii un buon figlio, sii un buon avo."
[ Warning: "inversione generazionale"]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Kushina Uzumaki, Nuovo Personaggio, Yondaime | Coppie: Minato/Kushina
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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- Questa storia fa parte della serie 'Cristallo di sale'
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(5) – [ Post Mortem ]




Il cimitero era una distesa verde e piatta, ordinata nei suoi paletti disposti regolarmente: sulle ultime tombe l’erba non aveva ancora fatto in tempo a ricrescere. Di fatto, il cimitero del Ludus era riservato ai neri: da una parte perché aveva un forte significato solo per loro, dall’altra perché i bianchi erano già attrezzati da secoli per la sepoltura, ed erano stati i neri ad aver deciso di acquisire da loro quell’usanza. Come luogo di pellegrinaggio, ad ogni modo, era comune – perché il Ludus in sé era la meta reale di tali viaggi.

Minato osservava i paletti, silente, rendendosi ben conto che in quel luogo non era assolutamente il caso di andarsene in giro saltellando. Si era accorto molto presto di quanto fosse inutile provare a cercare una tomba specifica: il cimitero era una distesa infinita, compatta, che cresceva in ogni direzione.

A che pro, poi? Che senso avrebbe avuto trovare il punto in cui un corpo, privo di vita, era stato seppellito? Per poi solo decomporsi, e null’altro?

Siamo tutti uguali, nella morte.

Puoi fare una statua a chi ha vissuto grandemente, ma da morto ben poco può fare – di azioni non ne compirà più. E di lui resterà, entro breve, ben poco.

Lo stesso trattamento di naturale decomposizione dei corpi sembrava starsi applicando alle strutture del vecchio Ludus.

Prima o poi, scomparirà del tutto.

Minato non rusciva a non sentire un controsenso in quei ragionamenti, un’illogica di fondo da cui sembrava impossibile scappare: se da un lato dovevi ricordare, ed era giusto farlo, dall’altro dovevi anche lasciare andare. Cosa che i secessionisti fallivano nel fare, ostinandosi a rimarcare la differenza fra i due popoli.

Era così strano, galleggiare in quel mondo di idee sottili e insicure.

La gente camminava attraverso la distesa verde senza fiatare, osservando ora il terreno, ora i paletti. Ovviamente nessuno si fermava da nessuna parte: era come se attraversare quel campo di morti desse un leggero senso in più alla tua vita: fai ora, che dopo non è che avrai molto da fare.

La cultura dei bianchi prevedeva una seconda vita – fortunatamente scorrelata dalla prima, per cui non si scontrava con il concetto di "nulla" tipico della cultura dell’Ignis Regio, vecchia o nuova che fosse. Minato si ricordava che la prima volta che Kakashi aveva seppellito Naruto – secondo le usanze bianche – e gli aveva lasciato una pistola nella tomba nell’idea del ‘non si sa mai’, Kankuro s’era quasi offeso. L’anziano Kankuro raccontava spesso quella storia, specialmente quando si trattava di parlare del rapporto delle due culture con i cimiteri; ma, alla fine, il concetto era uguale.

Qualunque cosa accadesse dopo, non aveva niente a che fare con questo mondo. Quindi, ora come ora, era irrilevante.

I tre continuavano a camminare senza scambiarsi una singola occhiata. Obito, lo Sharingan attivato, osservava la sua realtà aumentata seguendo le istruzioni di Sakura: guardava e riguardava, con somma attenzione. Del guizzo di prima nessuna traccia, qualunque cosa fosse stata, in qualunque modo si fosse sviluppato – chissà, anche solo nella sua mente. La cappa tipica del Ludus rimaneva, apparentemente inamovibile.

Dopo quasi mezz’ora passata nel rispettoso silenzio, Minato parve cedere, mettendosi a tirare il lembo della casacca di Obito nel tentativo di richiamare la sua attenzione.

"Obito!" sussurrò, sperando che sua madre non lo sentisse.

L’altro abbassò lo sguardo, le sopracciglia levate. Non rispose: rimasero a guardarsi negli occhi, continuando a camminare.

Dopo aver capito che il cugino non sembrava intenzionato a rispondergli – ma la sua attenzione ce l’aveva tutta – Minato continuò: "A quanti anni ti è venuto lo Sharingan?"

Obito si strinse nelle spalle, scuotendo il capo. "Dodici" sussurrò a sua volta "Ma non farmi qui domande a cui posso risponderti dopo, Minato!"

"Ma tu cosa vedi di più?" continuò il bambino.

Obito strinse le labbra, scuotendo nuovamente il capo, e tornando a guardarsi attorno: era più che intenzionato a non rispondergli.

"Ma qualcuno vede oltre le tombe?" insisté quello, continuando a sussurrare. Mebuki faceva finta di non sentirlo, continuando ad avanzare.

Obito taceva.

"Qualche altra mutazione, dico." continuò il bambino, come se quel silenzio fosse dovuto al fatto che s’era espresso male.

Obito sospirò, esausto. "No, Minato." sillabò. "I morti sono morti, non è che vedi i morti."

"Ma forse chi ha una mutazione di tipo animale..."

Lo sguardo di Obito fu abbastanza eloquente: le labbra strettissime – no, non avrebbe parlato oltre –, le sopracciglia talmente convergenti da corrugare la fronte - no, Minato, non si può.

Minato, avendo afferrato il concetto, tornò a guardarsi attorno, sempre più raccolto nei suoi pensieri.

Dopo neanche due minuti, tornò a strattonare la casacca di Obito – il quale, rassegnato, tornò a fissare il bambino per capire cosa volesse adesso.

Minato, con insistenti cenni del capo, indicava in una determinata direzione: il cugino allungò lo sguardo, cercando di capire a cosa diamine alludesse. Poco più in là, una figurina rossa sostava immobile in mezzo alle tombe – comportamento, in effetti, alquanto insolito. Ma non poi così scandalizzante, in fondo. Man mano che camminavano, i due continuavano a guardare nella stessa direzione: Obito iniziava finalmente a capire le ultime domande di Minato – e perché avesse avuto tanta impellenza di porgliele.

Che ragione aveva qualcuno di inchiodarsi a fissare una tomba, una qualsiasi? Il bambino aveva ragionevolmente pensato che, in qualche modo, doveva averci visto dentro – altrimenti, non v’era senso alcuno.

"Sembrerebbe una bambina della tua età."

"Tu dici?" Minato sembrava stare iniziando a dimenticarsi che doveva sussurrare, alzando progressivamente il tono della voce. Obito lo zittì mimando uno ‘ssshst’ , per poi tornare ad osservare la figurina rossa. "Secondo me sì. Vai a vedere."

Il bambino parve sussultare: "Scherzi? Sarebbe decisamente scortese!"

Obito tornò a fargli ‘ssshst’. "Scortese è parlare al cimitero –"

"Appunto – che faccio, vado lì, la guardo e torno indietro?"

Quello fece spallucce. Ancora intenti a fissarsi, inciamparono in Mebuki – che, infastidita, si era fermata a guardarli male. Dopo aver quasi rischiato di andarle addosso, i due si fermarono, osservando la donna leggermente inacidita.

Il suo sguardo parlava da solo.

Ripresero a camminare, zitti. Lo sguardo azzurro di Minato, ogni tanto, tornava verso la figurina rossa – che, man mano che avanzavano, iniziava ad allontanarsi.



***


La bambina, accovacciata sopra a una tomba, intenta a fissare per terra, non si mosse.

Continuava a stare lì, assorta, apparentemente non del tutto presente: gli occhi, vaghi, parevano stare guardando in un altro mondo, osservando eventi che nulla avevano a che vedere con quanto la circondava.

Eppure, qualcosa nell’ambiente era cambiato. Lo aveva sentito, per quanto avesse ancora le idee poco chiare su cosa fosse veramente sentire: viveva di riflesso, dell’immagine filtrata da un’entità che si faceva via via sempre più distante.

Se sotto certi aspetti le idee le aveva chiare, per altri si sentiva confusa. Più si sentiva confusa, più la confusione aumentava: era un circolo vizioso.

Qualcosa stava accadendo, dentro di lei – o fuori. Dipendeva dai punti di vista.

Forse dentro e fuori.

Il respiro calmo, il cuore quasi troppo lento.

Lei aspettava, non faceva altro. Per ora non sapeva fare altro.


Ma aveva la sensazione di aver perso qualcosa.



***


Si sedettero sotto a un albero – un ciliegio, per la precisione – a riposare. Il sole iniziava la sua discesa, ed anche la fame faceva la sua comparsa.

Minato, però – oppure ovviamente – non sentiva né stanchezza né fame. Ancora in piedi, osservava la madre ed il cugino intenti a rilassarsi e distendersi.

"Lo vuoi un po’ di pane, Minato?" gli domandò Mebuki, perlustrando la sua sacca da viaggio.

Il bambino fece di no con la testa, mentre, assolutamente non intenzionato a sedersi, passava irrequieto il peso da un piede all’altro. La madre, dal basso, lo scrutò di sottecchi.

"Che hai." chiese, omettendo stancamente il punto interrogativo.

"Vorrei..."

Silenzio.

La richiesta sembrava assurda anche a lui. Ma la curiosità di Minato era cosa più che conosciuta, a quegli altri, che avevano perfettamente capito cosa gli frullava in testa.

"Vai."

Minato levò le sopracciglia, sconcertato.

"Sul serio?" domandò, tastando insicuro il terreno.

"Tanto sei tu quello che fa brutta figura se si mette a chiacchierare nel bel mezzo del cimitero. Il bracciale ce l’hai, no?"

Minato levò il polso, mostrando il piccolo oggetto che gli avvolgeva parte dell’avambraccio. C’era un dispositivo radio, lì dentro, capace di trasmettere, ricevere e triangolare. E qualche altra amenità – quegli aggeggi erano un’eredità diretta dei Custodes: dopotutto è sciocco rinunciare a tecnologie così potenti e pratiche. Potevano rimanere facilmente in contatto, in questo modo – e se si fosse perso, Mebuki lo avrebbe potuto trovare. Funzionava con una carica solare e, se le batterie si esaurivano, poteva mantenersi in tensione sfruttando il calore del corpo umano.

"Ecco. Tanto è il Ludus, mica una foresta selvaggia."

Minato non sembrava ancora del tutto convinto. Volse lo sguardo, interrogativo, verso Obito: quello, stanco morto da tanto camminare, gli fece cenno insistente di andare – non prima d’essersi stretto nelle spalle, a voler dire ‘perchè lo chiedi a me, poi?’.

Minato tergiversò qualche altro minuto, valutando e rivalutando la situazione.

"Non parlerò ad alta voce." disse poi, quasi volesse sottolineare che la maleducazione non era sua prerogativa. "Voglio solo capire perché sta lì."

"Beh – " fece Obito " – parlare devi, evidentemente."

"Sì, ma..."

"I suoi genitori dovranno essere da qualche parte -" aggiunse sua madre "– forse a quest’ora è già andata via."

Il bambino storse la bocca, ammettendo di non aver preso in considerazione la cosa.

"Provo solo a vedere se c’è ancora. Cos’avrà di particolare quella tomba?"

"Niente" lo liquidò il cugino "come ti ho già detto, non c’è modo di distinguere un morto dall’altro, a meno che tu non voglia scavare. Mutazioni o non mutazioni."

"Sì, ma..."

"Magari si è fermata per caso su di una tomba a caso. A riposare. O forse è rimasta lì perché si è persa, e non si muove in attesa che i suoi genitori tornino sui loro passi."

"In tal caso posso aiutarla!" realizzò Minato ad alta voce, raggiante, il volto illuminato.

Mebuki ed Obito lo osservarono straniti, per poi vederlo voltar loro le spalle ed allontanarsi di corsa, verso il cimitero.

Dopo che il bambino scomparve dalla loro vista, Mebuki sospirò, scartando il suo pezzo di pane: "Sarà meglio che ci mettiamo subito sulla sua frequenza, non si sa mai."



***


Quell’alito, quella bava, quello strascico di idea continuava a turbarla: aveva perso qualcosa.

Se ne rese conto con la dovuta calma, ma una volta che la cosa le fu chiara, non riuscì a distogliere la mente da quel pensiero: qualcosa, qualcosa di molto importante, le era sfuggito. Passato, presumibilmente perso.

Ma cosa?

Corrugò la fronte, lo sguardo che, dal nulla che fissava prima, sembrava stare cercare di focalizzare su qualcosa.

Ma, ancora: cosa?

Non ne aveva la più pallida idea.

Allora chiuse gli occhi, pensando che fosse una trovata furba. Il nero la cullò, l’assenza di percezione le era molto più congeniale: ecco, a quello era abituata. Il suo mondo era così: nero, vuoto, inesistente.

Respirando lentamente, iniziò a sentirsi bene. Minuto dopo minuto, la sua tensione scompariva, assieme allo sconforto e a quella strana sensazione che l’aveva turbata: non aveva perso niente, si ripeteva. C’era tutto.

Era lì.

Non avrebbe dovuto fare più nulla.

Nemmeno aspettare, realizzò.


Minato sostava in piedi accanto alla bambina. Le si era avvicinato a passo lento, dopo aver corso sin là: il respiro gli si era regolarizzato in quegli ultimi passi, per quanto ancora, in parte, prendesse boccate d’aria abbastanza profonde.

Quanto tempo era passato, da quando l’aveva vista? Mezz’ora?

Sembrava che per quel tempo, lei non avesse nemmeno cambiato posizione. Come faceva a stare così accovacciata senza che le si informicolassero le gambe?

Cercando di non far troppo rumore, rimase lì, a forse un metro da lei. Non sapeva bene cosa fare, se aspettare che quella si accorgesse della sua presenza o se attirare la sua attenzione. A ben guardare, teneva gli occhi chiusi in modo costante, quindi forse stava meditando. O qualcosa del genere.

Non pareva intenzionata a guardarsi attorno.

Il bambino fece per muovere un braccio, ma il suo corpo non rispose: no, non poteva – non avrebbe fatto altro che infastidirla. Lasciò passare ancora un po’ di tempo, indeciso, sperando che nel mentre succedesse qualcosa.

Non accadde granché.

La bambina rimaneva immobile, accovacciata davanti al paletto di quella tomba: i lunghissimi capelli rossi sfioravano il terreno, nascondendole parte del viso rotondo. Per il resto, portava una semplice casacca rosata, abbastanza lunga, ed un paio di sandali a più fibbie.

Minato attese un altro minuto, poi si fece coraggio – o forse, lasciò che la curiosità l’avesse vinta.

Cosa ci faceva lì, da sola, così accovacciata su di una tomba?

Perchè quella, e non un’altra?

Schiuse le labbra, pronto a parlare.


Il senso di pace che la avvolgeva diventava sempre meno intenso, ma non perché scemasse: si stava abituando. Man mano che prendeva coscienza di tale sensazione, capiva anche come quella serenità non venisse da dentro di lei, ma da fuori.

Certo, ora aveva senso. Aveva smesso di attendere perché ciò che attendeva era arrivato: per quello il suo stato di tenue ansia si era sciolto.

Non sapeva cosa aspettava – sapeva solo che, ora, era lì. Aveva ben poche indicazioni, in merito: poteva essere un oggetto, un evento, o semplicemente un istante preciso nello scorrere del tempo.

Dopo aver passato la sua esistenza ad aspettare, quella sensazione di libertà le piacque. Le piacque tantissimo.

Un respiro si intromise fra i suoni che era abituata a sentire: lo ignorò per qualche istante, finché non percepì meglio quel ritmo, finché, finalmente, non capì quel rumore.

Schiuse gli occhi, facendo scivolare una mano dalle ginocchia al terreno.


Non un suono uscì dalla bocca di Minato, che bloccò il fiato non appena vide la bambina muoversi: dopo aver riaperto gli occhi, aveva appoggiato il palmo della mano sul terreno, rimanendo un isto in quella posizione: sembrava carezzare l’erba, i ciuffi verdi che si infilavano fra un dito e l’altro – o forse sembrava che stesse ascoltando la terra. Poi, lentamente, si alzò in piedi, guardandolo.


Era come respirare. Non per la prima volta, no, né un respiro normale: era riempire i polmoni dopo aver trattenuto il fiato per tempi inenarrabili, assaporando ogni singola molecola d’ossigeno che assimilava. Mentre si alzava piedi la figura di un bambino si fece largo sulla sua retina, richiamando ancora ed ancora quell’idea di pace, di correttezza, di conclusione ed inizio che aveva sperimentato poco prima. Fece scivolare le pupille sugli occhi cerulei dei bambino, e non appena ebbe del tutto il contatto visivo con lui, capì.

Era giusto.

Era perfetto.

Era tutto al suo posto.

Glielo aveva promesso, in fondo.

Ecco cos’era, quel bambino, quegli occhi, e quell’infinità di altre cose che i cinque sensi umani non bastavano ad identificare: era lui.

Solo lui.

La promessa era stata rispettata. Lei non gli aveva mentito.


Quale gioia, solo in questo mondo.





Lo sguardo di quella bambina sembrava lo sguardo di chi ritrova sua madre dopo giorni che non la rivede.

No, di più.

Era assurdo.

Con quegli occhi spalancati, lo guardava come se si trovasse di fronte al miracolo più portentoso dell’universo tutto, a qualcosa di tanto inspiegabile quanto meraviglioso. Sembrava una persona illuminata, che in un sol sguardo aveva inteso il significato più profondo della vita.

Minato si era irrigidito, sconcertato, improvvisamente caricato di qualcosa che non comprendeva: che faceva, lo guardava?

Che aveva?

Cosa aveva fatto?

La bambina, ora in piedi davanti a lui, rimaneva immobile a scrutarlo, a impiantagli le pupille nelle sue: il biondino era talmente a disagio e stravolto dalla situazione che non riusciva nemmeno a pensare di interrompere quel contatto visivo. A dire il vero non pensava a niente in generale, e basta.

I due si fissavano.

Quella schiuse le labbra rosee, forse per stupore, o forse per parlare: la lingua sul palato, fece per emettere un suono mentre la staccava, ed allargava le labbra in una vocale.

Minato aveva le orecchie tesissime, attendendo di sentire quello che stava per dire la bambina.

Ma poi quella urlò.


La testa le sembrava le fosse stata presa e strizzata come una spugna. Ognuna di quelle infinite, belle sensazioni che l’avevano avvolta sino ad adesso, crescendo nel suo cuore, scomparve.

Così, di colpo.

Si portò le mani alle orecchie, ulando per il dolore che le aveva preso le tempie: fu una cosa talmente improvvisa che perse l’equilibrio e cadde, in ginocchio, urlando.


Minato fece un salto – assieme a qualche altra persona, seppur lontana, che aveva sentito l’urlo. Preso più che alla sprovvista, si guardò attorno, terrorizzato, mentre quella continuava ad urlare disperata.

"Ma che..?! Cos’hai? Ehi!"

La bambina gli rispose svenendo.




***



"Ti giuro che non le ho fatto niente! Niente!"

Minato era disperato. Obito cercava di tranquillizzarlo, mentre Mebuki porgeva un pezzettino di formaggio ed una borraccia d’acqua alla bambina, ancora rintronata: pareva si fosse svegliata nel bel mezzo della notte, probabilmente da un incubo.

"Mi dispiace, scusa!" continuò Minato, verso quella. La bambina lo guardò, dapprima perplessa, poi lontanamente divertita. Il biondino era il volto della disperazione. "Non volevo!" continuò quello.

"Minato, piantala!" tagliò corto sua madre, ormai estenuata dal sentire le infinite scuse del bambino. "Non hai fatto niente, sono cose che succedono."

"Tua mamma ha ragione." fece eco la bambina, che pareva starsi svegliando "Non è mica colpa tua se a me viene il mal di testa." per quanto apparisse leggermente intontita, parlava in modo decisamente chiaro e lucido. Più che altro, sembrava stanca.

Minato rimaneva interdetto, angosciato, odiandosi. Se non fosse andato lì a darle fastidio, ne era certo, non sarebbe successo nulla.

Chissà, si domandava ogni tanto, fra un’agitazione e l’altra: magari sarebbe ancora stata lì, immobile, accovacciata su quella tomba. Nonostante gli eventi lo avessero trascinato nel panico, non riusciva a non continuare a domandarsi cosa faceva quella bambina, lì, in quel modo, da sola. Ma, ora come ora, non si sentiva proprio nella posizione di poter indagare: la colpevolezza aveva la meglio.

"Allora, com’è che ti chiami?" domandò Obito alla bambina, con un sorriso tranquillizzante sulle labbra.

"Kushina." fece quella, e poi riprese a bere dalla borraccia.

"Dove sono i tuoi genitori, Kushina?" domandò dunque Mebuki, intenta a trafficare con il suo bracciale.

Kushina guardò Mebuki, senza dire niente: poi fece spallucce.

Obito corrugò la fronte, guardandola interrogativo. "Sei qui con uno dei viaggi della Scuola?"

"Cosa?" domandò quella, di rimando.

"Sei col professore?"

Kushina levò le sopracciglia, osservando Obito come se le stesse parlando in arabo. "Scusa, ma di che stai parlando?"

Mebuki levò il capo, portando lo sguardo, ora preoccupato, verso la bambina. Sembrava essersi rimessa subito in sesto, dopo l’episodio descritto da Minato: era pure vivace, e pareva ormai lucida. Eppure certe loro domande non le riusciva a comprendere.

"Kushina, cosa fai qui all’altipiano del Ludus?" le domandò.

Quella li scrutò a lungo, perseverando in quell’espressione da ‘ma che razza di domande assurde mi state facendo?’. "Perché, è vietato stare qui?" domandò poi, con un filo di sarcasmo.

Obito e Mebuki si guardarono, attoniti.

Beh, no che non era vietato.

Ma di sicuro non era normale che lì ci fosse, sola, una bambina di ... quanti, poi?

"Quanti anni hai, Kushina?"

"Otto." fece quella, tranquilla. "Quest’acqua è molto buona. Da dove l’avete portata?"

"... é l’acqua di Konoha..." le rispose Obito, mormorando meditabondo.

"Konoha?"

"Sì, Konoha."

"E dov’è?" chiese Kushina, sinceramente incuriosita.

Minato assisteva da spettatore esterno a quegli scambi di battute tra i due adulti e la bambina: di sicuro, a giudicare dal primo sguardo che le aveva rivolto, non si sarebbe mai e poi mai aspettato che fosse stata così... frizzante.

Ad ogni modo, davvero, sembrava stessero parlando con una persona che non apparteneva, come minimo, alla Magna Regio. Considerata la posizione del Ludus e che i contatti con altre popolazioni, al momento, praticamente non c’erano – non si sapeva nemmeno se ce n’erano, di altre popolazioni, visto che per cercarle bisognava attraversare la foresta dei Demoni - considerato questo, si diceva, Kushina sembrava un’aliena.

O forse, più semplicemente, affetta da amnesia.

Non poteva esserci altra spiegazione, si convinse Minato.

Che situazione assurda, si disse, continuando a guardarla.





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Ringraziamente a Killu per la "costanza recensiva" e a reds che ha violato la sua "costanza irrecensiva" per questa storia/serie.

=)


OK, al solito spero gradiate e spero non si stia scendendo troppo nello scontato. Chissà se avete capito cosa sto architettando. A dire il vero non vorrei che lo aveste capito, se no non c’è gusto xD ma mi piacerebbe anche aver smosso qualcosa.


Al solito, come ho già sperimentato nei Frutti dell’Oblio, più vado avanti nei capitoli più mi si generano in mente particolari e dettagli che poi si rivelano portanti: e così la quantità dei capitoli stimata cresce esponenzialmente.

C’è una buona notizia, in tutto ciò: non ho mai stimato i capitoli di questa storia. XD meglio così.


Va bene, un saluto. Spero fra l’altro di non aver fatto troppi errori di battitura, l’altra volta ne ho scovati parecchi.. <_<‘’






   
 
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