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Autore: Katekat    28/08/2012    5 recensioni
Quando la realtà appare troppo spaventosa, vorresti che fosse tutto un sogno.
Ma quando le tenebre s'infittiscono, è difficile dire dove inizia la realtà e dove finisce la fantasia.
In fondo, resta sempre lei il suo peggior incubo...
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Rodolphus Lestrange, Sorpresa | Coppie: Rodolphus/Bellatrix
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Nightmare










Non appena aprì la porta, si rese conto che c’era qualcosa che non andava. 

Era tutto troppo silenzioso – non c’erano i suoni familiari di una casa abitata, viva.

Era tutto troppo immobile – sembrava che l’aria stessa trattenesse il respiro, come in attesa di una sciagura incombente.

Le luci erano spente – la penombra fumosa dava alle stanze l’aspetto patinoso e dimenticato di vecchie fotografie in bianco e nero.

Con un tocco di bacchetta accese le candele nell’ingresso. 
Marciò diritto verso il salone, facendo gemere piano le assi di legno sotto le sue scarpe. 
Un altro gesto e una lingua rosso vivo guizzò crepitando nel caminetto.

Si tolse il mantello ghiacciato, gettandolo su una poltrona. Accostò le mani intirizzite alla fiamma. Le sue dita sembravano innaturalmente lunghe e diafane, attraversate dal chiarore del fuoco come se fossero fatte d’acqua – come morte. 
Lungo la schiena un brivido che nulla aveva a che fare col freddo.

Si allontanò dal camino, dirigendosi verso il piano superiore. 
I suoi passi non fecero rumore sulle scale. 
Ancora silenzio – pelle d’oca sulle sue braccia.

La casa sembrava vuota.







Poi, all’improvviso, il tonfo secco di una porta che sbatte. 

Viene dalla stanza di suo figlio – è lì che si dirige, a passi misurati. 

Gli sembra di camminare attraverso melassa densa – l’aria è diventata dieci volte più vischiosa, ogni passo è una fatica immane. Il suo corpo pesa all’improvviso tonnellate, gli sembra di muoversi al rallentatore: la porta della stanza, invece di avvicinarsi, si allontana, rendendo la sua un’impresa disperata.

Ma alla fine la raggiunge – è socchiusa. 
Ruota con un cigolio lamentoso sui cardini mentre la spalanca.

Tutto sembra normale – la culla bianca è al suo posto al centro della stanza, lì dove dovrebbe essere. Il sole morente vi fa piovere una lama di luce purpurea che incendia i veli bianchi di riflessi di sangue.

Si avvicina lento, trattenendo il respiro. 
Gli sembra ancora tutto così straordinariamente irreale – quei riflessi sul bianco hanno esattamente la stessa sfumatura del sangue. 

Si muove silenzioso – non vuole svegliarlo, starà dormendo, e l’ultima cosa che desidera è interrompere i sogni sereni del suo bambino.

Si china sulla culla – lui è lì, le manine strette a pugno ai lati della testolina rugosa. Il cuscino è spostato di lato. Sotto il ciuffo di capelli neri, ha gli occhi aperti, neri anch’essi, e lo guarda. 
È tranquillo. Non lo accoglie con i versetti o le smorfie che fa di solito. 
Sa che è ancora troppo presto, che è ancora troppo piccolo, ma ha sempre avuto la nettissima sensazione che lui lo riconosca quando gli si avvicina, che sappia che è suo padre quello che si sporge su di lui ad accarezzargli il nasino appena accennato, che è suo quel dito che gli solletica dispettoso il palmo, prima che lo stringa forte nella sua presa minuscola – sembra dire “ti ho preso, ora non mi sfuggi più” – ed ogni volta gli strappa un sorriso. Compiaciuto, orgoglioso:  è suo figlio.

Ma ora, forse, non ha voglia di giocare. Non sembra nemmeno guardare direttamente lui, ma un punto fisso del soffitto. 
I suoi occhietti neri non sono lucidi come sempre: sembrano piccole biglie appannate da uno strato di polvere.

Prende delicatamente in braccio suo figlio, stando attento a non fargli male con la bacchetta che ancora stringe in mano. 
Lui non si agita, non piange. È come tenere tra le mani una bambola, solo più morbida. 

Appoggia la guancia contro la testolina ancora calda e inspira quel profumo di pulito e di innocenza che da oggi in poi assocerà sempre al suo piccolo  Rigel. 
Lo tiene stretto per tanto, tantissimo tempo. 
Lo culla come ha sempre fatto ogni sera, per farlo addormentare, e ogni notte, quando si risveglia piangendo – capita spesso, è un neonato inquieto. Ma, miracolosamente, ogni volta che lo prende in braccio e gli canta una ninnananna in francese, sembra quietarsi di colpo, quasi fosse una specie di formula magica. Forse si accorge che è una lingua diversa da quella con cui gli parla di solito, più dolce, più musicale – una carezza di velluto su una ferita aperta. Lenisce ogni dolore, placa ogni sofferenza, induce a chiudere gli occhi e sciogliere le membra in un languido sonno senza ombre.

Lo fa anche adesso: gli canticchia in francese all’orecchio, cullandolo avanti e indietro, come a farlo addormentare. 
Ma lui già dorme. Non avrà più bisogno, da oggi in poi, della sua ninnananna.

Lo stringe con dolcezza, come se fosse fatto del cristallo più puro. Ed è davvero la cosa più pura che gli sia mai capitato di sfiorare con le dita. 
Lo tiene al caldo col proprio corpo, perché il suo si sta raffreddando rapidamente. 
Anche la luce fuori dalla finestra muore velocemente, spegnendosi in un crepuscolo azzurro violetto.

All’improvviso lo guarda, nei suoi occhietti vuoti come una lampadina fulminata, e sente la gola chiudersi all’improvviso. Non sopporta di vedere i suoi occhi così spenti: gli tolgono anche l’ultima illusione che sia ancora vivo – e lui vuole credere disperatamente che lo sia. 
Non è pronto, forse non lo sarà mai, per quell’orrore. 
Perciò gli abbassa lentamente le palpebre, sottili e levigate come petali di rosa, sulle pupille cieche – nasconde l’abisso perché, se continuasse a guardarvi dentro, vi sprofonderebbe anche lui. 

Ecco, ora che i suoi occhi sono chiusi sembra proprio che stia dormendo. 
Si aggrappa a quell’illusione come all’ultima scintilla di ragione. Sa che, se lasciasse penetrare dentro di sé la verità di ciò che è successo, diverrebbe immediatamente pazzo. Perché è folle quello che i suoi occhi vedono e la sua mente tiene lontano – e disumano, irragionevole, atroce. Inconcepibile.

Vorrebbe restare per sempre così, con il suo bambino tra le braccia – cullarlo per sempre, non abbandonarlo mai. 
Non vuole che resti solo – eppure è già lontano. 
È lì dove lui non può andare, lì dove non ha più bisogno della sua vicinanza. 

E c’è un’altra cosa da fare, purtroppo – sente l’urgenza nascergli da dentro e pungolarlo come una spina in qualche parte del suo cuore spezzato. 
Non può rimandare. Deve farlo.

A malincuore depone Rigel nella culla. Gli tiene sollevata la nuca mentre gli sistema il cuscino sotto – meglio che stia comodo se deve dormire per sempre. 

Gli getta un ultimo sguardo – nei suoi occhi lacerante tenerezza che non ha bisogno di parole; annichilita adorazione che non conosce parole per congedarsi dalla cosa che ha più cara al mondo. Semplicemente, deve lasciarlo andare, adesso, prima che non sia più in grado di farlo. 

Esce dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle senza far rumore, come se ancora stesse dormendo e non volesse disturbare la sua nanna – una di quelle abitudini che lo accompagnerannoper sempre. 

Ridiscende le scale – barcolla, deve appoggiarsi al corrimano per non cadere. 
Non riesce a reggersi in piedi; il mondo gli gira improvvisamente intorno, stemperandosi in una tavolozza di colori annacquati e forme sfocate. 
Si passa una mano malferma sugli occhi – sulle ciglia bagnate, sulle guance bagnate, sulle palpebre che tremano come le ali di un uccellino ferito. 

Non può cedere. Non ora. 
Deve ancora fare una cosa, prima della fine.

Riprende a scendere le scale. Le mascelle contratte, le labbra stirate sigillano dentro di sé l’urlo di agonia che gli sale ad ondate dal petto. 
Nessuno deve sentirlo. Quel dolore è solo suo, appartiene a lui – è il gemito di quella parte di sé che è morta e che continua a morire ad ogni passo incerto, ad ogni ansito strozzato, a ogni battito che gli rimbomba sordo contro le tempie, come una campana a lutto. 

Si passa una mano tra i capelli, automaticamente. L’altra, se ne ricorda solo adesso, stringe la bacchetta con tanta forza da far sbiancare le nocche. 

Riattraversa il salone. Passa davanti alla lingua di fuoco che si contorce sottovoce nel camino, apre la porta.

Non sente il freddo mentre discende il pendio erboso che degrada dolcemente verso la scogliera sottostante, a picco sull’oceano – in primavera, è uno spettacolo meraviglioso di sole e acqua, e profumo di rose che emana fragrante dalla terra calda. 
Ora che è inverno inoltrato, una pennellata di grigio ferro ricopre le onde increspate. Le creste di schiuma interrompono l’uniformità mutevole del mare che brontola piano, sotto la carezza ruvida del vento. 
Granelli di sabbia si sollevano in una danza torbida nell’aria – qualcuno gli entra negli occhi.

Non sa precisamente dove stia andando, i suoi piedi si muovono per lui. 
Il corpo ha temporaneamente preso il controllo, mentre il suo cervello sembra staccato, tramortito, sedato. 

Scende la scala intagliata nella roccia bianca della scogliera. 
In fondo si distende una lingua di fredda sabbia grigia. Quando c’è alta marea sparisce, inghiottita dall’oceano. 

Affonda nella sabbia – il vento gli spazza la faccia, spingendogli i capelli negli occhi e in bocca.
La vede: una figura nera – lei veste sempre di nero – che si staglia immobile contro il grigio metallico del crepuscolo invernale, ieratica e solenne come una statua di marmo dimenticata sulla spiaggia da secoli. 

Gli dà le spalle – i capelli le ondeggiano intorno come un manto luttuoso. 
Vede i suoi piedi, nudi e bianchi, quando si avvicina. 

Le si ferma di fianco – non la guarda. 
Come lei, fissa lo sguardo all’orizzonte, dove cielo e mare si uniscono in una linea sottile, che sfuma tra il liquido e l’aria. Impalpabile, inconsistente, inafferrabile – come le loro vite. 

«Fa freddo», dice a voce bassa lei, un sussurro sfuggito quasi per caso alle sue labbra disidratate dal vento. «Fa sempre più freddo.»







Le prendi la mano. 

Lei te lo lascia fare: la abbandona inerte e fiduciosa nella tua, come non ti ha mai permesso prima.
La stringi tra i tuoi palmi per darle calore, ma anche le tue mani sono fredde. 
All’improvviso su di esse cadono gocce bollenti; alzi il capo per scrutare il cielo, ma non c’è traccia di pioggia. Sono le lacrime che cadono dai tuoi occhi, sulle vostre mani intrecciate come allora, quando vi eravate appena sposati. 

Quanto tempo è passato? 
La sposeresti ancora, pur sapendo quello che farà?
Rifaresti tutto di nuovo, pur sapendo come andrà a finire?
Le daresti ancora tutto, pur sapendo che ti toglierà tutto?

Non dici niente. Non la guardi in faccia. Tieni gli occhi fissi sulle vostre dita pallide, affilate, congiunte. 
La pelle del tuo viso ha perso sensibilità. Avverti solo un lieve pizzico, lì dove ti sferza il vento freddo, e un immenso dolore lì dove il vento non arriva, al centro del petto, dove c’è quella cosa maciullata e pulsante – tutto ciò che rimane del tuo cuore.

Lasci vagare lo sguardo sul mare.
Le onde si gonfiano sempre più infuriate intorno a voi. Dovreste andarvene da lì, prima che l’impeto della marea vi travolga. 
Cavalloni impazziti si frangono con frastuono assordante sulla battigia. 
Abbassi lo sguardo: ormai sono a livello delle tue scarpe – lambiscono i piedi nudi di tua moglie, le dita illividite dal freddo.

Torni a guardare l’orizzonte, niente più che un filo tremolante teso tra il mondo al di sopra e quello al di sotto del mare. 
Torri di schiuma schizzano alte nel cielo. La superficie cristallina ribolle come un calderone sul fuoco. 
Senti le goccioline salate spruzzarti la faccia, mescolarsi alle lacrime.







Basterebbe così poco, pensi, per farla finita. 

Basterebbe lasciarsi sommergere dall’onda e aspettare che l’oceano faccia il suo dovere. 

Immagini l’acqua entrare nei tuoi polmoni, spegnere l’incendio che ti arde da dentro. 
Troveresti la pace, nel ventre dell’oceano che tutto accoglie e mai giudica. 

E poi immagini lei, librarsi senza peso tra le onde – sirena terrificante e bellissima, i capelli neri che si allargano come alghe spettrali intorno al viso liscio, bianco, senza espressione. 
Anche lei, come te, troverebbe pace? Riuscirebbe il mare ad avere la meglio sul fuoco famelico che la consuma? 







Basterebbe una piccola spinta, pensi. 

Sai che, in questo momento, lei non si opporrebbe se volessi trascinarla in acqua. 

Immagini di tenerle la testa sotto fino a non sentirla più dibattersi; immagini il suo corpo sprofondare lentamente negli abissi liquidi, trascinato in basso dal peso delle vesti fradice che, come un bozzolo, saranno la sua bara e la sua tomba per l’eternità. 
La guarderesti sparire lentamente sotto la superficie sfaccettata – e saresti libero.
Renderesti giustizia a tuo figlio.
(Che ne hai fatto del nostro bambino? Cosa ti aveva fatto di male?)
Niente. E’ lei il Male.


Vorresti gridarle contro; vorresti prenderla per le spalle e scuoterla fino a sentire l’anima sbatacchiare dentro di lei. 
Sai per certo che una volta ne possedeva una, di anima, ma poi è andata rompendosi, un pezzo per volta, a ogni omicidio, a ogni tortura, a ogni crimine commesso. 
Ma in questo momento hai disperatamente bisogno di credere che sia rimasta una scheggia, una sola, dentro di lei. 
Solo questa consapevolezza potrebbe trattenerti dall’ucciderla con le tue stessi mani, lei che ti ha portato via la cosa a cui eri più legato al mondo. 

Ma in fondo tu... tu l’hai sempre saputo.
La verità è che è molto più colpa tua che sua: non avresti dovuto costringerla ad avere un figlio quando sapevi perfettamente che non lo voleva, che non era portata per fare la madre, che era priva del benché minimo istinto materno. 
Avresti dovuto saperlo, avresti dovuto prevederlo, avresti dovuto impedirlo. 

Non dovevi lasciarlo solo con lei. Dovevi proteggere tuo figlio. Così piccolo, così indifeso... aveva bisogno di te – ma tu non c’eri. 
Non c’eri mentre il cuscino premeva contro la sua minuscola bocca, spalancata in un grido silenzioso. 
Non c’eri a difenderlo dal mostro. 

E’ un mostro, la donna che ora si volta silenziosamente verso di te e ti guarda con occhi neri privi di qualsiasi espressione. 
La guardi anche tu — cerchi di indovinare l’ombra della bestia agitarsi in fondo alle sue pupille, ma non vedi niente, solo vuoto. 
Il silenzio definitivo e terribile del nulla. 

Come può il suo viso essere così intatto? Come può non recare alcun segno dell’orribile colpa commessa? 
Solo tu, con gli occhi del padre cui è stata strappata la propria carne, vedi il sangue sulle sue mani, sui palmi lisci che premono contro i tuoi, sulle sue dita eteree come quelle di un fantasma. 
Forse siete entrambi dei fantasmi. Forse siete morti anche voi, insieme al piccolo Rigel, e non ve ne siete accorti. 
Se c’è veramente qualcuno che merita di morire, siete voi. Non lui, che non aveva nessuna colpa. Voi, che avete trasformato la vostra vita in un sentiero costellato di infamie e nefandezze. 
Voi sì che avreste dovuto morire.

Non eravate fatti per essere genitori. Non meritavate la gioia di un figlio. 
Avevate ricevuto un dono e l’avete lasciato appassire come una rosa senz’acqua. 
Siete dei mostri, degli animali. E ora pagate per i vostri peccati. 







Pensi che sarebbe così facile annegarti, annegarla — ma questo non cancellerà le vostre colpe. 

Non purificherà il mondo dalla macchia indelebile che vi avete lasciato. Non metterà a posto la tua coscienza, corrotta per sempre.

Vorresti ucciderla. La vorresti morta. 
Non hai mai desiderato niente prima con uguale intensità – con tanta forza che ti sembra disoffocare.

Vorresti prenderla a schiaffi e ridurre il suo viso – il suo bellissimo viso, che ti ha stregato dal primo momento in cui l’hai intravisto – in un ammasso sanguinolento, come è ora il tuo cuore. 
Vorresti farle male – tu che ti sei sempre affannato a prodigarle solo piacere. 

Vuoi che senta dolore, perché è solo dolore che tu hai provato, vivendo con lei. 

Vuoi che muoia, sì. 
Lo desideri disperatamente – ferocemente.







Sai già che non la ucciderai. 

No, perché tu sei colpevole quanto lei, se non di più. 
Tu eri quello sano, lucido fra voi due; spettava a te fermare la catastrofe prima che accadesse. 
Ma tu hai fatto finta di non vedere; ti sei illuso che lei finalmente fosse cambiata, fosse diventata la donna che tu volevi. 
La madre che speravi per tuo figlio.

Non la ucciderai anche perché tu sei già morto, dentro. 
Una parte di te è volata via da tuo figlio e ora lo tiene in braccio nell’aldilà quando ha freddo, e continua a sussurrargli ninnananne all’orecchio quando ha paura. 
Quando è nato gli hai fatto una promessa: gli hai giurato di prenderti cura di lui, sempre e comunque, e di non abbandonarlo mai. 
Stai solo mantenendo la tua promessa. 


Sai che un giorno lo raggiungerai e starete per sempre insieme. 
Ma quando verrà il suo momento, lei, invece, non ci sarà. 
Non ci sarà posto per lei tra voi. 
Almeno lì, dopo la morte, non dovrai temere che ti porti via anche l’ultima cosa che ti è rimasta. Almeno lì, sarete al sicuro dalla sua pazzia.

Perciò le stringi più forte la mano, le passi l’altra intorno alla vita e volti le spalle al mare, trascinandola dolcemente via dalla risacca sempre più impetuosa. 
Lei te lo lascia fare – si abbandona contro di te con quella fiducia assoluta che non ti ha mai mostrato prima. Come se sapesse per certo che tu non potresti mai farle del male.

E, vergognandoti maledicendoti odiandoti disperandoti, sai dentro di te che ha ragione:nonostante tutto, non le farai mai del male.

«Vieni tesoro, torniamo dentro.»





***






All’improvviso spalanchi gli occhi e ti ritrovi seduto sul tuo letto, scosso da brividi talmente intensi che ti assale la nausea. 

Ti guardi intorno con occhi sbarrati, incredulo che si sia trattato solo di un sogno. 
Sembrava così reale, vero, Rodolphus?

Ti volti immediatamente verso il suo lato del letto: le lenzuola sono intatte - lei non c’è. 
Ancora una volta, ha preferito stare con il suo Signore piuttosto che dividere il letto con te.

Ma stanotte non riesci a dispiacertene. 
Non riesce ad addolorarti la consapevolezza che lei non ti ami. 
Non riesci a desiderare di essere una vera famiglia, con lei.

Stanotte sei contento che tu e Bella non abbiate avuto figli.








Fine
  
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