1
I
vecchi ricordi, che erano scivolati via silenziosamente nel fiume del tempo,
iniziavano a farmi male. Li misi a tacere, nascondendoli al mio cuore tremante
e sforzandomi di sorridere. Lo immaginavo come un agglomerato scomposto,
formato da sentimenti di convenienza, intaccato dalla ruggine, da ferite
cicatrizzate male che talvolta sanguinavano ancora, lambite da venti tempestosi
e dall’orgoglio che mi invadeva. Non era liscio e bianco come la candida
porcellana, ma grigio e bruciato come la cenere delle sigarette che fumavo mal
volentieri. Ardente di passione, innocente e perso nell’incertezza. Paura di
far del male amando, e paura di essere amato. Paura di provocare dolore e
riceverne. Perché conosceva bene il significato di essere preso a schiaffi.
Piano
piano realizzavo che il mio passato non mi aveva mai
aiutata a guarire la malattia che perseguitava insistentemente il mio essere.
Non aveva senso avere paura di un futuro a cui non potevo sfuggire. Il mio era
un cancro incancellabile. Dolore.
-
Mi spiace per essermi comportata in quel modo l’altro giorno, per questo ti
chiedo scusa e sono qui anche perché vorrei rimediare alle mie parole.-
-
Altro da dichiarare?-
-
Nient'altro, direi.-
-
Bene! Allora…un frullato alla fragola ed un bicchiere d’acqua. E’ tutto,
grazie!-
Il
cameriere rimase un attimo interdetto, lo sguardo perplesso, ma prese
ugualmente il menù dalle mani di Chiara e segnò l’ordinazione sul blocchetto di
fogli rigati. Si girò su se stesso, borbottando misteri e segreti, e dirigendosi
verso il bancone principale.
Il
locale era piccolo e carino, come qualcosa di prezioso. I tavoli neri e le
sedie bianche, non una sporca, né rovinata in alcun modo. Anche i quadri appesi
ad ogni parete ritraevano scenari incolori o combinazioni di immagini visionarie.
Quella perdita di colore e vivacità era in perfetta sintonia con le persone che
abitavano quel luogo ogni giorno o quasi. Ragazzi e ragazze che parlavano di
politiche e padroni del mondo, vecchie signore che si lamentavano della società
moderna e le guerre giuste o circa, distinti signori che leggevano notizie dal
mondo della disperazione. Era decisamente un clima pacifico e potevo finalmente
riporre l’accendino nel cassetto.
-
Senti, senti…- mi richiamò alla realtà, sventolando la sua mano davanti agli
occhi, persi poco prima nella contemplazione del suo decolleté. E dire che
pensavo avesse capito i miei gusti ma evidentemente mi sbagliavo. Ringrazio la
natura per avermi fatta nascere donna.
-
Come ti dicevo, ho portato degli schizzi che ho fatto di recente. Li ho messi
in questa cartellina.- me la porse, sfilandola dalla borsa. Le mie dita
sfiorarono le sue se non per pochi secondi, nell’attimo di transizione. La sua
pelle era ruvida, ma non potevo esserne del tutto certa avendola toccata per così
poco tempo.
Aprii
la cartellina e sfogliai uno ad uno i fogli in esso contenuta: paesaggi di
montagna a carboncino, ritratti di persone e abbozzi di nature morte. Tracce
lievi e sottili che parevano volersi dissolvere nel nulla. Le idee erano
semplici, forse copiate da qualche parte. Che importava? Alle prime armi ci si
aggiusta come si può, e ricordavo volentieri l'improvvisazione di una ragazza
che aveva usato del bianchetto per creare la schiuma delle onde.
Poggiò
le mani sotto il mento ed i gomiti sulla tavola, attendendo probabilmente un
mio giudizio, completo o meno. Se era davvero quello che si aspettava,
osservandomi esaminare i suoi disegni, bè, aveva
proprio capito male. Non intendevo dare alcun giudizio sul suo tratto
personale. L’anima del disegnatore è concentrata nel matita che ne traccia le
linee, non di certo nei giudizi di un terzo che non deve mettere il naso nella
relazione tra i due.
-
Studi illustrazione?- le chiesi semplicemente, senza staccare gli occhi dai
fogli. Dire che la domanda l’ha lasciata un po’ stupita e delusa era abbastanza
per descrivere il suo sguardo. Era una domanda così strana e di difficile
risposta?
-
Veramente no…sono appena al secondo anno di scienze e tecnologie chimiche.- fu
la sua risposta frettolosa, non rivolgendomi lo sguardo come stavo facendo io nei suoi confronti, solo che a
differenza mia cercava
di guardare altrove, sempre più distante con gli occhi e la mente.
-
Però. Complimenti nonostante questo. Hai un buon tratto, un po’ pesante in
alcuni punti, ma volendo puoi rimediare, se vorrai naturalmente.- un attimo di
pausa, sperando di catturare la sua attenzione – Avrei dovuto capirlo.-
-
Cosa?- si voltò finalmente, regalandomi tutta la sua attenzione. I suoi occhioni spalancati erano pieni di curiosità, quasi
devozione, o forse semplice interesse. Azzurri, pastello, mare, acqua della barriera
corallina. Senza accorgersene congiunse le mani alle mie, che le avevano
catturate silenziosamente come solo un abile predatore sa fare.
-
Sono ruvide. Non era solo un’impressione.- le strinsi alle mie, osservando
ancora i suoi occhi.- Si può sentire e capire che ti dai alla sperimentazione.-
Non vuoi sperimentare con
me?
Le
sue labbra semiaperte cercavano insistentemente di formulare delle parole con
significato, ma le corde vocali si rifiutavano di vibrare. I miei occhi
parlavano senza bisogno di emettere suoni e mescolando lentamente i colori per
creare il rossore delle sue guance, le sue pupille attingevano immagini dalle
mie come se nulla fosse. Visioni esplicite.
No.
Non
volevo.
Non
dovevo.
Allora
perché lo facevo, ancora, morbosamente?
Certo
che poteva aiutarmi, in qualche modo, iniziando a ritrarsi.
Egoista.
Lo
so, grazie. Non ricordarmelo. Non ricordarmi cosa sono. Conosco me stessa, non
voglio farmi rimproverare proprio da lei. Da me. Da tutti. Da coloro che
puntano il dito e, con la semplicità estrema di bere dell’acqua, formulano
parole che scalfiscono ancora e ancora, senza fermarsi. Non ne ho bisogno. Vi
ringrazio di esservi preoccuparti per cos’è giusto e per cosa è sbagliato, per
me. Ma credo sia meglio iniziare a preoccuparsi ognuno per se stessi. Io a
cominciare da Me.
-
Direi…che sono abbastanza brava…- farfugliò lentamente senza staccare né
sguardo né mani.
Perchè non mi mostri la tua bravura?
-
…smettila, per favore…-
-
Non ti sto facendo nulla.- dissi pacatamente, assottigliando gli occhi e
prendendo ad accarezzarle il dorso delle mani. Era confusa, forse. Era
imbarazzata, anche. Direi che non si era mai trovata prima ad essere
corteggiata da un’altra ragazza. O forse non era mai stata corteggiata.
Sembrava così pura e semplice, nonostante il carattere sbarazzino e decisamente
estroverso. Le impressioni che mi dava erano essenzialmente due: la prima, che
aveva alcune esperienze alle spalle; la seconda, che era stata fregata. Puntavo
tutto sulla seconda, che mi pareva la più lampante. Presi la personale
decisione di volerla coccolare come si doveva.
-
Non mi stai facendo nulla, è vero,- disse ad un tratto, spostando i miei
pensieri- …ma mi spiace dirti che non capisco perché stai…bè
ammettilo, ci stai provando con me.-
-
Hai un ragazzo?-
-
Cosa?-
-
Ho chiesto se hai un ragazzo.-
-
No…-
-
L’hai mai avuto?-
-
Ma che stai dicendo…-
-
L’hai mai avuto?-
-
…mai…-
Le
lasciai le mani, portandomele sotto il mento, assumendo la posizione che aveva
lei poco prima. Non le ritirò, sembrava aspettare una prossima mossa.
-
Allora si, ci sto provando con te.-
Il
rossore la colse improvvisamente e non fece nulla per nasconderlo. Nello stesso
momento arrivò il cameriere, oserei dire finalmente, e posò l’ordinazione sul
tavolino, piegando in due lo scontrino e ponendolo sotto il tazzone
del frappè alla fragola, che ricordava tanto il
colore di Chiara in quel momento. Si allontanò e quasi ci avventammo sulle
bibite appena portate. Pareva che non bevessimo da tantissimo tempo, tanta era
la foga. O era solo la gola secca dalla sorpresa che aveva suscitato in lei la
voglia matta di bere?
Girai
il cucchiaio nel mio bicchiere, lentamente, osservandola ancora. Sorrisi del
suo imbarazzo e nello stesso tempo mi spiaceva averglielo causato. Tolsi il
cucchiaio bagnato e lo poggiai al fianco del piattino bianco con il contorno
nero. Bevvi, e infine posai con calma il bicchiere vuoto sullo stesso piatto.
-
Mi spiace, sono fatta così. Non volevo spaventarti. Forse per te tutto ciò è
nuovo.-
-
E’ decisamente nuovo…- mugolò, osservando con minuzia il tovagliolino di carta
davanti a lei. Lo presi e lo spostai in alto. Lei seguì perfettamente il
percorso, così da guardarmi in faccia ancora una volta.
-
Ti andrebbe di uscire con me qualche volta?-
-…perché
no?-
Strano,
mi dissi internamente. Che voglia provare nuove formule o concetti chimici? O
forse avevo scatenato in lei una certa emozione e voleva porre fine alla dolce
tortura? Queste cose le conoscevo bene, ahimè oserei dire.
Non
c’è nulla di più pericoloso di una pozione d’amore.
Poi
torno in quel luogo e ricomincio a pensare. Al passato. Al presente. Mai al futuro. Sento che
se voglio posso dimenticare le cose legate a ieri, se ho abbastanza forza di
volontà posso liberarmi delle cose inutili e mantenere per me ciò che è
realmente necessario e significativo. Tutto il resto è principalmente una
decorazione. Una maschera, forse. Mi preoccupo di tutto e niente. Mi faccio
carico di ogni cosa e nulla. Ho la testa piena di sentimenti a cui non so
attribuire né nome né causa né effetto. Era ciò che determinava la mia
malattia? Essere piena di ogni sorta di cose, tutte inutili a me, alla mia
vita, alla mia anima. Al mio cuore.
Mi
manca forse l’orgoglio di rinunciare a ciò che mi ha formata, per poter vedere
il futuro?
Mi
sento un oggetto valutato da tutti. Ho valore o no? Decidetevi a darmi una
risposta. Se fossimo tutti oggetti a cui attribuire un prezzo, allora che
significato avrebbe la vita? Come posso aprire la porta al mio futuro se non me
ne si da la possibilità? Non ho sogni né cose particolari a cui credere, non ho
nulla di certo su cui fermarmi a pensare.
Ci
sarà un luogo dove posso recarmi e far riposare il mio corpo stanco, forse. E
penso anche che quel luogo si stancherà di esistere prima che prenda velocità e
lo raggiunga.
Quante
volte mi sono trovata davanti ad un bivio, e quante volte ho dovuto scegliere
una via da seguire. Decisione dettata dal cuore? Tra la strada gioiosa e quella
facile, ho sempre percorso la seconda. Anche se non mi portava necessariamente
a sorridere.
Il
letto ultimamente emetteva dei cigolii quasi sinistri. Sarebbe ora di
cambiarlo, pensavo. Illusa, lo sai che non te lo cambierebbero mai.
Esattamente.
Da parecchio tempo avevo quella dimora, quell’unico angolo dove rifugiarmi
stanca, afflitta e annoiata. Del mondo, di tutti. Del mondo di tutti. Di mio,
nulla.
Il
sentir proclamare in continuazione le mie colpe, le colpe di una persona che
non riconoscevo, mi faceva diventare fiacca ogni volta, talmente tanto che la
voce mi mancava e le forze anche. Anche se in quel momento non avevo
stranamente ricevuto complimenti di sorta, ero semplicemente stufa di quel
luogo. Mi buttai su quel materasso talvolta duro, altre volte flaccido ed
inconsistente. Sembrava che il mio corpo giocasse con le sensazioni che mi
davano le cose che toccavo. In quel preciso momento il materasso era
invisibile, con lui le molle, le doghe, le lenzuola. Ero caduta per terra ed
avevo sbattuto la testa su di un pezzo di marmo freddo, che si scaldava
lentamente man mano che passava il tempo in cui riposavo, o tentavo tal inutile
sforzo.
Aveva
una storia quel letto. Ne aveva più di una, ma con ordine, dal principio vero e
proprio, ne ha sempre avuta una ed una soltanto. La crescita di un corpo che
cercava il riposo sin dai suoi primi vagiti, rincorrendo sogni belli che sono
arrivati ad altri. Egoisticamente parlando quel corpo esigeva tutti per sé, non
voleva lasciarne nemmeno uno in pasto a chi pretendeva il potere sul suo corpo
e la sua mente. Poi crebbe e crebbe ancora. Ora quel corpo tentava di trovare
un sonno deciso e prorompente. Era un corpo che si accontentava e che non
desiderava più.
Poi,
bè, ci sono le altre storie. Ma sono molto più noiose
ed ordinarie della principale. Romanzi di scrittori inesperti che narravano
aggrovigliamenti di lenzuola, cuscini che cadono a terra, mani che si
intrecciano e bocche che prendono avidamente aria nei loro polmoni dilatati.
Storie semplici nella narrazione e nella credenza. Forse l’unica cosa
complicata era il fatto di credere che fossi io una delle protagoniste delle
svariate storie.
Stavo
poco a poco prendendo la ferma decisione di buttare veramente tutto alle mie
spalle. Il mondo che mi aveva costruita, e con esso chi mi aveva costruita.
Tutto. Chiudendo i ricordi con una chiave arrugginita che girando produceva un
rumore stridulo, come a rammentare che è difficile serrare una porta che dà
alle tenebre.
Talvolta
desideravo essere luce per brillare nei miei momenti oscuri e illuminare le
notti insonni di chi entrava nel mio cuore e nel mio corpo.
Talvolta
desideravo diventare il male in persona, racchiusa in un portagioie. Un
prezioso cofanetto che scatena un potere nero a piacimento.
-
E’ pronta la cena. Alza il culo da lì e muoviti.-
Agli
ordini, padrona.
E
così dovetti alzare il mio culo da lì e portarlo dove mi venne ordinato. Luogo
in cui passavo solo una manciata di minuti al giorno. Sedersi a tavola in loro
compagnia per me era una sofferenza fisica oltre che spirituale. Star gomito a
gomito con esseri che non potevano né soffrirmi né tantomeno vedermi era un
dolore sotto il costato che non è spiegabile a parole. Forti fitte che mi
trapassavano da lato a lato ogni volta che dovevo sedermi su quella dannata sedia.
Avrei voluto vomitare quello che avevo nel cervello ogni qualvolta che aprivano
bocca per riferirmi aggettivi e surrogati che meritavo. Secondo loro.
Mi
sedetti, tranquillamente, guardando in basso, silenziosamente, ponendo il
tovagliolo sulle gambe, lentamente. La prassi era pressoché quella. Rendermi
invisibile ai loro occhi e alle loro orecchie. Solo così potevo in sperare un epiteto
in meno, ed una ferita sanguinante un po’ meno aperta.
Mi
venne buttato davanti al naso il piatto, a cui non potevo storcere il naso.
Guai a farlo. Quello per me era un convento di clausura, ed io ero la piccola
ignobile suora rinchiusa dietro le sbarre, non potevo uscire senza permesso e
potevo solo sognarmi un pasto che fosse ad un livello più elevato del solito che
mi spettava.
Mangiai
la foglia, e non solo in senso metaforico. E tacqui. Tacqui e tacqui ancora.
Non proferii una sola singola parola. Aspettai ansiosamente la fine di quella
sevizia e quindi raccolsi i piatti e le stoviglie, portandole dove le
aspettavano e recandomi poi alla mia camera.
Una
mano mi impedì il cammino, trattenendomi in modo amorevolmente distorto.
-
Ehi, dove sei stata oggi?-
Ehi,
questo è il mio nome per ora. Ehi. Non mi chiamo più Sara. Non esiste il mio
nome. Ehi. È anche più corto, sono solo tre lettere. È facile da pronunciare e
non da problemi ai linguaggi orientali. Ehi. L’anagrafe deve aver sbagliato
qualcosa perché sono cresciuta con questo nome, o almeno, da quando sono
diventata il cane di questi padroni.
-
Sono andata in giro.- dissi tranquillamente,
l’espressione incolore, i movimenti labiali lenti ma precisi.
-
Dove?- ancora chiese, tenendomi ferma il braccio, impugnandolo con avidità. Ehi
ha male. Ehi non vuole essere presa. Ehi…si chiama auto-ironia, vero?
- Sono andata in centro.-
risposi ancora pacatamente, senza cambiare una sola posizione dei muscoli del
mio viso.
-
Chi è quella ragazzina che era con te?-
-
Un’amica.-
Scoppiò
in una tremenda risata perforante. Mi sentii male, veramente, nel corpo e nella
testa. Assunsi una smorfia di vero dolore sulle mie labbra, e lo stesso feci
capire con la mano libera che poggiai sul petto. Scoppiavo. Volevo scoppiare.
Proprio come era scoppiata lei in quella rovente risata.
-
TU hai amiche?- chiese divertita, marcando il tono sulla prima parola. Si, io.
Lo so che può sembrare strano ma cara, è la realtà. Ho amiche. E amanti. E tu
non lo verrai mai a sapere. Per ora voglio lasciarti il dolce dubbio che io ne
abbia veramente, anzi, la certezza che io non abbia nessuno oltre a voi. Che io
non possa vivere al di fuori di queste quattro mura. Che io non possa mantenere
questo corpo trafitto e dolorante, stanco e morente, senza le vostre parole
soavi e le vostre pacche di incoraggiamento sulla schiena.
Sapete,
mi sto stancando
di questo posto.
Le
parole soavi sono coltelli acuminati che nascondete dietro la schiena ogni
volta che volete essere gentili con me.
Le
pacche che mi date bruciano la mia pelle, marchiandola a fuoco.
Sono
un animale. Il vostro animale.
Ancora
per poco.