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Autore: Sabu_chan    01/09/2012    0 recensioni
La seguente storia è già stata pubblicata in precedenza su EFP. Era stata cancellata per motivazioni interessanti, che si sono rivelate nulle. Rieccola. Apprezzatela, ne ha bisogno.
Sara ha per sè poche parole, troppi pensieri. Per gli altri, invece, ha molti fatti.
Chiara ha per tutti, compresa se stessa, infinite parole e possibilità. Ma ha paura di determinati fatti.
Se esistesse un ponte tra loro due, Sara lo desidererebbe solido ma lo bombarda per prima.
Chiara non vede alcun ponte, perchè dovrebbe essercene uno?
Questa è la storia di quel male attuale ma dal sapore atavico.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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I vecchi ricordi, che erano scivolati via silenziosamente nel fiume del tempo, iniziavano a farmi male. Li misi a tacere, nascondendoli al mio cuore tremante e sforzandomi di sorridere. Lo immaginavo come un agglomerato scomposto, formato da sentimenti di convenienza, intaccato dalla ruggine, da ferite cicatrizzate male che talvolta sanguinavano ancora, lambite da venti tempestosi e dall’orgoglio che mi invadeva. Non era liscio e bianco come la candida porcellana, ma grigio e bruciato come la cenere delle sigarette che fumavo mal volentieri. Ardente di passione, innocente e perso nell’incertezza. Paura di far del male amando, e paura di essere amato. Paura di provocare dolore e riceverne. Perché conosceva bene il significato di essere preso a schiaffi.

Piano piano realizzavo che il mio passato non mi aveva mai aiutata a guarire la malattia che perseguitava insistentemente il mio essere. Non aveva senso avere paura di un futuro a cui non potevo sfuggire. Il mio era un cancro incancellabile. Dolore.




- Mi spiace per essermi comportata in quel modo l’altro giorno, per questo ti chiedo scusa e sono qui anche perché vorrei rimediare alle mie parole.-

- Altro da dichiarare?-

- Nient'altro, direi.-

- Bene! Allora…un frullato alla fragola ed un bicchiere d’acqua. E’ tutto, grazie!-

Il cameriere rimase un attimo interdetto, lo sguardo perplesso, ma prese ugualmente il menù dalle mani di Chiara e segnò l’ordinazione sul blocchetto di fogli rigati. Si girò su se stesso, borbottando misteri e segreti, e dirigendosi verso il bancone principale.

Il locale era piccolo e carino, come qualcosa di prezioso. I tavoli neri e le sedie bianche, non una sporca, né rovinata in alcun modo. Anche i quadri appesi ad ogni parete ritraevano scenari incolori o combinazioni di immagini visionarie. Quella perdita di colore e vivacità era in perfetta sintonia con le persone che abitavano quel luogo ogni giorno o quasi. Ragazzi e ragazze che parlavano di politiche e padroni del mondo, vecchie signore che si lamentavano della società moderna e le guerre giuste o circa, distinti signori che leggevano notizie dal mondo della disperazione. Era decisamente un clima pacifico e potevo finalmente riporre l’accendino nel cassetto.

- Senti, senti…- mi richiamò alla realtà, sventolando la sua mano davanti agli occhi, persi poco prima nella contemplazione del suo decolleté. E dire che pensavo avesse capito i miei gusti ma evidentemente mi sbagliavo. Ringrazio la natura per avermi fatta nascere donna.

- Come ti dicevo, ho portato degli schizzi che ho fatto di recente. Li ho messi in questa cartellina.- me la porse, sfilandola dalla borsa. Le mie dita sfiorarono le sue se non per pochi secondi, nell’attimo di transizione. La sua pelle era ruvida, ma non potevo esserne del tutto certa avendola toccata per così poco tempo.

Aprii la cartellina e sfogliai uno ad uno i fogli in esso contenuta: paesaggi di montagna a carboncino, ritratti di persone e abbozzi di nature morte. Tracce lievi e sottili che parevano volersi dissolvere nel nulla. Le idee erano semplici, forse copiate da qualche parte. Che importava? Alle prime armi ci si aggiusta come si può, e ricordavo volentieri l'improvvisazione di una ragazza che aveva usato del bianchetto per creare la schiuma delle onde.

Poggiò le mani sotto il mento ed i gomiti sulla tavola, attendendo probabilmente un mio giudizio, completo o meno. Se era davvero quello che si aspettava, osservandomi esaminare i suoi disegni, , aveva proprio capito male. Non intendevo dare alcun giudizio sul suo tratto personale. L’anima del disegnatore è concentrata nel matita che ne traccia le linee, non di certo nei giudizi di un terzo che non deve mettere il naso nella relazione tra i due.

- Studi illustrazione?- le chiesi semplicemente, senza staccare gli occhi dai fogli. Dire che la domanda l’ha lasciata un po’ stupita e delusa era abbastanza per descrivere il suo sguardo. Era una domanda così strana e di difficile risposta?

- Veramente no…sono appena al secondo anno di scienze e tecnologie chimiche.- fu la sua risposta frettolosa, non rivolgendomi lo sguardo come stavo facendo io nei suoi confronti, solo che a differenza mia cercava di guardare altrove, sempre più distante con gli occhi e la mente.

- Però. Complimenti nonostante questo. Hai un buon tratto, un po’ pesante in alcuni punti, ma volendo puoi rimediare, se vorrai naturalmente.- un attimo di pausa, sperando di catturare la sua attenzione – Avrei dovuto capirlo.-

- Cosa?- si voltò finalmente, regalandomi tutta la sua attenzione. I suoi occhioni spalancati erano pieni di curiosità, quasi devozione, o forse semplice interesse. Azzurri, pastello, mare, acqua della barriera corallina. Senza accorgersene congiunse le mani alle mie, che le avevano catturate silenziosamente come solo un abile predatore sa fare.

- Sono ruvide. Non era solo un’impressione.- le strinsi alle mie, osservando ancora i suoi occhi.- Si può sentire e capire che ti dai alla sperimentazione.-

Non vuoi sperimentare con me?

Le sue labbra semiaperte cercavano insistentemente di formulare delle parole con significato, ma le corde vocali si rifiutavano di vibrare. I miei occhi parlavano senza bisogno di emettere suoni e mescolando lentamente i colori per creare il rossore delle sue guance, le sue pupille attingevano immagini dalle mie come se nulla fosse. Visioni esplicite.

No.

Non volevo.

Non dovevo.

Allora perché lo facevo, ancora, morbosamente?

Certo che poteva aiutarmi, in qualche modo, iniziando a ritrarsi.

Egoista.

Lo so, grazie. Non ricordarmelo. Non ricordarmi cosa sono. Conosco me stessa, non voglio farmi rimproverare proprio da lei. Da me. Da tutti. Da coloro che puntano il dito e, con la semplicità estrema di bere dell’acqua, formulano parole che scalfiscono ancora e ancora, senza fermarsi. Non ne ho bisogno. Vi ringrazio di esservi preoccuparti per cos’è giusto e per cosa è sbagliato, per me. Ma credo sia meglio iniziare a preoccuparsi ognuno per se stessi. Io a cominciare da Me.

- Direi…che sono abbastanza brava…- farfugliò lentamente senza staccare né sguardo né mani.

Perchè non mi mostri la tua bravura?

- …smettila, per favore…-

- Non ti sto facendo nulla.- dissi pacatamente, assottigliando gli occhi e prendendo ad accarezzarle il dorso delle mani. Era confusa, forse. Era imbarazzata, anche. Direi che non si era mai trovata prima ad essere corteggiata da un’altra ragazza. O forse non era mai stata corteggiata. Sembrava così pura e semplice, nonostante il carattere sbarazzino e decisamente estroverso. Le impressioni che mi dava erano essenzialmente due: la prima, che aveva alcune esperienze alle spalle; la seconda, che era stata fregata. Puntavo tutto sulla seconda, che mi pareva la più lampante. Presi la personale decisione di volerla coccolare come si doveva.

- Non mi stai facendo nulla, è vero,- disse ad un tratto, spostando i miei pensieri- …ma mi spiace dirti che non capisco perché stai… ammettilo, ci stai provando con me.-

- Hai un ragazzo?-

- Cosa?-

- Ho chiesto se hai un ragazzo.-

- No…-

- L’hai mai avuto?-

- Ma che stai dicendo-

- L’hai mai avuto?-

- …mai…-

Le lasciai le mani, portandomele sotto il mento, assumendo la posizione che aveva lei poco prima. Non le ritirò, sembrava aspettare una prossima mossa.

- Allora si, ci sto provando con te.-

Il rossore la colse improvvisamente e non fece nulla per nasconderlo. Nello stesso momento arrivò il cameriere, oserei dire finalmente, e posò l’ordinazione sul tavolino, piegando in due lo scontrino e ponendolo sotto il tazzone del frappè alla fragola, che ricordava tanto il colore di Chiara in quel momento. Si allontanò e quasi ci avventammo sulle bibite appena portate. Pareva che non bevessimo da tantissimo tempo, tanta era la foga. O era solo la gola secca dalla sorpresa che aveva suscitato in lei la voglia matta di bere?

Girai il cucchiaio nel mio bicchiere, lentamente, osservandola ancora. Sorrisi del suo imbarazzo e nello stesso tempo mi spiaceva averglielo causato. Tolsi il cucchiaio bagnato e lo poggiai al fianco del piattino bianco con il contorno nero. Bevvi, e infine posai con calma il bicchiere vuoto sullo stesso piatto.

- Mi spiace, sono fatta così. Non volevo spaventarti. Forse per te tutto ciò è nuovo.-

- E’ decisamente nuovo…- mugolò, osservando con minuzia il tovagliolino di carta davanti a lei. Lo presi e lo spostai in alto. Lei seguì perfettamente il percorso, così da guardarmi in faccia ancora una volta.

- Ti andrebbe di uscire con me qualche volta?-

-…perché no?-

Strano, mi dissi internamente. Che voglia provare nuove formule o concetti chimici? O forse avevo scatenato in lei una certa emozione e voleva porre fine alla dolce tortura? Queste cose le conoscevo bene, ahimè oserei dire.

Non c’è nulla di più pericoloso di una pozione d’amore.



Poi torno in quel luogo e ricomincio a pensare. Al passato. Al presente. Mai al futuro. Sento che se voglio posso dimenticare le cose legate a ieri, se ho abbastanza forza di volontà posso liberarmi delle cose inutili e mantenere per me ciò che è realmente necessario e significativo. Tutto il resto è principalmente una decorazione. Una maschera, forse. Mi preoccupo di tutto e niente. Mi faccio carico di ogni cosa e nulla. Ho la testa piena di sentimenti a cui non so attribuire né nome né causa né effetto. Era ciò che determinava la mia malattia? Essere piena di ogni sorta di cose, tutte inutili a me, alla mia vita, alla mia anima. Al mio cuore.

Mi manca forse l’orgoglio di rinunciare a ciò che mi ha formata, per poter vedere il futuro?

Mi sento un oggetto valutato da tutti. Ho valore o no? Decidetevi a darmi una risposta. Se fossimo tutti oggetti a cui attribuire un prezzo, allora che significato avrebbe la vita? Come posso aprire la porta al mio futuro se non me ne si da la possibilità? Non ho sogni né cose particolari a cui credere, non ho nulla di certo su cui fermarmi a pensare.

Ci sarà un luogo dove posso recarmi e far riposare il mio corpo stanco, forse. E penso anche che quel luogo si stancherà di esistere prima che prenda velocità e lo raggiunga.

Quante volte mi sono trovata davanti ad un bivio, e quante volte ho dovuto scegliere una via da seguire. Decisione dettata dal cuore? Tra la strada gioiosa e quella facile, ho sempre percorso la seconda. Anche se non mi portava necessariamente a sorridere.

 

Il letto ultimamente emetteva dei cigolii quasi sinistri. Sarebbe ora di cambiarlo, pensavo. Illusa, lo sai che non te lo cambierebbero mai.

Esattamente. Da parecchio tempo avevo quella dimora, quell’unico angolo dove rifugiarmi stanca, afflitta e annoiata. Del mondo, di tutti. Del mondo di tutti. Di mio, nulla.

Il sentir proclamare in continuazione le mie colpe, le colpe di una persona che non riconoscevo, mi faceva diventare fiacca ogni volta, talmente tanto che la voce mi mancava e le forze anche. Anche se in quel momento non avevo stranamente ricevuto complimenti di sorta, ero semplicemente stufa di quel luogo. Mi buttai su quel materasso talvolta duro, altre volte flaccido ed inconsistente. Sembrava che il mio corpo giocasse con le sensazioni che mi davano le cose che toccavo. In quel preciso momento il materasso era invisibile, con lui le molle, le doghe, le lenzuola. Ero caduta per terra ed avevo sbattuto la testa su di un pezzo di marmo freddo, che si scaldava lentamente man mano che passava il tempo in cui riposavo, o tentavo tal inutile sforzo.

Aveva una storia quel letto. Ne aveva più di una, ma con ordine, dal principio vero e proprio, ne ha sempre avuta una ed una soltanto. La crescita di un corpo che cercava il riposo sin dai suoi primi vagiti, rincorrendo sogni belli che sono arrivati ad altri. Egoisticamente parlando quel corpo esigeva tutti per sé, non voleva lasciarne nemmeno uno in pasto a chi pretendeva il potere sul suo corpo e la sua mente. Poi crebbe e crebbe ancora. Ora quel corpo tentava di trovare un sonno deciso e prorompente. Era un corpo che si accontentava e che non desiderava più.

Poi, , ci sono le altre storie. Ma sono molto più noiose ed ordinarie della principale. Romanzi di scrittori inesperti che narravano aggrovigliamenti di lenzuola, cuscini che cadono a terra, mani che si intrecciano e bocche che prendono avidamente aria nei loro polmoni dilatati. Storie semplici nella narrazione e nella credenza. Forse l’unica cosa complicata era il fatto di credere che fossi io una delle protagoniste delle svariate storie.

Stavo poco a poco prendendo la ferma decisione di buttare veramente tutto alle mie spalle. Il mondo che mi aveva costruita, e con esso chi mi aveva costruita. Tutto. Chiudendo i ricordi con una chiave arrugginita che girando produceva un rumore stridulo, come a rammentare che è difficile serrare una porta che dà alle tenebre.

Talvolta desideravo essere luce per brillare nei miei momenti oscuri e illuminare le notti insonni di chi entrava nel mio cuore e nel mio corpo.

Talvolta desideravo diventare il male in persona, racchiusa in un portagioie. Un prezioso cofanetto che scatena un potere nero a piacimento.



- E’ pronta la cena. Alza il culo da lì e muoviti.-

Agli ordini, padrona.

E così dovetti alzare il mio culo da lì e portarlo dove mi venne ordinato. Luogo in cui passavo solo una manciata di minuti al giorno. Sedersi a tavola in loro compagnia per me era una sofferenza fisica oltre che spirituale. Star gomito a gomito con esseri che non potevano né soffrirmi né tantomeno vedermi era un dolore sotto il costato che non è spiegabile a parole. Forti fitte che mi trapassavano da lato a lato ogni volta che dovevo sedermi su quella dannata sedia. Avrei voluto vomitare quello che avevo nel cervello ogni qualvolta che aprivano bocca per riferirmi aggettivi e surrogati che meritavo. Secondo loro.

Mi sedetti, tranquillamente, guardando in basso, silenziosamente, ponendo il tovagliolo sulle gambe, lentamente. La prassi era pressoché quella. Rendermi invisibile ai loro occhi e alle loro orecchie. Solo così potevo in sperare un epiteto in meno, ed una ferita sanguinante un po’ meno aperta.

Mi venne buttato davanti al naso il piatto, a cui non potevo storcere il naso. Guai a farlo. Quello per me era un convento di clausura, ed io ero la piccola ignobile suora rinchiusa dietro le sbarre, non potevo uscire senza permesso e potevo solo sognarmi un pasto che fosse ad un livello più elevato del solito che mi spettava.

Mangiai la foglia, e non solo in senso metaforico. E tacqui. Tacqui e tacqui ancora. Non proferii una sola singola parola. Aspettai ansiosamente la fine di quella sevizia e quindi raccolsi i piatti e le stoviglie, portandole dove le aspettavano e recandomi poi alla mia camera.

Una mano mi impedì il cammino, trattenendomi in modo amorevolmente distorto.

- Ehi, dove sei stata oggi?-

Ehi, questo è il mio nome per ora. Ehi. Non mi chiamo più Sara. Non esiste il mio nome. Ehi. È anche più corto, sono solo tre lettere. È facile da pronunciare e non da problemi ai linguaggi orientali. Ehi. L’anagrafe deve aver sbagliato qualcosa perché sono cresciuta con questo nome, o almeno, da quando sono diventata il cane di questi padroni.

- Sono andata in giro.- dissi tranquillamente, l’espressione incolore, i movimenti labiali lenti ma precisi.

- Dove?- ancora chiese, tenendomi ferma il braccio, impugnandolo con avidità. Ehi ha male. Ehi non vuole essere presa. Ehi…si chiama auto-ironia, vero?

- Sono andata in centro.- risposi ancora pacatamente, senza cambiare una sola posizione dei muscoli del mio viso.

- Chi è quella ragazzina che era con te?-

- Un’amica.-

Scoppiò in una tremenda risata perforante. Mi sentii male, veramente, nel corpo e nella testa. Assunsi una smorfia di vero dolore sulle mie labbra, e lo stesso feci capire con la mano libera che poggiai sul petto. Scoppiavo. Volevo scoppiare. Proprio come era scoppiata lei in quella rovente risata.

- TU hai amiche?- chiese divertita, marcando il tono sulla prima parola. Si, io. Lo so che può sembrare strano ma cara, è la realtà. Ho amiche. E amanti. E tu non lo verrai mai a sapere. Per ora voglio lasciarti il dolce dubbio che io ne abbia veramente, anzi, la certezza che io non abbia nessuno oltre a voi. Che io non possa vivere al di fuori di queste quattro mura. Che io non possa mantenere questo corpo trafitto e dolorante, stanco e morente, senza le vostre parole soavi e le vostre pacche di incoraggiamento sulla schiena.

Sapete, mi sto stancando di questo posto.

Le parole soavi sono coltelli acuminati che nascondete dietro la schiena ogni volta che volete essere gentili con me.

Le pacche che mi date bruciano la mia pelle, marchiandola a fuoco.

Sono un animale. Il vostro animale.

Ancora per poco.

 

   
 
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