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Autore: PapySanzo89    01/09/2012    7 recensioni
Qualcuno era mai morto piangendo?
La risposta era no. Semplicemente perché lo aveva provato sulla sua pelle. Quando iniziava a mancargli l’aria, la vista iniziava a diventare appannata e finiva semplicemente per svenire o per ritrovarsi a fare respiri brevi e corti, che poi diventavano sempre più profondi e lunghi, finché non si ritrovava accucciato sul divano in posizione fetale, stanco come avesse fatto il giro del mondo correndo. Così si addormentava.
Nemmeno questa volta era riuscito a morire.
Post-reichenbach, Sherlock vuole tornare a casa sua in Baker Street, mentre John sta tentando di andare avanti in qualche modo.
Genere: Fluff, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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«John.»
Di nuovo. Lo aveva sentito di nuovo. Non era possibile, stava sicuramente impazzendo. Aveva visto un uomo dal cappotto nero davanti casa sua e le ginocchia per poco non gli erano cedute. Lo aveva fissato qualche secondo e, Dio, era uguale. Aveva distolto lo sguardo prima di fare qualche cazzata, tipo correre da uno sconosciuto e scoppiargli a piangere addosso in mezzo a una strada, davanti a degli sconosciuti e a Mary. Aveva accuratamente evitato di riguardarlo mentre gli passava vicino. E poi lo aveva sentito: John. Solo il suo nome, con voce sottile e lì aveva creduto di impazzire, aveva perso il senso del discorso intrapreso con Mary e aveva fatto ancora qualche passo incerto verso la porta senza capire niente. Ma non si era voltato.
«John». Ancora una volta, pronunciato come una supplica, un ultimo tentativo disperato. Quella voce; bassa, calda, quasi baritonale che molte volte sognava la notte o immaginava a occhi aperti. Quante volte aveva pensato di sentirla veramente? Eppure non l'aveva mai udita così vera, era convinto di ricordarla in modo perfetto e invece sembrava sbagliarsi.
Il fatto che non potesse essere lui lo stava uccidendo; Dio, Dio, stava diventando pazzo.
«John, c'e' un uomo che ti sta chiamando.» La voce di Mary tentò di riscuoterlo, senza successo. Allora lo scosse anche per un braccio.
Doveva sembrare una situazione ridicola: lui fermo in mezzo al marciapiede, il fiato quasi corto,  a riflettere in maniera lenta -o forse era veloce?- con una mano di Mary sul braccio. Questo però voleva dire che anche lei stava sentendo quella voce chiamarlo, che quell'uomo tanto simile a lui lo stava cercando.
Si voltò con calma, togliendosi il braccio di Mary da dosso, non riuscendo a sollevare subito lo sguardo. Partì dalle scarpe; nere, taglio classico, i lacci un poco rovinati, ancora umide dalla pioggia di ore prima. I pantaloni; anch’essi neri, stropicciati e bagnati che segnavano gambe lunghe e snelle. Una camicia rosso scuro, semi asciutta, riparata alla bell’e meglio dal cappotto, quel cappotto; lungo, grigio scuro, ancora gocciolante. Le mani affusolate vagamente tremanti con un colore di pelle di qualche tonalità più scura rispetto al bianco latte che si ricordava. Arrivato al collo i battiti si fecero più forti: il mento, le labbra piene, il naso, i capelli vagamente più lunghi, appiccicati dall'acqua ai contorni spigolosi del viso e gli occhi... L’eco del suo cuore gli fece pensare di star per raggiungere l'infarto istantaneo. I suoi occhi, azzurri-verdi che lo fissavano con un misto di tristezza e aspettativa.
«John...» Ancora una volta e sempre il suo nome. Sembrava non riuscisse a dire altro.
«Mary, ti prego. Potresti andare a casa?»
La donna si voltò verso John, il quale non spostava gli occhi da quelli dell'uomo a pochi metri da lui. Non capiva la situazione, John lo sapeva, ma fece un piccolo cenno d'assenso, poggiò una mano sul suo braccio per poi stringerlo vagamente, in segno di saluto. Sorrise, ma non lo baciò, non ci provò nemmeno. Si avvicinò a Sherlock, a cui fece un cenno, e lo sorpassò tornando verso la macchina.
Le persone passavano lente, chi scansandoli, chi dando qualche piccolo colpetto involontariamente.
«She...» John tossì; gli risultava difficile, era lì, era veramente lì. «Sher... Sherlock...» Fece un passo in avanti nello stesso momento in cui lo fece anche l'altro. Alla fine corse per quei pochi metri e lo abbracciò di slancio, il cappotto umido lo bagnò senza che se ne accorgesse e strinse l’uomo maggiormente a sé. Sherlock gli mise le braccia attorno alle spalle poggiandogli la testa sulla tempia, abbracciandolo ancora più forte.
«Andiamo...» John si schiarì la voce. «Andiamo dentro, sei zuppo e devi cambiarti. Ma soprattutto mi devi delle spiegazioni, tu...» Ma non riuscì a continuare la frase. Una sensazione diversa si fece spazio dentro di lui, oltre al sollievo e alla gioia, ed era rabbia, rabbia mista a delusione. Dov'era stato in quegli ultimi tre anni? Perché non lo aveva avvisato? Prese per mano il detective e gli fece strada verso l’appartamento.
 
 
 
                                                                                                                    *         *         *
 
Sherlock non si sorprese più di tanto delle condizioni dell’appartamento, in realtà se lo immaginava esattamente così, totalmente anonimo ma pulito.
Guardò John poggiare le chiavi sopra il piccolo tavolo e fargli un cenno verso il divano, invitandolo a sedersi, mentre entrava nel cucinino per preparare un po’ di the.
Si tolse il cappotto e stava per sedersi, quando il dottore parlò di nuovo.
«Se hai bisogno di usare la doccia, accomodati.»
Francamente l’idea di usare la stessa doccia di John gli fece correre un brivido lungo la schiena che non riuscì bene a identificare ma accettò lo stesso, sentendosi infreddolito.
«Lascia i vestiti fuori che li metto ad asciugare.»
John non si voltava mentre prendeva il bollitore, mettendolo poi sul fuoco. Sherlock non sapeva cosa fare, come comportarsi. Doveva abbracciarlo di nuovo? Da parte sua non avrebbe voluto altro.
Si avvicinò e gli sfiorò la spalle ma John scansò il suo tocco, facendo sembrare quel gesto un movimento involontario, tornando poi a fissarlo.
«Sei di nuovo qui. Sul serio». Era evidente che non ci credesse ancora, lo fu soprattutto quando alzò la mano verso il suo viso e gli sfiorò una guancia. Caldo. Finalmente sentiva un po’ di calore.
«Vai, prima di prenderti qualcosa. Dovrei avere un accappatoio abbastanza lungo da qualche parte», sorrise. «O preferisci un lenzuolo?»
Le labbra gli si stirarono in un sorriso, uno di quelli veri che solo John riusciva a fargli fare. «L’accappatoio andrà benissimo.»
John lo precedette e gli mostrò come usare la doccia –decisamente difettosa- e gli porse gli asciugamani, mostrandogli poi dove avrebbe potuto trovare il phon. Aspettò che gli porgesse i vestiti già piegati e se ne andò, lasciandolo solo nel piccolo bagno.
Sherlock si guardò attorno, notando anche lì l’aria totalmente anonima del bagno. Quel posto poteva essere di chiunque. Entrò nella doccia e aprì l’acqua lasciandosi investire dal fiotto caldo.
 
Sentì il rumore delle porte della doccia chiudersi e poi il suono dell’acqua. Si appoggiò al lavello iniziando a respirare sempre più veloce; stava per avere uno dei suoi soliti attacchi di panico, ma questa volta per un motivo totalmente diverso.
Non riusciva a crederci. Sherlock era di là, nel suo bagno… vivo.
Mille e più domande presero vita nella sua testa.
“Come ha fatto a sopravvivere?”
“Dov’è stato?”
“Cos’ha fatto?”
“Perché non me l’ha detto?”
“Qualcun altro lo sa?”
“E’ tornato per restare?”
“Cosa devo fare?”
E più ci pensava, più delle implicazioni negative si facevano strada dentro di lui.
“Non me lo voleva dire perché non si fidava.”
“Non avrebbe mai potuto farcela da solo, quindi qualcuno lo sapeva, qualcuno che non ero io.”
“Si sarà cacciato in qualche guaio mentre io non c’ero, non lo sapevo.”
“Sarebbe potuto morire sul serio, e io non lo avrei saputo.”
“Ionon sapevo niente.”
Sbatté un pugno sul lavello e sentì la rabbia montargli dentro, la felicità di poco prima si era quasi dissolta.
Il bollitore fischiò, riportandolo alla realtà. Lo spense e lo lasciò lì; le mani tremanti e il fiato sempre più corto, tentando di deglutire invano.
Avrebbe dato una possibilità a Sherlock di spiegarsi e poi avrebbe pensato a cosa fare.
Un bip gli fece mettere le mani nella tasca posteriore tirando fuori il cellulare.
Tutto bene?”
Rimise il telefono in tasca, non le avrebbe risposto, non ora. Forse dopo, sì, forse.
Altre domande.
Cosa fare con Mary?
Sarebbe tornato a stare al 221B con Sherlock?
E i suoi piani sul sposarsi?
Quasi rise dall’isterismo all’ultima questione. Sapeva perfettamente che non si sarebbe mai sposato ora che lui era tornato. Mai.
 
Si asciugò i capelli con un asciugamano (troppo spreco di tempo usare il phon) e uscì in accappatoio, del resto non si era mai fatto problemi riguardanti il senso del pudore e John lo aveva visto praticamente in ogni situazione.
Lo stava aspettando sul divano con le tazze di the fumanti poggiate sul tavolino, non lo guardava. Cattivo segno.
Si sedette vicino di lui, sfiorandogli con il gomito il braccio, quel divanetto era veramente troppo piccolo.
Siccome John non si decideva ad aprir bocca, si guardò un attimo intorno, affamato di sapere qualcosa di nuovo sull’altro che magari spontaneamente non gli avrebbe detto e, purtroppo, l’unica cosa che notò fu il bastone nascosto dietro il divano.
«Lo usi di nuovo?»
Vide John sorridere e toccarsi il retro del collo massaggiandolo piano. Aveva capito subito a cosa si riferisse.
«Solamente quando non c’è nessuno a potermi vedere.»
Ancora non lo guardava, ma fissava placidamente le tazze da the.
Sherlock si sentì stringere lo stomaco.
«Chiedimi tutto quello che vuoi». La voce gli uscì strozzata ma poco gli importava.
Il dottore sospirò, era evidente che non sapeva da dove iniziare.
«Perché… perché non mi racconti tutto dall’inizio e la facciamo finita?»
Si voltò finalmente a guardarlo, gli occhi tristi, le labbra incurvate verso il basso, le sopracciglia contratte. Aveva sicuramente fatto una deduzione errata nel tempo che era stato in bagno.
Prese fiato e gli raccontò tutto.
Gli raccontò di Molly e del suo aiuto, della finta caduta, del fatto che lo aveva chiamato perché voleva sentirlo e dargli un piccolo indizio per fargli capire che quel suicidio non era vero ma che era solo un trucco –che John non aveva colto, e come avrebbe potuto?!-, del perché lo avesse fatto,  di Moran e degli altri cecchini che tenevano sotto controllo lui, Lestrade e la signora Hudson, di dov’era andato per cercare di eliminare ogni persona che avesse avuto a che fare con Moriarty, di essere stato ferito –“ma niente di grave, John! Sul serio”-. Inoltre gli raccontò di dover esser tornato a Londra (omettendo il perché) e di essere rimasto lì negli ultimi mesi, di averlo tenuto d’occhio perché voleva vedere come stesse, e che Mycroft non gli dava pace su niente, come al solito.
 
Mycroft. Ecco perché lo aveva chiamato quella mattina e gli aveva detto di rimanere in casa e, possibilmente, seduto. Beh, sul fatto che gli sarebbero cedute le ginocchia, ci aveva azzeccato. E quando mai non capitava?
Rimase in silenzio a guardare Sherlock che, dopo aver parlato a macchinetta -Dio, quanto gli mancava!- lo fissava senza aprire bocca. Stava aspettando una sua reazione, probabilmente.
John fissò Sherlock negli occhi rimanendo lì, senza dire o fare niente, semplicemente riflettendo.
Provò a capire cosa stesse provando ma fallì miseramente. Era troppo, semplicemente troppo in quel momento.
«Il 221B è sempre libero.» rispose infine, senza sapere che altro aggiungere.
Sherlock sorrise raggiante.
 
                                                                                                                               *         *         *
 
Passarono diversi giorni prima che potessero trasferirsi. Innanzitutto, qualcuno doveva stare vicino alla signora Hudson nel caso fosse svenuta o le fosse venuto un infarto alla notizia del ritorno di Sherlock, quindi lui come medico doveva far di tutto per dirle la cosa con calma. Peccato che Sherlock si fosse messo in mezzo.
«Signora Hudson, sono a casa.»
L’infarto stava per avercelo lui (dannato Sherlock, come poteva comportarsi così?), altro che la padrona di casa che la prese incredibilmente bene. Anzi, a parte l’isteria del primo momento e un piccolo pianto, iniziò subito ad accusarlo di averla fatta soffrire (assieme a John), di non aver pulito casa prima di andare a fingere di buttarsi da un tetto e di aver fatto spendere soldi a suo fratello per una finta lapide.
 
Sherlock prese con filosofia le sue parole e la abbracciò, quietando la sua rabbia e le sue lacrime, facendole poi un sincero sorriso.
«Le sono mancato così tanto?»
«Oh, non essere sciocco Sherlock!» lo abbracciò nuovamente e andò ad aprire la porta della cantina dove aveva riposto, con l’aiuto di John, tutto l’armamentario del detective.
Dovettero aspettare un po’ per informare la stampa e Scotland Yard. Francamente, John non voleva avvisare nessuno; si sarebbero ritrovati la casa invasa da giornalisti, da persone che volevano incontrare Sherlock, e non era quello che gli serviva -egoisticamente parlando- al momento. Il suo amico parve accorgersene siccome fu proprio lui a proporre di aspettare ancora un po’.
Vide Mary poco o niente in quei giorni, si scusò per telefono dicendole che, a breve, le avrebbe spiegato tutto. Certo che cosa c’era da spiegare o, più che altro, come doveva spiegare il tutto? “Sai, il mio migliore amico è vivo, quindi… beh, ciao.” Non era una grande idea. No di certo!
 
                                                                                                    
                                                                                                                                *         *         *
 
«Lui è che cosa?!»
La voce di Greg gli perforò un timpano e dovette allontanare il cellulare dall’orecchio per massaggiarselo.
«Greg, stai calmo, ti sto dicendo che…»
«LUI E’ CHE COSA?!»
«Cazzo, Greg! Ma che tonalità di voce hai? Mi stai massacrando un timpano!» rimase col telefono lontano dall’orecchio per sentire (se ancora fosse stato in grado di sentire, dopo quelle urla isteriche) in caso l’altro avesse avuto ancora qualche cosa da aggiungere, magari in toni anche più accesi dei precedenti. Niente. Riavvicinò con calma l’apparecchio a sé.
«Ci sei?»
«Sì.»
John sospirò. «Senti, Greg, che ne dici se ci vediamo tutti assieme?», di sicuro non avrebbe lasciato Sherlock nelle mani dell’ispettore; le mani strette attorno al collo, ovviamente.
«Passerò questa sera.»
John storse la bocca. Era strano sentirlo rispondere in tono monocorde e senza fare qualche battuta, ma poteva capire la situazione. Poteva capirla benissimo.
«Allora ci vediamo dopo, Greg.»
Si sentì chiudere la chiamata in faccia senza un cenno di saluto. Posò il telefono sul tavolo della cucina, sul quale si poggiò poi con le mani.
«Che ti ha detto?»
Si voltò verso la voce che aveva appena parlato. Sherlock era appoggiato allo stipite della porta del corridoio, in pigiama, con le braccia incrociate, che lo guardava curioso. Non ci aveva ancora fatto l’abitudine e si stava seriamente chiedendo se mai ci sarebbe riuscito. Era passata quasi una settimana da quando avevano iniziato la convivenza, eppure aveva ancora paura di svegliarsi nella notte e scoprire che era nel vecchio appartamento qualche strada più in là.
«Viene qui questa sera», gli sorrise buttando fuori aria dalle narici, mostrando la sua esasperazione.
«Vedrai che gli passerà.»
Già, com’è passata a me.
Scosse la testa a quel pensiero e si allontanò, avvertendo una punta di amarezza.
«Dove vai?» si sentì chiedere in tono allarmato.
Non si voltò per rispondere. «Ho un appuntamento con Mary. Dobbiamo parlare.»
Non ricevendo una risposta, uscì dalla porta e salì le scale per andare in camera sua.
 
Sherlock si staccò dallo stipite e avanzò qualche passo verso l’uscio, rimanendo fermo a guardare le scale che portavano alla camera del coinquilino. Un rumore, proveniente dal piano superiore, gli fece capire che John stava sbattendo le porte dell’armadio –probabilmente non trovando niente di adatto da indossare- e lui si ritrovò indeciso sul salire oppure rimanere lì dov’era.
“Ho un appuntamento con Mary…”
Decise per l’ultima opzione e non si mosse.
Mary. L’aveva intravista solo il giorno in cui era tornato e dopo mai più, credeva che le cose fossero già chiare da un pezzo ma doveva immaginarsi che non era tutto così semplice. Infine, c’erano i sentimenti di mezzo.
Si ritrovò ad arrabbiarsi senza motivo. O, perlomeno, fingeva che non ce ne fosse uno.
Tutte le altre donne erano andate via com’erano venute, in un batter d’occhio. Bastava qualche giorno per liberarsi di loro, per farle dimenticare a John, almeno fino alla fiamma successiva.
Ma Mary era diversa, evidentemente, ma quello che gli dava più sui nervi era che John era diverso con lui. Sapeva di non poter pretendere di tornare e di ritrovare tutto esattamente come prima (anche se un pochino ci aveva sperato), ma quella situazione gli stava facendo più male del previsto.
John alle volte lo evitava, si estraniava, non gli rispondeva o, peggio, si allontanava quando lui tentava di avvicinarglisi. Capitava raramente ma, cosa ben più grave, John sembrava non rendersene conto; se lo avesse fatto apposta, almeno avrebbe potuto contare sul fatto che quella era una semplice ripicca e che, prima o poi, gli sarebbe passata, ma così…
Si allontanò dalla porta appena sentì i passi dell’altro sulle scale  e si andò a distendere sul divano con un giornale in mano.
Vide la testa di John fare capolino e alzò gli occhi verso di lui. Aveva uno dei suoi soliti orrendi (bellissimi) maglioni e dei normali jeans.
«Io vado. Ti ho lasciato nel microonde qualcosa. Mangia.»
Ordine del dottore: doveva fare come aveva detto. Si voltò su un fianco per guardare meglio John, appoggiando a terra il giornale.
«Quando torni?» chiese. Si annoiava terribilmente –soprattutto se John se ne andava- ma o stava lì o tornava da Mycroft (almeno finché non avesse avvisato la stampa del suo miracoloso ritorno). Piuttosto sarebbe rimasto là dentro, senza un caso, per tutto il resto della sua vita.
Il dottore si schiarì la voce e si massaggiò il collo.
«Non lo so. Questo davvero non lo so. Sarò qui prima dell’arrivo di Greg, almeno spero.» e sorrise all’ultima frase.
Sherlock si ritrovò a mugolare qualcosa di indistinto e si voltò dall’altra parte, dando la schiena al dottore.
«Okay.»
Anche se non fu in grado di vederlo, poté benissimo immaginare gli occhi di John sollevati verso il cielo e la sua aria contrita.
Lo sentì scendere le scale con passo sempre più mal fermo.
 
Mary lo stava aspettando all’entrata di un caffè; capelli al vento, sciarpa rosa, cappotto beige che le arrivava appena sotto il ginocchio, calze nere coprenti e scarpe dello stesso colore col tacco, borsetta abbinata. Era bellissima.
Gli rivolse un sorriso radioso che non fu in grado di non ricambiare, il cuore un po’ più caldo rispetto a prima.
Le si avvicinò e le baciò una guancia. Il sorriso di lei si spense un poco.
«Ciao, John.»
Alle volte le persone sociopatiche erano migliori delle empatiche, non sapevano dall’inizio dove volevi andare a parare.
 
Era stata la conversazione più difficile che avesse avuto in tutta la sua vita.
Si ritrovava seduto su una panchina a Hyde Park, a guardare la fontana e la statua dedicata a Lady Diana, mentre il resto delle persone gli passava accanto o dava da mangiare ai cigni e alle anatre del laghetto.
Mary se n’era andata da poco, lasciandolo lì da solo, mentre piangeva e gli imprecava contro con un tono della voce basso perché non voleva far fare brutte figure a John in mezzo alla gente. Pensava a lui anche dopo quello che le aveva fatto.
Erano entrati nel caffè e avevano iniziato a parlare del più e del meno: come mai lui fosse stato così impegnato, com’era possibile che il suo amico fosse tornato (e che soprattutto doveva essere una persona altamente bizzarra) e come si sentiva lui a riguardo.
E John aveva parlato. John le aveva rivelato tutto (o quasi). Le aveva detto che in realtà stava male, che non sapeva cosa fare, che alle volte provava la voglia di andarsene e lasciarlo lì da solo, che una parte di lui si stava in realtà lamentando.
Finita quella conversazione fu Mary a decidere di uscire e andare al parco, qualcosa nel suo sguardo era cambiato e non sembrava più serena come prima. Non si poteva di certo andare a casa sua, e nemmeno in quella di John.
Pagò lui e si avviarono lungo il marciapiede, stretti nei cappotti. Si voltò a osservarla; aveva lo sguardo serio puntato dritto davanti a sé, le sopracciglia contratte, si mordeva il labbro ogni tanto e gli stava a circa un metro di distanza.
Durante tutto il tragitto rimasero in silenzio, lui francamente non sapeva cosa dire e lei non sembrava in vena di battute; arrivati al parco si sedettero su una panchina, lei dritta nella postura mentre lui un po’ più ingobbito.
«Sappi che ho capito ma non voglio renderti le cose più facili. Quindi, dimmelo tu.» La voce spezzata e gli occhi che iniziavano a diventare lucidi, ma continuava a guardare dritto dinnanzi a sé.
«Io…» iniziò esitante. «Io non so cosa fare, a dire la verità.»
Doveva ammetterlo, per un attimo aveva pensato di lasciar perdere Sherlock, di mollare tutto e portare la sua roba a casa di Mary; la tristezza che le leggeva dentro non se la meritava, proprio lei, che lo aveva aiutato, soccorso, e che c’era sempre stata –sempre- per lui. Eppure…
«In realtà, credo che tu lo sappia ma abbia solo paura di ammetterlo.» un filo di voce, e le lacrime iniziarono a scendere.
John cercò in fretta un pacchetto di fazzoletti nelle tasche dei pantalonie si maledisse per non averne portati.
«Mary, ti prego, ti prego, non piangere», le poggiò una mano sul braccio e lei si scansò, iniziando a cercare qualcosa  nella borsetta, probabilmente i fazzolettini. Le scappò un piccolo singhiozzo che coprì con la mano.
I passanti lo fissavano male ma, al momento, non gliene poteva importare di meno. Le passò un braccio su e giù lungo la schiena e questa volta lei non si tolse.
Disse semplicemente la verità.
«Io voglio rimanere con lui ora che è tornato e non credo di poter avere una relazione –soprattutto duratura- con qualcuno. Sarei in apprensione ogni volta che è fuori, preoccupato da morire che gli possa succedere qualcosa e così finirei per non vederti nemmeno più.»
Lei abbassò lo sguardo e non disse nulla, soffiandosi il naso e continuando a piangere silenziosamente; alle volte si calmava, alle volte piangeva più forte.
«Tu non mi ami.» disse infine.
E John ne rimase ferito oltre ogni sua aspettativa. Non era vero che non l’amava, solo che non tanto quanto amava quell’altra persona.
«Sai che non è così.»
«E invece sì. Dimmi che è così, lo esigo!» si voltò a guardarlo negli occhi, il mascara cancellato da un altro fazzoletto che si era passata sugli occhi, i capelli davanti al viso per non farsi vedere troppo da degli sconosciuti in quelle condizioni «Almeno non mi farò false speranze su un tuo ritorno, dopo che ti sarai riabituato alla presenza del tuo amico.» calcò sull’ultima parola guardandolo di sottecchi e capì che Mary aveva intuito.
Gli costò uno sforzo enorme, non se la sentiva e soprattutto non voleva, ma lo fece.
«Non ti amo.» e glielo disse guardandola negli occhi, evitando di avere esitazioni o ripensamenti e lei… lei sorrise.
«Ora potrò odiarti senza problemi.» Fu quasi un rantolo, poi una serie di improperi le uscirono di sfuggita dalle labbra, con vero astio e risentimento. Non lo guardò più, si alzò semplicemente e si allontanò per poi avere un’incertezza e fermarsi.
«Se ogni tanto vorrai vedere Michael, mandami un SMS, non chiamarmi.»
E si allontanò, la testa di nuovo alta, una mano che si asciugava le lacrime e il passo fermo.
Ed ora… ora doveva tornare a casa, vedersela con Sherlock (sperando che quest’ultimo non gli facesse domande e non deducesse niente, come suo solito) e aspettare l’arrivo di Lestrade.
Fece un profondo respiro, aveva solo voglia di urlare. Poi si prese la testa fra le mani e chiuse gli occhi.
Mary era davvero la donna migliore che gli sarebbe mai potuta capitare in tutta una vita e lui l’aveva lasciata per un sociopatico, che aveva finto la morte senza dirgli niente e che era appena tornato come nulla fosse. Iniziava ad avere dei ripensamenti e, soprattutto, a dare ragione a Sherlock: era un vero idiota.
 
 
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Sentì suonare il campanello, poi la signora Hudson aprire la porta e salutare cordialmente l'ospite appena arrivato.
Dai passi frettolosi della persona che saliva le scale non poteva aspettarsi altri che Lestrade (Mycroft aveva la flemma in tutto quello che faceva, non poteva essere lui). Infatti nel suo soggiorno entrò proprio l'ispettore, aveva la faccia seria e gli occhi che si muovevano alla ricerca di qualcosa... Qualcuno, che trovò tranquillamente seduto sul proprio divano.
«Salve, Lestrade.» lo salutò con tranquillità, alzandosi.
Greg lo raggiunse a grandi falcate e lo sbatté contro il muro facendogli picchiare la testa e, poi, ricadere sul divano, continuando a scuoterlo.
«Salve? SALVE?!»
«Abbassa il tono di voce!» Sibilò infastidito, massaggiandosi il capo.
«Io non abbasso un cazzo, Sherlock! Come fai a essere vivo? Come fai a essere qui? Ma, soprattutto, come hai potuto farci una cosa del genere?! Maledizione! Hai idea di quello che abbiamo passato? Hai idea di quanto io mi sia sentito in colpa?!»
Si ritrovò stranamente a sorridere anche se dentro era irritato. Guardava l’ispettore mentre tentava –con scarso successo- di calmarsi e di riprendere il controllo di sé. Erano forse convinti che lui si fosse divertito da morire (parola sbagliata) in quei tre anni? Che lo avesse fatto per puro godimento personale?!
«Allora è questo, semplicemente ti sentivi in colpa.»
Greg finalmente lasciò le spalle del consulente investigativo e rimase un attimo in silenzio. «Sai dannatamente bene che non è solo per quello. Si, mi sono sentito in colpa a non averti creduto per un attimo e di essermi fatto convincere da quei due…», evitò accuratamente di chiamarli per nome; li aveva fatti spostare di reparto ed era un miracolo se, ogni qualvolta li vedeva, non li ammazzava, del resto loro avevano solamente lanciato l'amo e lui aveva abboccato, era colpa loro quanto sua e -doveva ammetterlo- aveva fatto più di un pensierino sul lasciare il proprio lavoro. Ringraziò tutti i Santi del Paradiso per non averlo fatto. «Ma non è solo questo. Che Dio mi aiuti, mi sei mancato Sherlock, tu con John sulle scene del crimine, i tuoi modi di rispondere che mettevano la voglia di noleggiare uno schiacciasassi e passarti sopra, le tue deduzioni, il tuo essere scostante e tutto lo stramaledetto resto di te! E John non è più stato lo stesso.»
Era il discorso più lungo che avesse mai sentito fare (perlomeno rivolto a lui) a Lestrade e non sapeva bene cosa rispondere. Riguardo a John, era più che informato.
«E comunque non pensare che ti abbia perdonato. Cristo! Non basta che tu sia vivo, questo non ti scusa di niente, per nessuna motivazione che tu possa avere. Vorrei prenderti a pugni!»
Sherlock lo guardò male e si rimise in piedi con finta calma, lisciandosi la vestaglia azzurra.
«Mi spiace, ma non te lo lascerei fare. L'unica persona da cui accetterei di farmi prendere a pugni ed essere insultato è John, che sembra invece aver preso la politica del silenzio stampa come religione.» Si spostò da lì spintonando leggermente l'ispettore - che sembrava non capire- per una spalla e tirandogli un’occhiata in tralice dirigendosi in cucina.
«Che vuoi dire?»
«Niente.» non erano affari suoi, non lo erano di nessuno.
«Avanti, non fare il bambino! Che vuol dire la politica del silenzio?»
Sherlock sospirò prendendo in mano il bollitore. «The?» offrì.
«No, grazie, non vorrei ritrovarmelo avvelenato.» rispose Lestrade con le mani sui fianchi, non smettendo un attimo di fissarlo, ancora leggermente basito.
Alzò un sopracciglio e mise il bollitore sul fuoco, sorridendo con un angolo della bocca.
Calò il silenzio per diversi minuti.
«Sherlock. Che volevi dire?»
Evidentemente l’ispettore non voleva mollare l’osso. Forse era bravo almeno negli interrogatori.
Si ritrovò a sbuffare mentre versava il the nella tazza scheggiata di John.
Al Diavolo...
«Volevo dire che John si comporta in modo strano, in modo... non da John.» Mise due cucchiai di zucchero e mescolò, fissando la bevanda calda dorata che girava in senso orario.
«Ogni tanto è come se non mi vedesse, alle volte non mi parla o non mi risponde, si estranea, si scansa se cerco di toccarlo, si altera per qualsiasi cosa e altre volte passa dalla felicità al malumore in modo repentino...»
Greg lo guardò abbassando leggermente la testa in avanti con entrambe le sopracciglia alzate. «Chissà chi mi ricorda...»
Sherlock si voltò fulminandolo con lo sguardo. «Che vuoi dire?»
Lestrade quasi rise. «Che lui si comporta come ti comporti tu generalmente con le persone e che invece tu cerchi più contatti... Dio, abbiamo le parti invertite, un nuovo John e un nuovo Sherlock.»
Tornarono entrambi in soggiorno sedendosi sulle poltrone. Sherlock era pensieroso sul cosa dire e il cosa non dire.
«Il problema è che John lo fa solo e unicamente con me, mentre io lo facevo incondizionatamente. E vorrei mi urlasse in faccia il suo risentimento, almeno -forse- arriveremmo da qualche parte...»
«Gliel'hai detto?»
«Cosa esattamente della frase “alle volte si estranea” non hai colto?» fece sarcastico.
«Ecco le tue solite vecchie risposte da zitella acida...»
Sherlock gli riservò un'occhiataccia e non disse più niente, non aveva altro da aggiungere.
Greg dal canto suo sembrava più tranquillo, continuava a fissarlo come se fosse un fenomeno da baraccone ma almeno non sembrava più in vena di alzare le mani. John aveva avuto ragione anche su quello: “Se lo avvisiamo in anticipo vedrai che avrà tempo di assimilare la cosa e sbollirà un po' la rabbia prima di venire qui”, probabilmente lo aveva immaginato perché lui stesso avrebbe voluto ricevere un trattamento simile. 
 
Quando tornò a casa sperò che Greg non fosse già arrivato ma, sentendo delle voci al piano di sopra, le sue aspettative vennero infrante. Prese un respiro profondo, tentando di gettarsi la tristezza alle spalle e accantonare il discorso di Mary, aveva preso la sua decisione e ora l'avrebbe portata avanti.
Salì le scale il più velocemente possibile aspettandosi scenari apocalittici, invece entrando trovò i due semplicemente seduti sulle poltrone, uno con la sua tazza di the in mano, l'altro rivolto verso quest'ultimo come se stesse per aggiungere qualcosa a un discorso già iniziato. Al suo arrivo, però, entrambi si voltarono verso di lui e rimasero in completo silenzio come se fossero stati interrotti durante una conversazione che non doveva essere sentita da altri o, perlomeno, non da lui.
«Ciao, Greg.» lo salutò con più convinzione possibile, prendendo una sedia dall'angolo e avvicinandosi ai due, più dalla parte di Lestrade che da quella di Sherlock.
«Ciao, John, ti vedo bene.» e tutti in quella stanza sapevano che era una bugia, una semplice frase di circostanza.
«Grazie, anche tu non scherzi!» gli batté una pacca  amichevole sulla spalla e si sedette.
«Vuoi del the?» Questa domanda fu posta da Sherlock e John si ritrovò a non sapere cosa rispondere. Ultimamente non riusciva a parlargli e pensava che se non ci riusciva, evidentemente era perché non lo voleva, non per ora.
Tossì per dissimulare l'imbarazzo dei troppo secondi che aveva lasciato passare prima di rispondere.
«No.» un altro piccolo colpo di tosse «No, grazie.» Non gli sfuggì l'occhiata d'intesa che Sherlock lanciò a Greg... Di che cosa avevano parlato quei due?!
Si aspettava che Lestrade avrebbe fatto una scenata di proporzioni bibliche e invece era lì, fermo, quasi tranquillo. Evidentemente chiamarlo ore prima aveva sortito l'effetto desiderato.
Si voltò in direzione di Sherlock -che ora stava parlando con Greg sulla rassegna stampa che voleva fare per ristabilire il suo buon nome- e si perse nel guardarlo.
Alle volte gli capitava di rimanere lì a fissarlo anche per ore, senza dire una parola, mentre l'altro chiacchierava anche per lui, e Sherlock non sembrava trovarlo fastidioso o almeno non lo aveva mai dato a vedere. Fissava la curva del mento, la mascella non troppo marcata, gli zigomi alti, i capelli ricci, la bocca a forma di cuore e gli occhi... Su quelli ci passava la maggior parte del tempo, e se una volta lo avrebbe trovato imbarazzante, ora lo trovava normale. Sherlock alle volte sembrava contraccambiare l'interesse perché rimaneva a fissarlo con la stessa intensità. Entrambi sembravano in attesa di qualcosa.
Lo amava, e fin lì non c'era nessun mistero. Il vero mistero rimaneva che, pur amandolo, non poteva più vederlo. Se andava a lavorare era in apprensione che gli potesse succedere qualcosa in casa, se stavano insieme gli stava il più lontano possibile perché la sua sola presenza lo irritava. Gli sarebbe mai passata? Dio, ci sperava. Ogni notte ci sperava e ogni mattina si svegliava con un po' di rancore in più invece che in meno e non sapeva come affrontare la cosa. Non sapeva cosa dire o cosa fare; era in uno stato di apatia totale nei confronti del suo coinquilino, probabilmente aspettava che qualcosa cambiasse, che un ingranaggio nella sua mente si sbloccasse per far sì che potesse urlargli contro il suo dolore e la sua rabbia. Però gli ingranaggi sembravano fermi, arrugginiti e quindi rimaneva in quello stato catatonico. Non poteva far altro che aspettare.
 
Lestrade se ne andò qualche ora più tardi, lasciando la casa in un silenzio quasi palpabile.
«Cinese?» propose e John annuì stancamente.
Il ragazzo del take-away arrivò circa mezz'ora dopo; John aveva apparecchiato la tavola mentre lui aveva fatto una telefonata veloce a suo fratello per delle delucidazioni riguardanti i giornalisti.
A tavola regnò, quasi per tutta la durata della cena, un silenzio non troppo pesante, ogni tanto saltava fuori qualche argomento che John sembrava apprezzare e Sherlock lo tirava per le lunghe il più possibile. Non era quello che desiderava ma era già qualcosa.
Dopo cena, John si sistemò sulla poltrona accendendo la TV su un canale a caso, mentre lui -affacciato sulla finestra- prendeva dalla custodia il suo vecchio violino (quanto gli era mancato!) e, dopo averlo accordato testando il suono, iniziò a eseguire una melodia inventata al momento facendosi trasportare da un sentimento che non riusciva a capire del tutto ad occhi chiusi, cosicché delle immagini potessero formarsi nel suo Palazzo Mentale. John spense la TV.
Sherlock sollevò le palpebre non smettendo di far vibrare l'archetto sulle corde, osservando fuori le poche persone che camminavano per strada -perlopiù turisti-, illuminate dai lampioni.
«Ti sto infastidendo?» chiese a voce bassa, non smettendo di suonare. E quella domanda non riguardava solo il violino, quella domanda riguardava la loro sfera privata, il fatto che fosse tornato e rimasto.
«Non me lo hai mai chiesto.»
Si voltò per guardare John negli occhi, notando che l’altro lo stava fissando già da prima. «Te lo sto chiedendo adesso.»
Si guardarono attentamente per lunghi secondi che sembrarono interminabili, la tensione nell'aria, finché Sherlock non abbassò archetto e violino -poggiandoli sulla sua poltrona- e si avvicinò di qualche passo al dottore, raggiungendolo. Poggiò entrambe le mani sui braccioli e si abbassò sulle punte dei piedi guardando John dal basso. L'altro teneva una mano lungo il corpo e l'altra sul bracciolo, poggiandosi il mento sulla mano così da coprirsi in parte la bocca, mentre guardava Sherlock -per la prima- volta dall'alto.
«Ti sto infastidendo?» chiese nuovamente e John rimase di nuovo in silenzio per un poco, guardandolo negli occhi e pensando a chissà cosa, poi si tirò su con la schiena assumendo un’altra postura –rigida, militare-, si tolse la mano da davanti la bocca e la fece passare tra i suoi capelli, una sola volta, gentilmente.
Il cuore perse un battito.
«No, adesso non mi stai infastidendo.»
Si ritrovò a sorridere grato pensando che, se John avesse continuato col muro del silenzio, si sarebbe fatto perdonare in un modo o nell'altro, magari a piccoli gesti, con calma, ma prima o poi ci sarebbe riuscito. John era una delle poche persone di cui gli importasse veramente qualcosa e non se lo sarebbe lasciato scappare per nulla al mondo. In fondo, era risaputo; era un egoista cronico.
Voleva anche sapere com'era andato  l'appuntamento con Mary ma non voleva entrare in territorio privato e/o ostile ora che John sembrava così tranquillo, quindi riprese in mano archetto e violino e ricominciò a suonare. Ne avrebbero parlato in un altro momento.
 
Passarono diversi giorni e finalmente Sherlock poté andare a fare l'intervista tanto desiderata. John non sapeva se accompagnarlo o meno, così aspettò che fosse l’altro a proporglielo oppure no.
«Credevo fosse ovvio che venissi con me.»
Allora salì in camera a vestirsi (giacca e cravatta), scendendo poi con calma per la colazione.
«Ti ho portato il berretto.» disse a Sherlock sorridendo. Arrabbiato o meno, continuava a punzecchiarlo quando poteva e in quei giorni si sentiva di spirito stranamente allegro.
Sherlock –appena si girò per vedere a che berretto si stesse riferendo-, per la prima volta in tante settimane, gli lanciò un'occhiata glaciale. «Il frisbee della morte può rimanere dov'è, o puoi gettarlo nel caminetto, grazie tante.»
Si ritrovò ad appoggiarlo sopra al teschio.
 «Vic, tienilo d'occhio tu! Facci buona guardia.» mormorò cospiratore verso quella che una volta era una testa attaccata a un corpo.
Lestrade li stava aspettando giù mentre parlava animatamente con Mycroft, che era passato di lì per premurarsi che tutto fosse apposto.
«Le sto dicendo che la conferenza stampa si terrà a pochi isolati da qui, cosa vuole che succeda?!»
«E io le sto semplicemente facendo notare che siete estremamente scarsi in efficienza e che...» Mycroft si bloccò alla comparsa di Sherlock e John. «Buongiorno, fratellino... Dottore...»
Quella era la prima volta che si vedevano dopo tre anni e John represse a fatica l’impulso di tirargli un altro pugno, questa volta in faccia. Sorrise invece fintamente cordiale. «Holmes...» Lasciò sottointesa qualsiasi altra parola potesse venire dopo; stronzo, ad esempio, testa di cazzo, maledetto, spero che l'ombrello ti si conficchi dove non batte il Sole e via discorrendo. Dal canto suo, Mycroft fece finta di niente e tornò a rivolgersi all'ispettore: «Mio fratello lo porto io. Ci vediamo lì. Andiamo, Sherlock.»
Il minore degli Holmes obbedì -di salire sull'auto della polizia non se ne parlava proprio-, trascinandosi dietro John mentre lo tirava per un angolo della giacca.
«Non ci stiamo tutti in macchina!» fece notare John, stranito che Sherlock non notasse l'ovvietà.
«Mycroft siederà davanti o si farà più in là!» lo disse come se fosse la cosa più naturale del mondo e che chiunque ci sarebbe dovuto arrivare.
Greg si voltò esasperato. «Ma mi spiegate cosa sono venuto a fare io qui allora?!»
Mycroft guardò la macchina della polizia parcheggiata esattamente dietro la sua. «Verrò io con lei, ispettore. Detesto sedere davanti!»
Lestrade stava per ribattere che quella cosa non aveva senso, che se poteva venirci il maggiore degli Holmes poteva farlo pure il minore, ma lasciò perdere... Perché doveva mandare il suo fegato a puttane per la rabbia? Tanto valeva assecondarli. Come sempre.
Greg non scherzava; l’ufficio dove si sarebbe tenuta la conferenza stampa era veramente a pochi isolati da lì, potevano pure farsela a piedi senza scomodare tante persone.
Guardando dal finestrino dell’auto, notò quante persone effettivamente fossero lì fuori ad aspettare. Pregò che le cose andassero bene.
 
  
                                                                                                                            *         *         *
 
 
L'intervista fu peggio di quello che John avesse potuto immaginare in tanti giorni di malate fantasie.
Non solo i mass media sembravano degli sciacalli affamati di ogni notizia, qualsiasi pettegolezzo, qualsiasi cosa da poter rigirare come più volevano alla prima occasione, ma tentavano ancora di insinuare il dubbio, di diffidare di una persona morta e risorta, di dire che anche quella poteva semplicemente essere una presa in giro. Poi lo avevano notato: dietro a una porta stava osservando tutta la scena, tentando di non correre dentro a prendere a randellate una per una le persone che erano là per poi definirli degli idioti; iniziava a capire il punto di vista di Sherlock. E lì, proprio in quel momento, era iniziato il delirio. «Dottor Watson, si fida ancora di quest'uomo?», «Dottor Watson, è vero che siete tornati a vivere insieme?», «Siete tornati a essere una coppia?», «Come può non aver paura che le capiti qualcosa mentre dorme?», «Era in combutta con lui fin da subito?»
Stava per rispondere a tutti quanti di andare a farsi fottere ma una voce calma lo fermò. 
«Signori, le domande dovrebbero essere rivolte a me e non al mio collega, quindi se vogliamo continuare...»
John si voltò a guardare Sherlock con aria sconvolta, da quando era diventato lui quello diplomatico?!
 
Idioti. Idioti. IDIOTI. Un'intera banda di cerebrolesi rinchiusa in un'unica stanza, a saperlo avrebbe portato uno dei suoi composti chimici e lo avrebbe buttato lì in mezzo, tanto peggio di così non potevano diventare. Ah no, “non c’è limite al peggio” diceva qualcuno. E dire che pensava che dopo Anderson il peggio fosse passato.
Aveva visto le facce del suo coinquilino passare dal malinconico al deluso, all'arrabbiato, all'iracondo in meno di un minuto. Fortuna che John aveva lasciato la pistola a casa o si sarebbe ritrovato a dover difendere il suo migliore amico dall'accusa di omicidio, davanti a tutti quei testimoni. Così era semplicemente intervenuto, cercando di usare un tono civile che gli stava costando un ulteriore sforzo. Le domande non avevano senso, quelle persone non avevano senso, l'intervista intera non aveva senso. Sperava di cavarsela in pochi minuti, dopo aver spiegato com’era sopravvissuto e che cos’era veramente successo. E invece eccolo ancora lì -eccoli ancora lì-, un’ora di domande dove infine erano riusciti a mettere in mezzo pure John e a farlo arrabbiare dopo tutti i suoi sforzi. A saperlo, lo avrebbe lasciato a casa ma probabilmente si sarebbe risentito anche per quello.
Vide John, ancora in piedi accanto alla porta, sparire per qualche secondo per poi tornare indietro con una sedia, camminare fino al piccolo palco, dove salì per andarsi a sedere vicino a lui.
Sherlock non avrebbe saputo dirgli a parole quanto avesse apprezzato quel gesto.
Proprio quando stava per gettare la spugna e mandare al diavolo tutti (non dimentico di rivelare i peggiori segreti di ognuno), Lestrade concluse definitivamente l'intervista dicendo di aver dato loro ben troppo tempo e che, probabilmente, gli intervistati si sentivano stanchi. Non era stanco ma era decisamente spossato, voleva solo andarsene a casa sperando di non rimanere contagiato da tanta stupidità e inettitudine.
«Quel Watson non sa in cosa si stia imbattendo.» disse qualcuno, bisbigliando -anche se non troppo- in mezzo ai paparazzi.
Sherlock si alzò e guardò in mezzo alla folla. Questo era troppo. «Chi ha...?!»
«Io so benissimo in cosa mi sto imbattendo e se voi, piuttosto, non avete idea di che cosa state parlando, vi consiglio di rimanere in silenzio. Questo...», e Sherlock si vide indicare: «...è l'uomo migliore che mai potreste conoscere nella vostra vita. Quindi statevene zitti se non conoscete i fatti o, peggio, non li ascoltate nemmeno. Andiamo, Sherlock; ora abbiamo finito.»
Lo guardò uscire a passo deciso dalla stanza; rimase in silenzio finché non vide la schiena del suo migliore amico varcare la soglia, solo allora si rese conto di essere rimasto immobile, un braccio sul tavolo dinnanzi a sé, la bocca ancora aperta per ribattere. Si tirò bene in piedi e si schiarì la voce, tirando poi su col naso. «Bene. A mai più rivederci.»
Si avviò anche lui verso l'uscita mentre un mare di flash lo sommergeva, e niente riuscì a togliergli la faccia soddisfatta che aveva in quel momento. Il passo di John era deciso, la sua mano non tremava. Pensava quelle cose sul serio.



 Note: Il prossimo capitolo sarà l’ultimo e già mi spiace ç___ç
   
 
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