Tra passato e presente
Mentire è il
talento
di chi non ne ha
nessuno
C’era
una finestra lunga e stretta, unica apertura nel muro da cui trapelava il
respiro del vento.
Duncan, Comandante dei Custodi del Ferelden, osservava il fuoco, quello tiepido
della legna ormai carbone.
Gli ultimi, tremuli, scintillii delle fiamme si posavano simili a polvere di
luce sulle maglie metalliche della sua armatura.
Fu così che l’elfo Dalish lo trovò, quando varcò la soglia di quello studio.
Uno studio spoglio, i cui unici addobbi erano una scrivania di legno nel mezzo
e il cavaliere che era solito sedervi. Persino quelle pareti fredde, invero
fregiate di precarietà, non credevano nella vittoria sulla battaglia da
combattere, da lì a pochi giorni.
E intanto la Prole Oscura avanzava, mentre gli umani preparavano strategie di
guerra, mentre gli elfi, da sempre abili combattenti, pulivano, invece, posate
e lucidavano scudi; mentre ricordi, dalla consistenza onirica, si ammassavano
nell’animo del giovane Teras, quell’elfo Dalish appena apparso sull’uscio.
Non disse nulla, il respiro irregolare nel petto asciutto; solo gli occhi,
fermi e decisi, sulla figura solenne di quell’umano a cui, dicevano, doveva la
vita. A cui, egli si diceva, doveva la spiegazione di un inganno: egli non
meritava di far parte della vita terrena. Che gli spiriti lo prendessero subito
per aver tradito ciò in cui credeva, l’idea che aveva dato di sé; ciò che aveva
lasciato morire: Tamlen, amico e fratello.
Scegliere di fare la cosa giusta, nonostante non la si condivida, è già un
piccolo passo verso di essa, lo aveva tranquillizzato la guardiana, un tempo
non molto remoto che pareva inverni fa. Tuttavia, egli sapeva bene di non aver
compiuto nulla di giusto alle rovine, all’infuori di ciò che era giusto per sé.
-Hai dormito per tre giorni, è stata una sorpresa sapere che ce l’hai fatta;
non credevo avessi molte opportunità di salvezza quando ti ho trovato nella
foresta-, finalmente l’umano parlò. Su di lui si levarono due occhi nero pece,
lucenti come solo quelli elfici potevano esserlo, talmente scuri da coprire
ogni emozione.
Fu un attimo, e l’elfo distolse lo sguardo, posandolo ovunque nella stanza
tranne che sull’umano. Non osava: temeva fosse scoperta la verità sul proprio
conto.
Quanto poteva valere la vita di un vigliacco?
Uno scoppiettio dal fuoco calamitò la sua attenzione sull’elsa di uno spadone
lucente, la cui lama era stata zigrinata da innumerevoli battaglie.
Quanto potevano valere la vita di un vigliacco e la testa di un dalish?
-Allora vi ringrazio-, rispose dunque, garbato, sforzandosi di sorridere,
sempre senza guardare Duncan negli occhi.
-Non serve-, sentenziò l’uomo e rilassò le braccia ai fianchi. Non era il suo
primo incontro con un elfo dalish, ma ognuno di loro era diverso: ogni clan
aveva una propria storia, così come… -Non conosco il vostro nome-
Prima di allora nessun umano gli aveva chiesto il suo, -Teras- e prima che il
comandante aggiungesse altro: -Non è servito!-, sputò fuori, in un vomito di
coscienza. Cosa sapeva l’umano? Pensò il vigliacco, come lo aveva trovato e
cosa aveva visto?
Non era servito a nulla essere stato salvato, se poi, una volta essersi
rivelato inutile, quell’uomo lo avrebbe ucciso comunque.
Demone o uomo, sempre morte gli avrebbe reso.
-Ho combattuto-, continuò Teras per se stesso, in un tono che parve di domanda,
suo malgrado.
-E non è servito!- esclamò l’altro, -So bene che quei mostri paiono
moltiplicarsi in battaglia- quello sboccio di empatia fu invero dovuto a un
malinteso.
Il dalish notò in quel momento di aver pensato ad alta voce. Avrebbe dovuto
fidarsi del suo comandante e raccontare la verità. Invece, in quei giorni Teras
ignorava cosa fiducia volesse realmente significare, e che verità l’avrebbe
sempre accompagnata.
E allora non mentì, ma nemmeno confessò: al solito seguì il ragionamento del
prossimo, nascondendosi tra le righe di una mezza verità.
-E’ accaduto che mi sono piombati addosso-, raccontò, evitando di menzionare
Tamlen per non ferirsi ancora. -Ho combattuto, sudando la mia paura e alla fine
ho temuto di esser morto. E ho l’impressione che gli spiriti stiano ancora
succhiando le mie ossa-, si strinse tra le braccia scarne, istintivamente. Sul
petto, sfiorato dai bordi della camicia, sbucarono cicatrici di morsi. Duncan
le vide, mostrando pietà col suo silenzio.
Quell’uomo aveva patito più di chiunque altri avesse mai saputo. La corruzione,
non la morte, gli stava succhiando le ossa fino all’anima; l’avrebbe poi
strappato alla vita e lo avrebbe portato a raggiungere la propria tomba nelle
Vie Profonde.
Lo compatì, al punto da dolersi di averlo salvato: di quale esistenza gli aveva
fatto dono? Senza che alcuno lo chiedesse. Aveva persino dubitato che quel
giovane sarebbe stato in grado di resistere all’Unione: già difficile da
superare con uno animo sereno, impossibile con il turbamento di un dolore che
mai si sarebbe rimarginato.
Provò ad immaginare come si sentisse, quel ragazzo tanto gracile da sembrare un
bambino: straniero nella terra in cui era nato; solo per sempre.
Il comandante allungò una mano a poggiarla sulla spalla scarna del dalish, il
quale si scostò come fosse stato toccato da carbone ardente.
A mezz’aria rimase un pugno coperto di metallo, che scintillò nel proprio
rumore tornando al suo posto, contro la coscia corazzata.
-Da oggi servirai una grande causa-, Duncan riprese, -come Custode Grigio
avanzerai per garantire al regno la salvezza-, concluse con solennità,
decidendo di cambiare discorso e andare subito al sodo. Considerò che, rendendo
l’unione fragile la mente, sarebbe stato opportuno non riaccendere nell’elfo il
ricordo della fine del suo clan. Così quella decisione lo portò a valutare il
dalish, il quale stava ostentando una grande forza nell’accettare tutto quel
dispiacere.
Lo ammirò. Se prima lo aveva compatito, passò dopo ad ammirarne la risolutezza
con cui stava affrontando il proprio destino.
Non aveva capito che Teras nulla sapeva della morte dei propri cari.
-I Custodi Grigi?-, chiese quest’ultimo.
-Sì, il nostro è un ordine antico quanto lo sono le origini dei demoni contro
cui hai combattuto. Noi…-
-Uniti vigiliamo le ombre che ci ergiamo, affinché Equilibrio sia in tutte le
cose- una voce ferma e avvolgente si aprì nella stanza, seguita da passi
risoluti: sua maestà il re aveva appena varcato la soglia.
-Spero, Duncan, di non aver offeso il vostro ordine, recitandone il giuramento
in modo imperfetto-
Duncan si chinò verso il re, mentre Teras, non capendo quella riverenza rimase
immobile.
-Non vi aspettavamo così presto, maestà, -
-Oh un mago e qualche scorciatoia possono fare grandi cose, amico mio, cosa
posso dirvi: non vedevo l’ora di raggiungere il campo di battaglia!-
-Battaglia?-, proruppe allora Teras, con singhiozzante sorpresa. Non sapeva
cosa stesse accadendo, ma sapeva abbastanza da non volerne far parte: tornare a
casa e liberarsi la coscienza, era tutto ciò che desiderava.
Fu allora che sua maestà notò trattarsi di un elfo, -oh… ah! Un dalish! Che
gradita sorpresa avervi qui- proferì entusiasta Cailan, che da bambino giocava
alla guerra, -è una nuova recluta?- e gli si parò davanti, in tutta la sua
scintillante armatura mai usata. Sulla quale, egli sognava, si sarebbe
specchiato l’Arcidemone negli ultimi istanti di vita.
-E’ stato salvato pochi giorni fa nella foresta, scampato da un attacco della
Prole Oscura. Lo stavo interrogando sull’accaduto e informando riguardo il
nostro ordine-
-Il vostro glorioso ordine-, rimarcò sua maestà, - so che i Dalish sono
piuttosto rari tra le vostre schiere, ma sono sicuro che – volse gli occhi
castani su di Teras, - anche tu colmerai di gloria la tradizione-
Il dalish si sentì preso in contro piede, ignorava come comportarsi, cosa dire
e, per la prima volta, cosa fare.
Infine decise per il silenzio, ma non Duncan, il quale avrebbe voluto
prolungare il loro colloquio.
-Credo sia abbastanza, Teras - proferì, a malincuore, il comandante –sono certo
che Alistair, il tuo compagno di stanza, e Sasha risponderanno volentieri alle
tue domande- e con ciò, intendeva chiudere il discorso, dando per scontato
troppe cose: non per avventatezza, quanto per elisione del superfluo,
-discuteremo il resto quando sarà opportuno-
-Nel frattempo, ti consiglio di procurarti un’armatura, la battaglia inizierà
presto-, suggerì, benevolo, il re il quale ottenne di rimando un’occhiata
confusa.
Nemmeno Teras aveva voglia di concludere lì il loro discorso, erano troppi gli
interrogativi nati dalla curiosità; ma poi si rassegnò all’idea di lasciare
quegli umani da soli, del resto, avrebbe abbandonato anche quel posto molto
presto: mai avrebbe dato la propria carne in una battaglia di cui non gli
importava!
Casa era la sua unica meta, il clan l’abbraccio che desiderava: sicuramente
erano tutti in pensiero e in attesa del suo… del loro ritorno.
Inoltre… inoltre questa volta avrebbe detto la verità a tutti. Oramai era
deciso fino in fondo: si sarebbe confessato come lo sciagurato che era stato.
Sì! Lo doveva a tutti: al clan, a se stesso e, soprattutto, a Tamlen.
Egli, invero, sperava che la verità gli avrebbe lavato la coscienza e
rischiarato, con la sua forte luce, i suoi sensi di colpa. Doveva solo trovare
il modo di scappare.
La pioggia scendeva così sottile che sembrava essersi cristallizzata nell’aria;
un leggero drappo d’acqua portava odore di muschio e di bosco al naso del re.
Non sembrava essere stato bel tempo quel giorno e, paradossalmente, il brutto
era iniziato con le angherie di Teyrn Loghain, le cui gesta meravigliavano il
regno da anni.
-Maestà, perdonatemi se oso dubitare del vostro piano-, disse il cavaliere,
senza nascondere il proprio sarcasmo.
-Oh no, dubitate pure! Farò orecchie da mercante, ma ciò non vi toglie il
diritto di esprimervi-, sua maestà si allontanò dalla finestra, tornando a
guardare la stanza, -lungi da me il mancarvi di rispetto: in fondo se oggi sono
qui, in veste di re, è anche merito vostro oltre che di mio padre-, alluse a re
Maric, il quale aveva liberato il Ferelden dagli imbellettati Orlesiani.
-Tuttavia, non capisco cosa di sbagliato possa avere il mio piano: è perfetto-,
sentenziò l’arroganza di Cailan, il quale osservava la mappa sul tavolo
accarezzando la vittoria, ma prima di essa, l’idea di fronteggiare
l’arcidemone. Sollevò una statuina d’ottone raffigurante se stesso: la rigirò
tra le dita un paio di volte; la posò sulla mappa,
-Non avete mai nascosto la vostra sfiducia nei Custodi, soprattutto nei Custodi
di Orlais-, continuò sua maestà, togliendo la parola al Teyrn.
E il rumore della pioggia entrò per un istante tra quelle mura.
Non era affatto per i Custodi, né per gli Orlesiani, i quali già una volta
avevano assaggiato le spade del Ferelden. Semplicemente, Loghain non avrebbe
permesso alla boria di un inetto di mandare a morte certa i suoi soldati.
Non avrebbe permesso a Cailan di mandare alla malora il regno che aveva
impiegato anni a riconquistare!
Già gli pareva di vederlo, Cailan, inesperto d’armi, avanzare verso il nemico,
brandendo una spada più di rappresentanza che di vera utilità; il viso
arrossato dalla fatica e i gli occhi infiammati di testardaggine. Con
quell’espressione sarebbe caduto sul campo, inesorabilmente, come tutti gli
altri.
In realtà, anche se tutte le terre conosciute fossero scese in battaglia al
loro fianco, la vittoria sarebbe stata comunque lontana.
-Fronteggeremo un orda di demoni, non umani!-, parlò Loghain.
-Motivo per cui sarà memorabile!-, replicò Cailan, nella piena fiducia delle
proprie capacità, -inoltre, è proprio compito dei Custodi combattere la Prole
Oscura-
I Custodi Grigi: a detta di molti solo un branco di disperati che millantava
eroiche epopee.
-Maestà,- mai quella parola fu così pesante alla lingua del cavaliere. - Stiamo
investendo troppe energie in una causa persa: l’Arcidemone non è stato
avvistato, segno che l’attacco finale è lungi dall’essere sferrato; mentre
questo servirà solo a condannare il morale del regno e la vita dei suoi figli!-
-Non se vinceremo!-, s’impuntò ancora sua maestà. -Abbiamo un’ottima
strategia.-
-Siamo inferiori numericamente, la strategia non basterà!-
-Allora improvviseremo!-, sbottò a quel punto Cailan. -Ciò non ha
impedito alle truppe di mio padre di fronteggiare e sconfiggere il numeroso
esercito di Orlais.-
Loghain picchiò un pugno sul tavolo, gli occhi azzurri ostili. Era pronto a
controbattere: nulla lasciava intendere il contrario.
Nell’istante, però, in cui Ser Cauthrien rivolse una silenziosa richiesta
d’aiuto a Duncan, l’ira di Loghain si era già misteriosamente spenta. La
giovane donna, baldanzosa nella propria armatura, tirò un respiro di sollievo
quando vide il cavaliere rivolgere un riverente inchino al re. Respiro che però
il Teyrin le mozzò non appena uscirono dalla stanza.
-Nessuno distruggerà il mio regno-, disse l’eroe del fiume Dane.
Di certo un Dalish sa come non farsi notare, soprattutto in un luogo in cui non
vale nemmeno la pena osservare un elfo: “sono solo servi, andranno a pulire da
qualche parte”.
Così
Teras aveva raggiunto il muro di cinta; strisciando nell’erba, costeggiando
muri, attento ad attutire i propri passi. Del resto, l’arte del nascondersi,
dell’agguato, viene imparata molto presto dagli elfi della foresta.
Più difficile non guardare in basso, nel tentativo di scavalcare un muro, nel
caso si soffrisse di vertigini; ma la voglia di libertà lo aveva aiutato anche
in questo, nonostante la paura gli avesse reciso la sua solita abilità.
Precipitò a terra, dall’altra parte, in un tonfo sordo; masticò una bestemmia
in bocca e strinse gli occhi nel dolore della caduta. Si massaggiò la spalla
dolente. Il dolore impiegò davvero poco a spegnersi.
L’elfo non badò a quel particolare e iniziò subito a correre.
O meglio, a scappare, poiché di fatto era quello il suo piano. E per la prima
volta, forse, stava scappando da se stesso per tornare a se stesso. Giacché si
era deciso più che mai a raccontare la verità: i sensi di colpa per la morte
dell’amico lo stavano annegando e sperava che raccontare tutto al clan lo
avrebbe salvato.
Dunque, non per amore della verità, ma sempre per amor proprio scappava.
Non aveva ben capito cosa i Custodi facessero, tuttavia non sarebbe rimasto a
scoprirlo, ancora di più se si stavano preparando ad affrontare una battaglia.
Di cosa e per cosa, non gli era ben chiaro: non gli importava, né aveva voglia
di chiedere spiegazioni.
Gli era stato detto di aver dormito per tre giorni e tanto era bastato per
insospettire un elfo in terra umana.
Perché non lo avevano lasciato morire? Perché era stato portato lì e non dal suo
clan?
Continuava a ripeterselo, incespicando in pensieri sempre meno nitidi e sempre
più contorti. Anche il suo umore cambiava ad ogni falcata nel terriccio umido
di pioggia, i capelli rossi ormai appiccicati in fronte per via dell’umidità e
del sudore.
E il cuore gli batteva all’impazzata, nonostante il respiro regolare. Tutti
segni della corruzione che ormai gli circolava nelle vene, ma non poteva
immaginarlo, giacché, testardo, non aveva voluto saperlo.
Correva dunque, a più non posso, lasciando indietro pezzi dei propri pensieri.
Aveva smesso di porsi domande.
Sentiva il vomito gorgogliargli in gola; soffocava nell’aria che a stento
riusciva a respirare. A quel punto, Teras arrestò il passo e, nel bel mezzo
delle Selve Korcari, si piegò sulle ginocchia, stringendosi una mano al petto.
Sentiva in testa di essere stanco, ma il suo fisico non stava avvertendo nulla;
o era il contrario?
E il cuore gli stava scoppiando: Teras sentiva il proprio battito come tamburi
da guerra, mentre nello stomaco gli ribolliva la fame che non aveva mai colmato
da quando sveglio. Prima che potesse rendersene conto, la bile gli esplose in
bocca.
Si accorse di vomitare anche sangue quando un puzzo ferroso gli raggiunse le
narici. Rigurgitò l’ultima goccia di dignità e stramazzò al suolo, in una
strano limbo di dolore.
Se solo non fosse stato così precipitoso, se soltanto avesse chiesto, avrebbe
ottenuto una spiegazione a tutto questo.
Avrebbe saputo, infatti, che la corruzione, grazie al rito dell’Unione gli
stava schiumando nel corpo, trasformandolo per sempre. Il suo fisico, eccitato
dalla lunga corsa, stava ora rispondendo a quella metamorfosi, per la quale non
ci sarebbe stata cura all’infuori della morte.
In quel momento, l’anima dell’elfo si stava legando indissolubilmente a quella
della Prole Oscura, per cui egli ne avrebbe sempre avvertito la presenza,
e viceversa.
Il Dalish percepì l’olfatto affinarsi, l’udito acuirsi e il tutto mischiarsi a
una pesante angoscia.
Per tutto il tempo, da quanto era stato sottoposto all’antico rito, era stato
in balia di quel processo. Solo ora lo sforzo impiegato nella fuga lo aveva
reso più evidente: la sua struttura corporea stava abituandosi a una nuova
potenza, sollecitata dalla folle corsa.
Le palpebre diventarono pesanti e tra il sonno e la veglia vide draghi e
cadaveri, e si agitò per urla che in realtà non udiva. Credette di vomitare
ancora; rigirandosi nella terra, riempì i polmoni di nebbia.
Stava morendo, o forse era già morto. Pensò di levitare, quando qualcuno lo
sollevò per le braccia.
*Madre Ailis gli accarezzò distrattamente i capelli biondi con la mano
segnata dal tempo, “Sì, hanno vinto. Loghain guidò l’armata a una grande
vittoria, decimando le forze orlesiane in modo così pesante che l’Imperatore
Florian si rifiutò di inviare dei nuovi rinforzi all’Usurpatore. Perdemmo anche
molti dei nostri. Persino tua madre rischiò la vita. Ma fu una giornata
memorabile per Ferelden.”
Cailan diede una scorsa al libro posato sulle sue ginocchia, un volume
prezioso corredato da molte raffinate illustrazioni,
Fermò la propria attenzione sull’immagine fulgente di re Maric il Salvatore,
suo padre: il mantello carminio svolazzava al vento della vittoria e la spada
era levata in cielo in un bagliore di fierezza.
Richiuse il tomo e lo ripose con cura nel baule al suo fianco.
All’epoca di quelle illustrazioni suo padre, poco più che ventenne, aveva
riunito un grande regno sotto l’egida della Regina Ribella. Le terre verdi di
Ferelden erano state concimate con lo stesso sangue che scorreva nelle sue
vene. Sangue non solo…
*-…di Calenahd il Grande , ma anche di Moira, la Regina Ribelle, e di Maric
il Salvatore.-
Madre Ailis lo osservò per qualche istante, poi allungò la mano e gli scostò i
capelli dalla fronte. Non c’erano altri rumori nella biblioteca, se non il
sibilo del vento d’autunno dalle finestre.
-Non c’è nulla che tu non possa fare, se ti ci dedichi con tutto te stesso-
Il ragazzo roteò gli occhi e si lasciò scappare un sospiro esasperato. -E’ quel
che mi dice sempre… Non credo che..
-…Sarò mai in gamba quanto lui-, proferì ad alta voce, lo sguardo sulle figure
rialzate della copertina del vecchio libro.
Cailan era il Re di Ferelden, ma soltanto “re”: non aveva salvato la sua
patria, né era stato un grande.
“Più gloriosi sono stati i tuoi avi, più glorioso dovrà essere il tuo regno”,
citazione che lo colpì in volto come uno schiaffo; ce l’aveva sempre in mente,
dal giorno in cui l’aveva trovata incisa sulla testata di uno dei tanti volumi
regalatogli da sua madre.
E, nolente, gli ritornava alla memoria tutte le volte che, da bambino, guardava
suo padre; tutte le volte che, da adulto, leggeva delle sue gesta.
E, volente, Loghain gli ricordava quanto era stato sacrificato, per
permettergli di regnare su una terra che non aveva dovuto conquistarsi.
Cailan non era un re in cerca di mera fama, ma dell’affermazione di sé
attraverso di essa. Desideroso di dimostrare e di dimostrarsi all’altezza dei
propri antenati, non chiedeva altro che fronteggiare il nemico: la Prole
Oscura; versare il proprio sangue e mischiarlo, sul campo di battaglia, allo
stesso versato da suo padre, da Loghain e da tanti altri che avevano servito la
liberazione del Ferelden.
Non era uno sciocco: era ben conscio di quanto sarebbe stato difficile ottenere
la vittoria, tuttavia, era forte dei risultati ottenuti dai Cavalieri della
Polvere, dai Custodi e dagli altri schieramenti radunatisi contro la Prole nei
mesi precedenti.
Non aveva motivo di perdere, perché ci credeva con tutto se stesso. Le sue
truppe avrebbero affrontato i demoni nella valle; arcieri e catapulte avrebbero
attaccato dall’alto e, infine, quando l’avversario avrebbe iniziato ad
accarezzare il trionfo, le truppe di Loghain l’avrebbero circondato e concluso
lo scontro a proprio favore.
La stessa strategia usata molte da suo padre e dallo stesso Teyrn, nelle loro
rivolte. L’unico a non crederci restava il Teyrn stesso, il quale più volte
aveva mostrato un atteggiamento di ambigua stima nei confronti del nuovo re.
*-Se desideri davvero che io rimanga-, cominciò il giovane, alzando lo sguardo
verso il compagno, -rimarrò. E se intendi affidarmi la tua armata e fidarti di
me fino a questo punto, allora ne sono onorato. Forse non sarò di nobili
origini, e non so il valore che può avere per te la mia parola… ma ce l’hai.
Sei un mio amico, e il mio Principe: giuro di servirti lealmente-.
Maric deglutì a fatica. –La tua parola vale moltissimo per me, Lo…
-…ghain!-, lo chiamò Ser Cauthrien, con l’intenzione di seguirlo fin dentro la
sua tenda; ma il Teyrn non le rispose: oltrepassò il telone dell’entrata con un
gesto sprezzante della mano, e sparì alla sua vista.
La donna rimase immobile, chiedendosi cosa fosse giusto fare. Spesso il
rispetto per quella figura autorevole frenava l’affetto che lei provava nei
suoi confronti. Ancora più spesso, Catherin mortificava i sentimenti che la
legavano, segretamente, a quell’uomo. Il quale certamente non ricambiava né
avrebbe mai ricambiato, anche se avesse saputo.
Così, Ser Catherin mascherava di rispetto ciò che serbava nel cuore; sempre
combattuta tra ciò che la donna in lei avrebbe voluto e ciò che il suo rango le
imponeva. Strinse le affusolate dita nel pugno, protetto dalla lastre
metalliche dell’armatura; roteò gli occhi grigi.
Lo lasciò solo, com’era dovuto e decoroso fare.
Loghain sfilò i guanti e li gettò a terra con disprezzo. Con una falcata
raggiunse il tavolo e lo spinse con foga fino a che non si arrestò contro un
albero, al di là della tenda.
Dire che era furioso sarebbe stato dire poco.
Quel Cailan non aveva un briciolo del senno di sua madre, la Regina Rowan, e
del padre aveva preso la capacità di incaponirsi in imprese folli.
Erano finiti i tempi in cui bastava brandire una spada fino al calar del sole,
tempo in cui i nemici si sarebbero ritirati per riposare. Era la fine degli
agguati notturni, di quelli che si poteva immaginare come e dove sarebbero
stati sferrati.
Il Ferelden prima di ogni cosa, si era sempre fatto promettere Maric.
-Penseresti lo stesso anche oggi? Passeresti sopra tuo figlio, Maric?-, sussurò
quel nome come si sussurra una bestemmia, tra la liberazione di averla
proferita e il rimorso per averla detta.
C’erano state vittorie, era vero: le altre truppe avevano lottato senza sosta
per sconfiggere la Prole, lì dove era apparsa. Ma tutto ciò al prezzo di
conoscere le vere abilità di un nemico che mai e poi mai avrebbero avuto la
capacità di fronteggiare alla pari.
Almeno non quel tempo.
Loghain aveva ascoltato i racconti dei superstiti, degli eroi, che erano
riusciti a narrare di ciò che avevano visto. Ma la fortuna non porta la
vittoria, solo un’effimera speranza di salvezza.
Per quelle vittorie, infatti, i guerrieri avevano lottato senza sosta, giorno e
notte.
Giorno e notte.
Avevano vinto solo grazie a qualche stregoneria e perché di gran lunga superiori
di numero; e tutto questo non era bastato a riportare un trionfo netto su un
pugno di carcasse indemoniate!
Appunto, solo fortuna.
Cosa sarebbe accaduto, nell’affrontare la Prole in un vera e propria guerra?
Avevano strategia, avevano un buon piano, non abbastanza uomini. Non ancora.
E gli Orlesiani (quei maledetti! Loghain sputò a terra), erano in ritardo sulla
tabella di marcia.
Se poi si fosse aggiunto l’Arcidemone, nemmeno la disfatta avrebbe avuto bocche
per essere narrata.
* La strega diede un altro morso con uno scrocchio sonoro e masticò
pensosamente, accomodandosi meglio nella sedia a dondolo.
-Le sorti cambiano-, lo sguardo della strega vagò in lontananza. –Un minuto sei
innamorata, talmente innamorata che non riesci ad immaginare che possa accadere
qualcosa di male, e quello dopo vieni tradita; il tuo amore ti viene strappato
come fosse una parte del tuo corpo, e giuri a te stessa che farai qualsiasi
cosa, qualsiasi cosa, perché i responsabili paghino-. I suoi occhi si
concentrarono su Maric, e la voce divenne dolce, carezzevole.
-A volte la vendetta cambia il mondo. Cosa farà la tua, giovanotto?-
Lui non rispose, guardandola incerto.
Loghain si fece avanti di rabbia. –Lascialo in pace-.
La vecchia si voltò a considerarlo, con uno sguardo divertito.
-E che mi dici della tua di vendetta? Hai rabbia quanto basta dentro di te,
temprata in una lama d’acciaio puro. Mi domando in quale cuore l’affonderai, un
giorno-.
-Signore!-, lo chiamò una voce alle sue spalle.
-Che cosa vuoi?-, Loghain non si prese la briga di voltarsi, osservava, cupo,
la superficie della propria scrivania.
Il soldato compì un passo in avanti, porgendo una pergamena.
-E’ giunta questa lettera da parte di vostra figlia, la Regina Anora-
-Sapete, esiste un termine che ben descrive ciò che avete appena fatto, ma per
pudore non lo dico-, trillò l’umano che stava cercando di accendere il fuoco.
Si trovavano sotto il porticato dei resti di un’antica fortezza, mentre nelle
selve imperversavano la notte e la pioggia ormai copiosa. Sarebbero rimasti al
riparo finché la pioggia non avesse cessato di cadere. Teras sbatté le palpebre
più volte, cercando di riprendersi da un incubo di cui non ricordava la forma,
eccetto un paio di occhi gialli che brillavano come il sole in una notte cupa.
-Chi siete?-, domandò.
-Se volessi vantarmi direi che sono il vostro salvatore e che mi dovete un
favore, - lasciò perdere il fuoco, rassegnato, -ma giacché non mi piace
vantarmi, potete chiamarmi Alistar-. Si passò una mano sulla zazzera bionda.
-Mentre scommetto che voi siete il Dalish che Duncan ha portato con sé,-sbuffò
un risolino, -certo che state collezionando un bel po’ di favori da queste
parti!-
Il Dalish non raccolse la battuta, sistemandosi a sedere; aveva un terribile
sapore in bocca, che tolse bevendo dell’acqua da una borraccia che trovò lì
vicino.
-Ma prego, non c’è bisogno di chiedere -lo apostrofò il giovane.
L’elfo si pulì il muso con il dorso della mano, e puntò gli occhi neri su
quell’umano dal discutibile sarcasmo.
-Alistar-, ripeté il suo nome, -siete stato voi a trovarmi dunque.-
-La perspicacia non è il vostro forte-, scherzò lo shem, -ma vi perdono, perché
onestamente non so come sia riuscito a trovarvi. Sembra che gli alberi di
questo posto cambino posizione!-
Teras, di poche parole da quando era stato sbranato nelle rovine, si limitò ad
un’occhiata interrogativa.
Il Custode riprese il racconto. -L’ultima volta che sono stato qui-, si
trattava, infatti, del luogo in cui lui e i suoi compagni, poco tempo prima, si
erano recati alla ricerca degli antichi trattati, -era ad ovest della fortezza,
e dal momento che vengo da sud, è quasi impossibile che a metà strada mi sia
ritrovato tra queste rovine, non trovate?-
L’altro non rispose, per quel che ne sapeva, dato il suo pessimo senso dell’orientamento,
poteva trovarsi in capo al mondo. Tuttavia, si voltò a guardare quanto distante
fosse la fortezza che aveva lasciato: non riusciva a scorgerla; non ricordava
di aver percorso così tanta strada.
Alistar considerò per un attimo la figura di quell’essere tanto simile a sé
eppure così sconosciuto. Non si era mai trovato al cospetto di un Dalish:
rimase sorpreso dai suoi lineamenti. Non che avesse mai creduto alle storie
riguardanti gli elfi della foresta, raccontate dalla sua gente, ma non si sarebbe
mai aspettato di scorgere un volto così aggraziato.
Pareva quasi una donna! Certo, una brutta donna… O almeno, questo era ciò he
aveva pensato trovandolo steso a terra.
-Quando vi ho visto, ho creduto di scorgere una fanciulla, e volevo portarvi in
salvo. Non sapete che delusione quando mi sono accorto che in realtà eravate un
uomo; ma dato che avete la faccia simpatica, ho deciso infine di aiutarvi-,
spiattellò, nella sua solita parlantina.
Teras lo guardò sconcertato, il labbro superiore arricciato in una smorfia di
disgusto.
-Sapete che potreste essere considerato come un disertore?-, lo ammonì il
Custode, questa volta serio. -I Custodi non possono allontanarsi senza
permesso.-
-Quindi mi ucciderete per questo?-, domandò, allora, l’elfo. Gli umani avevano
ucciso elfi per molto meno. Avrebbe voluto mentire, ma riflettendoci, cosa
avrebbe potuto inventare? Infatti, avrebbe potuto azzardare dicendo che
qualcuno lo aveva mandato tra quelle selve, già... ma in cerca di che? E poi,
chi aveva deciso di inviarlo lì? E quel Custode sicuramente conosceva i
nomi di coloro che erano al campo. Né avrebbe potuto spiegare di come Duncan il
generale lo aveva mandato in perlustrazione, magari a cercare proprio
quell'Alistar... già perché se poi quell'Alistar avesse chiesto qualcosa a
qualcuno, come l'avrebbe messa Teras? Avrebbe perso la facoltà di raccontare
future bugie, giacché nessuno avrebbe più creduto alle sue parole. Bel problema
sarebbe stato... avrebbe dovuto dire la verità, dunque. Avrebbe dovuto
spiegare di essere scappato. O comunque lasciar intendere qualcosa del genere.
Alistar, del canto suo, si trovò invece a studiare la situazione in cui era
venuto a trovarsi: non avrebbe voluto sovvertire il regolamento, ma qualcosa
gli stava suggerendo non tanto rigore, quanto comprensione. Quel ragazzo non
era un semplice elfo, bensì un Dalish. Un essere della foresta non avvezzo alle
usanze umane, alla legge e alla buona creanza in generale.
Inoltre, era logico che, spaurito, avesse tentato di allontanarsi dagli umani.
Duncan gli aveva raccontato la sua storia: sopravvissuto alla Prole, orfano di
origini e di famiglia, giacché tutti morti per mano degli stessi demoni che
avevano sbrindellato la sua carne.
Inoltre, uccidere un Dalish… Si sentiva sempre in imbarazzo a prendere
decisioni che riguardassero gli elfi, essendo al corrente degli antichi asti.
Pensò ancora alcuni istanti, prima di proferire: -La paura e la
disperazione portano a fare grandi sciocchezze. E’ la vostra prima volta tra
gli umani, non dirò nulla-, sentì di aver preso la decisione giusta.
La stessa sensazione l’aveva pervaso quando aveva deciso di caricarlo in spalla
e portarlo con sé. Era stato tutto terribilmente automatico che nemmeno si era
soffermato a pensarci su.
Non immaginava che altri avessero mosso il suo cammino verso il Dalish. Flemeth
, la strega delle Selve, aveva infatti deciso che quello era il momento per far
sì che l’elfo e l’umano legassero. La battaglia, dopotutto, era vicina ed era
necessario che Alistar diventasse amico di Teras al punto da sceglierlo al suo
fianco, quando sarebbe stato opportuno; e che Teras si fidasse di Alistar al
punto da seguirlo e proteggerlo.
Né sapeva che Teras era più avvezzo agli umani di quanto credesse, ma il Dalish
si sfiorò la Vallaslin in fronte e non lo corresse.
-Stavo cercando di tornare a casa, - confessò, dunque l’elfo, d'accordo con i
propri propositi.
-E
se pensate che resterò qui a combattere, al fianco di voi shem, vi sbagliate:
fuggirò di nuovo.-
-Allora perché siete ancora qui?-
-Aspetto il momento giusto, per uccidervi e riprendere il mio cammino.-
Alistar si rivolse a lui divertito. -Ne avete davvero l’energia?-
No. Sarebbe stata la giusta replica. -Il mio clan mi starà cercando, non posso
restare-, disse, invece, l’elfo, ancora all’oscuro riguardo la sorte della
propria gente.
Quell’affermazione colpì Alistar, il quale aveva creduto, come anche Duncan
prima di lui, che quell’elfo sapesse che la sua famiglia era stata sterminata
dalla Prole Oscura. Si chiese, allora, come si fossero svolti i fatti, lì dove
Duncan lo aveva trovato. -Il vostro… clan?-, domandò, quasi retoricamente; ma
in un istante si accorse di non avere il cuore di raccontargli come erano
andate le cose. -Ah… mi dispiace, ma adesso non potete raggiungerli-
-Perché, no? Sarete voi ad impedirmelo?-
-Beh, nelle vostre condizioni non potete nemmeno permettervi di impedire a me
di impedirvelo!-
-Siete davvero pieno di spirito-, lo canzonò l’elfo, riferendosi all’infelice
battuta; studiava lo scempio di focolare che Alistar aveva tentato invano di
far ardere, non guardò l’umano negli occhi.
-Scommetto che Duncan vi avrà spiegato cosa vuol dire essere un Custode, e cosa
rappresenta. Volete davvero abbandonare tutto questo?-
In realtà, non gli era stato spiegato nulla. -So solo che mi sono ritrovato a
vomitare il mio stesso sangue e ancora adesso fatico a respirare, cosa mi avete
fatto?-, domandò Teras, senza nascondere il proprio astio.
-Non vi è stato fatto nulla che non sia servito a salvarvi la vita; ed anzi,
dovreste essere grato a Duncan, se adesso vi trovate qui!-, rimbeccò Alistar.
-Grato? Dovrei essere grato?-, si agitò e tossì leggermente, ritrovandosi sul
palmo ancora alcune gocce di sangue; sputò. -Non riesco a sentire il mio corpo,
prima ho creduto di morire come quando…-
Come quando era riuscito a raggiungere l’esterno delle rovine, mentre quei
demoni erano occupati a sbranare Tamlen.
-In cosa consiste, essere un Custode?-, chiese, infine, rassegnato: il ricordo
dell’amico lo portò a trovare un argomento di conversazione che lo distraesse
dal proprio dolore.
Allora Alistar gli spiegò tutto; gli parlò della corruzione, della Prole Oscura
e dell’Arcidemone. Rispose ad altre domande e chiarì altrettanti dubbi.
E più Teras sentiva quell’umano parlare, più l’idea della redenzione prendeva
forme che non comprendessero il ritorno a casa, non ancora. Sentì, in cuor suo,
che poteva trovare la strada per diventare sul serio colui che il clan credeva
che fosse. Aiutare gli umani; cercare di aiutare qualcuno avrebbe in qualche
modo appianato i suoi sensi di colpa e gli avrebbe anche evitato di
confessarsi, perché sarebbe diventato ciò che gli altri vedevano: un eroe.
In realtà, qualcos’altro gli stava impedendo di riprendere la via di casa. Una
forza sconosciuta si stava impadronendo del suo giudizio, convincendolo a
restare.
Qualcun altro stava scegliendo al posto suo.
Qualcun altro aveva già scelto per tutti.
-Non è ancora tempo di conoscere la verità, mio caro-, Flemeth sfiorò con la
mano la superficie dello stagno, e aiutandosi con un bastone si levò da terra,
mentre la sua premonizione svaniva nel fondo. -La saprai quando nell’inseguirla
avrai qualcosa da perdere. -
*Queste parti sono state prese dal libro “Dragon Age: Il trono usurpato” di David Gaider..