Videogiochi > Dragon Age
Segui la storia  |       
Autore: sese87    01/09/2012    1 recensioni
«Per questo credi di meritare una punizione? La saggezza va costruita: scegliere di fare la cosa giusta, nonostante non la si condivida, è già un piccolo passo verso di essa.» L’anziana lo accompagnò alla porta. «La cattiveria può nascondersi anche dietro la verità: Tamlen deve ancora impararlo. Ora va’, dal’en. Se vuoi potrai accompagnare tuo fratello durante la caccia».
Questa è la prima storia di una serie che proseguirà con DA:Awakening, e il DLC DA:Witch Hunt. I quali però non saranno presenti in questa avventura, quindi niente spoiler per il momento. ^-^ Inoltre, molti degli avvenimenti, soprattutto nella prima parte, sono di mia invenzione e non seguirò fedelmente la trama del videogioco. Questi primi capitoli erano già stati pubblicati, li ripropongo corretti fino all'arrivo degli inediti. Buona lettura :)
Genere: Avventura, Azione, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
6mod

Tra passato e presente

Mentire è il talento

di chi non ne ha nessuno

 




C’era una finestra lunga e stretta, unica apertura nel muro da cui trapelava il respiro del vento.
Duncan, Comandante dei Custodi del Ferelden, osservava il fuoco, quello tiepido della legna ormai carbone.
Gli ultimi, tremuli, scintillii delle fiamme si posavano simili a polvere di luce sulle maglie metalliche della sua armatura.
Fu così che l’elfo Dalish lo trovò, quando varcò la soglia di quello studio.
Uno studio spoglio, i cui unici addobbi erano una scrivania di legno nel mezzo e il cavaliere che era solito sedervi. Persino quelle pareti fredde, invero fregiate di precarietà, non credevano nella vittoria sulla battaglia da combattere, da lì a pochi giorni.
E intanto la Prole Oscura avanzava, mentre gli umani preparavano strategie di guerra, mentre gli elfi, da sempre abili combattenti, pulivano, invece, posate e lucidavano scudi; mentre ricordi, dalla consistenza onirica, si ammassavano nell’animo del giovane Teras, quell’elfo Dalish appena apparso sull’uscio.
Non disse nulla, il respiro irregolare nel petto asciutto; solo gli occhi, fermi e decisi, sulla figura solenne di quell’umano a cui, dicevano, doveva la vita. A cui, egli si diceva, doveva la spiegazione di un inganno: egli non meritava di far parte della vita terrena. Che gli spiriti lo prendessero subito per aver tradito ciò in cui credeva, l’idea che aveva dato di sé; ciò che aveva lasciato morire: Tamlen, amico e fratello.
Scegliere di fare la cosa giusta, nonostante non la si condivida, è già un piccolo passo verso di essa, lo aveva tranquillizzato la guardiana, un tempo non molto remoto che pareva inverni fa. Tuttavia, egli sapeva bene di non aver compiuto nulla di giusto alle rovine, all’infuori di ciò che era giusto per sé.
-Hai dormito per tre giorni, è stata una sorpresa sapere che ce l’hai fatta; non credevo avessi molte opportunità di salvezza quando ti ho trovato nella foresta-, finalmente l’umano parlò. Su di lui si levarono due occhi nero pece, lucenti come solo quelli elfici potevano esserlo, talmente scuri da coprire ogni emozione.
Fu un attimo, e l’elfo distolse lo sguardo, posandolo ovunque nella stanza tranne che sull’umano. Non osava: temeva fosse scoperta la verità sul proprio conto.
Quanto poteva valere la vita di un vigliacco?
Uno scoppiettio dal fuoco calamitò la sua attenzione sull’elsa di uno spadone lucente, la cui lama era stata zigrinata da innumerevoli battaglie.
Quanto potevano valere la vita di un vigliacco e la testa di un dalish?
-Allora vi ringrazio-, rispose dunque, garbato, sforzandosi di sorridere, sempre senza guardare Duncan negli occhi.
-Non serve-, sentenziò l’uomo e rilassò le braccia ai fianchi. Non era il suo primo incontro con un elfo dalish, ma ognuno di loro era diverso: ogni clan aveva una propria storia, così come… -Non conosco il vostro nome-
Prima di allora nessun umano gli aveva chiesto il suo, -Teras- e prima che il comandante aggiungesse altro: -Non è servito!-, sputò fuori, in un vomito di coscienza. Cosa sapeva l’umano? Pensò il vigliacco, come lo aveva trovato e cosa aveva visto?
Non era servito a nulla essere stato salvato, se poi, una volta essersi rivelato inutile, quell’uomo lo avrebbe ucciso comunque.
Demone o uomo, sempre morte gli avrebbe reso.
-Ho combattuto-, continuò Teras per se stesso, in un tono che parve di domanda, suo malgrado.
-E non è servito!- esclamò l’altro, -So bene che quei mostri paiono moltiplicarsi in battaglia- quello sboccio di empatia fu invero dovuto a un malinteso.
Il dalish notò in quel momento di aver pensato ad alta voce. Avrebbe dovuto fidarsi del suo comandante e raccontare la verità. Invece, in quei giorni Teras ignorava cosa fiducia volesse realmente significare, e che verità l’avrebbe sempre accompagnata.
E allora non mentì, ma nemmeno confessò: al solito seguì il ragionamento del prossimo, nascondendosi tra le righe di una mezza verità.
-E’ accaduto che mi sono piombati addosso-, raccontò, evitando di menzionare Tamlen per non ferirsi ancora. -Ho combattuto, sudando la mia paura e alla fine ho temuto di esser morto. E ho l’impressione che gli spiriti stiano ancora succhiando le mie ossa-, si strinse tra le braccia scarne, istintivamente. Sul petto, sfiorato dai bordi della camicia, sbucarono cicatrici di morsi. Duncan le vide, mostrando pietà col suo silenzio.
Quell’uomo aveva patito più di chiunque altri avesse mai saputo. La corruzione, non la morte, gli stava succhiando le ossa fino all’anima; l’avrebbe poi strappato alla vita e lo avrebbe portato a raggiungere la propria tomba nelle Vie Profonde.
Lo compatì, al punto da dolersi di averlo salvato: di quale esistenza gli aveva fatto dono? Senza che alcuno lo chiedesse. Aveva persino dubitato che quel giovane sarebbe stato in grado di resistere all’Unione: già difficile da superare con uno animo sereno, impossibile con il turbamento di un dolore che mai si sarebbe rimarginato.
Provò ad immaginare come si sentisse, quel ragazzo tanto gracile da sembrare un bambino: straniero nella terra in cui era nato; solo per sempre.
Il comandante allungò una mano a poggiarla sulla spalla scarna del dalish, il quale si scostò come fosse stato toccato da carbone ardente.
A mezz’aria rimase un pugno coperto di metallo, che scintillò nel proprio rumore tornando al suo posto, contro la coscia corazzata.
-Da oggi servirai una grande causa-, Duncan riprese, -come Custode Grigio avanzerai per garantire al regno la salvezza-, concluse con solennità, decidendo di cambiare discorso e andare subito al sodo. Considerò che, rendendo l’unione fragile la mente, sarebbe stato opportuno non riaccendere nell’elfo il ricordo della fine del suo clan. Così quella decisione lo portò a valutare il dalish, il quale stava ostentando una grande forza nell’accettare tutto quel dispiacere.
Lo ammirò. Se prima lo aveva compatito, passò dopo ad ammirarne la risolutezza con cui stava affrontando il proprio destino.
Non aveva capito che Teras nulla sapeva della morte dei propri cari.
-I Custodi Grigi?-, chiese quest’ultimo.
-Sì, il nostro è un ordine antico quanto lo sono le origini dei demoni contro cui hai combattuto. Noi…-
-Uniti vigiliamo le ombre che ci ergiamo, affinché Equilibrio sia in tutte le cose- una voce ferma e avvolgente si aprì nella stanza, seguita da passi risoluti: sua maestà il re aveva appena varcato la soglia.
-Spero, Duncan, di non aver offeso il vostro ordine, recitandone il giuramento in modo imperfetto-
Duncan si chinò verso il re, mentre Teras, non capendo quella riverenza rimase immobile.
-Non vi aspettavamo così presto, maestà, -
-Oh un mago e qualche scorciatoia possono fare grandi cose, amico mio, cosa posso dirvi: non vedevo l’ora di raggiungere il campo di battaglia!-
-Battaglia?-, proruppe allora Teras, con singhiozzante sorpresa. Non sapeva cosa stesse accadendo, ma sapeva abbastanza da non volerne far parte: tornare a casa e liberarsi la coscienza, era tutto ciò che desiderava.
Fu allora che sua maestà notò trattarsi di un elfo, -oh… ah! Un dalish! Che gradita sorpresa avervi qui- proferì entusiasta Cailan, che da bambino giocava alla guerra, -è una nuova recluta?- e gli si parò davanti, in tutta la sua scintillante armatura mai usata. Sulla quale, egli sognava, si sarebbe specchiato l’Arcidemone negli ultimi istanti di vita.
-E’ stato salvato pochi giorni fa nella foresta, scampato da un attacco della Prole Oscura. Lo stavo interrogando sull’accaduto e informando riguardo il nostro ordine-
-Il vostro glorioso ordine-, rimarcò sua maestà, - so che i Dalish sono piuttosto rari tra le vostre schiere, ma sono sicuro che – volse gli occhi castani su di Teras, - anche tu colmerai di gloria la tradizione-
Il dalish si sentì preso in contro piede, ignorava come comportarsi, cosa dire e, per la prima volta, cosa fare.
Infine decise per il silenzio, ma non Duncan, il quale avrebbe voluto prolungare il loro colloquio.
-Credo sia abbastanza, Teras - proferì, a malincuore, il comandante –sono certo che Alistair, il tuo compagno di stanza, e Sasha risponderanno volentieri alle tue domande- e con ciò, intendeva chiudere il discorso, dando per scontato troppe cose: non per avventatezza, quanto per elisione del superfluo, -discuteremo il resto quando sarà opportuno-
-Nel frattempo, ti consiglio di procurarti un’armatura, la battaglia inizierà presto-, suggerì, benevolo, il re il quale ottenne di rimando un’occhiata confusa.
Nemmeno Teras aveva voglia di concludere lì il loro discorso, erano troppi gli interrogativi nati dalla curiosità; ma poi si rassegnò all’idea di lasciare quegli umani da soli, del resto, avrebbe abbandonato anche quel posto molto presto: mai avrebbe dato la propria carne in una battaglia di cui non gli importava!
Casa era la sua unica meta, il clan l’abbraccio che desiderava: sicuramente erano tutti in pensiero e in attesa del suo… del loro ritorno.
Inoltre… inoltre questa volta avrebbe detto la verità a tutti. Oramai era deciso fino in fondo: si sarebbe confessato come lo sciagurato che era stato. Sì! Lo doveva a tutti: al clan, a se stesso e, soprattutto, a Tamlen.
Egli, invero, sperava che la verità gli avrebbe lavato la coscienza e rischiarato, con la sua forte luce, i suoi sensi di colpa. Doveva solo trovare il modo di scappare.

La pioggia scendeva così sottile che sembrava essersi cristallizzata nell’aria; un leggero drappo d’acqua portava odore di muschio e di bosco al naso del re.
Non sembrava essere stato bel tempo quel giorno e, paradossalmente, il brutto era iniziato con le angherie di Teyrn Loghain, le cui gesta meravigliavano il regno da anni. 
-Maestà, perdonatemi se oso dubitare del vostro piano-, disse il cavaliere, senza nascondere il proprio sarcasmo. 
-Oh no, dubitate pure! Farò orecchie da mercante, ma ciò non vi toglie il diritto di esprimervi-, sua maestà si allontanò dalla finestra, tornando a guardare la stanza, -lungi da me il mancarvi di rispetto: in fondo se oggi sono qui, in veste di re, è anche merito vostro oltre che di mio padre-, alluse a re Maric, il quale aveva liberato il Ferelden dagli imbellettati Orlesiani.
-Tuttavia, non capisco cosa di sbagliato possa avere il mio piano: è perfetto-, sentenziò l’arroganza di Cailan, il quale osservava la mappa sul tavolo accarezzando la vittoria, ma prima di essa, l’idea di fronteggiare l’arcidemone. Sollevò una statuina d’ottone raffigurante se stesso: la rigirò tra le dita un paio di volte; la posò sulla mappa,
-Non avete mai nascosto la vostra sfiducia nei Custodi, soprattutto nei Custodi di Orlais-, continuò sua maestà, togliendo la parola al Teyrn.
E il rumore della pioggia entrò per un istante tra quelle mura.
Non era affatto per i Custodi, né per gli Orlesiani, i quali già una volta avevano assaggiato le spade del Ferelden. Semplicemente, Loghain non avrebbe permesso alla boria di un inetto di mandare a morte certa i suoi soldati.
Non avrebbe permesso a Cailan di mandare alla malora il regno che aveva impiegato anni a riconquistare!
Già gli pareva di vederlo, Cailan, inesperto d’armi, avanzare verso il nemico, brandendo una spada più di rappresentanza che di vera utilità; il viso arrossato dalla fatica e i gli occhi infiammati di testardaggine. Con quell’espressione sarebbe caduto sul campo, inesorabilmente, come tutti gli altri.
In realtà, anche se tutte le terre conosciute fossero scese in battaglia al loro fianco, la vittoria sarebbe stata comunque lontana.
-Fronteggeremo un orda di demoni, non umani!-, parlò Loghain.
-Motivo per cui sarà memorabile!-, replicò Cailan, nella piena fiducia delle proprie capacità, -inoltre, è proprio compito dei Custodi combattere la Prole Oscura-
I Custodi Grigi: a detta di molti solo un branco di disperati che millantava eroiche epopee.
-Maestà,- mai quella parola fu così pesante alla lingua del cavaliere. - Stiamo investendo troppe energie in una causa persa: l’Arcidemone non è stato avvistato, segno che l’attacco finale è lungi dall’essere sferrato; mentre questo servirà solo a condannare il morale del regno e la vita dei suoi figli!-
-Non se vinceremo!-, s’impuntò ancora sua maestà.  -Abbiamo un’ottima strategia.-
-Siamo inferiori numericamente, la strategia non basterà!-
-Allora improvviseremo!-, sbottò a quel punto Cailan.  -Ciò non ha impedito alle truppe di mio padre di fronteggiare e sconfiggere il numeroso esercito di Orlais.-
Loghain picchiò un pugno sul tavolo, gli occhi azzurri ostili. Era pronto a controbattere: nulla lasciava intendere il contrario.
Nell’istante, però, in cui Ser Cauthrien rivolse una silenziosa richiesta d’aiuto a Duncan, l’ira di Loghain si era già misteriosamente spenta. La giovane donna, baldanzosa nella propria armatura, tirò un respiro di sollievo quando vide il cavaliere rivolgere un riverente inchino al re. Respiro che però il Teyrin le mozzò non appena uscirono dalla stanza.
-Nessuno distruggerà il mio regno-, disse l’eroe del fiume Dane.

Di certo un Dalish sa come non farsi notare, soprattutto in un luogo in cui non vale nemmeno la pena osservare un elfo: “sono solo servi, andranno a pulire da qualche parte”.

Così Teras aveva raggiunto il muro di cinta; strisciando nell’erba, costeggiando muri, attento ad attutire i propri passi. Del resto, l’arte del nascondersi, dell’agguato, viene imparata molto presto dagli elfi della foresta.
Più difficile non guardare in basso, nel tentativo di scavalcare un muro, nel caso si soffrisse di vertigini; ma la voglia di libertà lo aveva aiutato anche in questo, nonostante la paura gli avesse reciso la sua solita abilità.
Precipitò a terra, dall’altra parte, in un tonfo sordo; masticò una bestemmia in bocca e strinse gli occhi nel dolore della caduta. Si massaggiò la spalla dolente. Il dolore impiegò davvero poco a spegnersi.
L’elfo non badò a quel particolare e iniziò subito a correre.
O meglio, a scappare, poiché di fatto era quello il suo piano. E per la prima volta, forse, stava scappando da se stesso per tornare a se stesso. Giacché si era deciso più che mai a raccontare la verità: i sensi di colpa per la morte dell’amico lo stavano annegando e sperava che raccontare tutto al clan lo avrebbe salvato.
Dunque, non per amore della verità, ma sempre per amor proprio scappava.
Non aveva ben capito cosa i Custodi facessero, tuttavia non sarebbe rimasto a scoprirlo, ancora di più se si stavano preparando ad affrontare una battaglia. Di cosa e per cosa, non gli era ben chiaro: non gli importava, né aveva voglia di chiedere spiegazioni.
Gli era stato detto di aver dormito per tre giorni e tanto era bastato per insospettire un elfo in terra umana.
Perché non lo avevano lasciato morire? Perché era stato portato lì e non dal suo clan?
Continuava a ripeterselo, incespicando in pensieri sempre meno nitidi e sempre più contorti. Anche il suo umore cambiava ad ogni falcata nel terriccio umido di pioggia, i capelli rossi ormai appiccicati in fronte per via dell’umidità e del sudore.
E il cuore gli batteva all’impazzata, nonostante il respiro regolare. Tutti segni della corruzione che ormai gli circolava nelle vene, ma non poteva immaginarlo, giacché, testardo, non aveva voluto saperlo.
Correva dunque, a più non posso, lasciando indietro pezzi dei propri pensieri. Aveva smesso di porsi domande.
Sentiva il vomito gorgogliargli in gola; soffocava nell’aria che a stento riusciva a respirare. A quel punto, Teras arrestò il passo e, nel bel mezzo delle Selve Korcari, si piegò sulle ginocchia, stringendosi una mano al petto.
Sentiva in testa di essere stanco, ma il suo fisico non stava avvertendo nulla; o era il contrario?
E il cuore gli stava scoppiando: Teras sentiva il proprio battito come tamburi da guerra, mentre nello stomaco gli ribolliva la fame che non aveva mai colmato da quando sveglio. Prima che potesse rendersene conto, la bile gli esplose in bocca.
Si accorse di vomitare anche sangue quando un puzzo ferroso gli raggiunse le narici. Rigurgitò l’ultima goccia di dignità e stramazzò al suolo, in una strano limbo di dolore.
Se solo non fosse stato così precipitoso, se soltanto avesse chiesto, avrebbe ottenuto una spiegazione a tutto questo.
Avrebbe saputo, infatti, che la corruzione, grazie al rito dell’Unione gli stava schiumando nel corpo, trasformandolo per sempre. Il suo fisico, eccitato dalla lunga corsa, stava ora rispondendo a quella metamorfosi, per la quale non ci sarebbe stata cura all’infuori della morte.
In quel momento, l’anima dell’elfo si stava legando indissolubilmente a quella della Prole Oscura,  per cui egli ne avrebbe sempre avvertito la presenza, e viceversa.
Il Dalish percepì l’olfatto affinarsi, l’udito acuirsi e il tutto mischiarsi a una pesante angoscia. 
Per tutto il tempo, da quanto era stato sottoposto all’antico rito, era stato in balia di quel processo. Solo ora lo sforzo impiegato nella fuga lo aveva reso più evidente: la sua struttura corporea stava abituandosi a una nuova potenza, sollecitata dalla folle corsa.
Le palpebre diventarono pesanti e tra il sonno e la veglia vide draghi e cadaveri, e si agitò per urla che in realtà non udiva. Credette di vomitare ancora; rigirandosi nella terra, riempì i polmoni di nebbia.
Stava morendo, o forse era già morto. Pensò di levitare, quando qualcuno lo sollevò per le braccia.


*Madre Ailis gli accarezzò distrattamente i capelli biondi con la mano segnata dal tempo, “Sì, hanno vinto. Loghain guidò l’armata a una grande vittoria, decimando le forze orlesiane in modo così pesante che l’Imperatore Florian si rifiutò di inviare dei nuovi rinforzi all’Usurpatore. Perdemmo anche molti dei nostri. Persino tua madre rischiò la vita. Ma fu una giornata memorabile per Ferelden.”
Cailan diede una scorsa al libro posato sulle sue ginocchia, un volume prezioso corredato da molte raffinate illustrazioni,
Fermò la propria attenzione sull’immagine fulgente di re Maric il Salvatore, suo padre: il mantello carminio svolazzava al vento della vittoria e la spada era levata in cielo in un bagliore di fierezza.
Richiuse il tomo e lo ripose con cura nel baule al suo fianco.
All’epoca di quelle illustrazioni suo padre, poco più che ventenne, aveva riunito un grande regno sotto l’egida della Regina Ribella. Le terre verdi di Ferelden erano state concimate con lo stesso sangue che scorreva nelle sue vene. Sangue non solo…

*-…di Calenahd il Grande , ma anche di Moira, la Regina Ribelle, e di Maric il Salvatore.-
Madre Ailis lo osservò per qualche istante, poi allungò la mano e gli scostò i capelli dalla fronte. Non c’erano altri rumori nella biblioteca, se non il sibilo del vento d’autunno dalle finestre.
-Non c’è nulla che tu non possa fare, se ti ci dedichi con tutto te stesso-
Il ragazzo roteò gli occhi e si lasciò scappare un sospiro esasperato. -E’ quel che mi dice sempre…  Non credo che..

-…Sarò mai in gamba quanto lui-, proferì ad alta voce, lo sguardo sulle figure rialzate della copertina del vecchio libro.
Cailan era il Re di Ferelden, ma soltanto “re”: non aveva salvato la sua patria, né era stato un grande.
“Più gloriosi sono stati i tuoi avi, più glorioso dovrà essere il tuo regno”, citazione che lo colpì in volto come uno schiaffo; ce l’aveva sempre in mente, dal giorno in cui l’aveva trovata incisa sulla testata di uno dei tanti volumi regalatogli da sua madre.
E, nolente, gli ritornava alla memoria tutte le volte che, da bambino, guardava suo padre; tutte le volte che, da adulto, leggeva delle sue gesta.
E, volente, Loghain gli ricordava quanto era stato sacrificato, per permettergli di regnare su una terra che non aveva dovuto conquistarsi.
Cailan non era un re in cerca di mera fama, ma dell’affermazione di sé attraverso di essa. Desideroso di dimostrare e di dimostrarsi all’altezza dei propri antenati, non chiedeva altro che fronteggiare il nemico: la Prole Oscura; versare il proprio sangue e mischiarlo, sul campo di battaglia, allo stesso versato da suo padre, da Loghain e da tanti altri che avevano servito la liberazione del Ferelden.
Non era uno sciocco: era ben conscio di quanto sarebbe stato difficile ottenere la vittoria, tuttavia, era forte dei risultati ottenuti dai Cavalieri della Polvere, dai Custodi e dagli altri schieramenti radunatisi contro la Prole nei mesi precedenti.
Non aveva motivo di perdere, perché ci credeva con tutto se stesso. Le sue truppe avrebbero affrontato i demoni nella valle; arcieri e catapulte avrebbero attaccato dall’alto e, infine, quando l’avversario avrebbe iniziato ad accarezzare il trionfo, le truppe di Loghain l’avrebbero circondato e concluso lo scontro a proprio favore.
La stessa strategia usata molte da suo padre e dallo stesso Teyrn, nelle loro rivolte. L’unico a non crederci restava il Teyrn stesso, il quale più volte aveva mostrato un atteggiamento di ambigua stima nei confronti del nuovo re.

*-Se desideri davvero che io rimanga-, cominciò il giovane, alzando lo sguardo verso il compagno, -rimarrò. E se intendi affidarmi la tua armata e fidarti di me fino a questo punto, allora ne sono onorato. Forse non sarò di nobili origini, e non so il valore che può avere per te la mia parola… ma ce l’hai. Sei un mio amico, e il mio Principe: giuro di servirti lealmente-.
Maric deglutì a fatica. –La tua parola vale moltissimo per me, Lo…

-…ghain!-, lo chiamò Ser Cauthrien, con l’intenzione di seguirlo fin dentro la sua tenda; ma il Teyrn non le rispose: oltrepassò il telone dell’entrata con un gesto sprezzante della mano, e sparì alla sua vista.
La donna rimase immobile, chiedendosi cosa fosse giusto fare. Spesso il rispetto per quella figura autorevole frenava l’affetto che lei provava nei suoi confronti. Ancora più spesso, Catherin mortificava i sentimenti che la legavano, segretamente, a quell’uomo. Il quale certamente non ricambiava né avrebbe mai ricambiato, anche se avesse saputo.
Così, Ser Catherin mascherava di rispetto ciò che serbava nel cuore; sempre combattuta tra ciò che la donna in lei avrebbe voluto e ciò che il suo rango le imponeva. Strinse le affusolate dita nel pugno, protetto dalla lastre metalliche dell’armatura; roteò gli occhi grigi.
Lo lasciò solo, com’era dovuto e decoroso fare. 
Loghain sfilò i guanti e li gettò a terra con disprezzo. Con una falcata raggiunse il tavolo e lo spinse con foga fino a che non si arrestò contro un albero, al di là della tenda.
Dire che era furioso sarebbe stato dire poco. 
Quel Cailan non aveva un briciolo del senno di sua madre, la Regina Rowan, e del padre aveva preso la capacità di incaponirsi in imprese folli.
Erano finiti i tempi in cui bastava brandire una spada fino al calar del sole, tempo in cui i nemici si sarebbero ritirati per riposare. Era la fine degli agguati notturni, di quelli che si poteva immaginare come e dove sarebbero stati sferrati.
Il Ferelden prima di ogni cosa, si era sempre fatto promettere Maric.
-Penseresti lo stesso anche oggi? Passeresti sopra tuo figlio, Maric?-, sussurò quel nome come si sussurra una bestemmia, tra la liberazione di averla proferita e il rimorso per averla detta.
C’erano state vittorie, era vero: le altre truppe avevano lottato senza sosta per sconfiggere la Prole, lì dove era apparsa. Ma tutto ciò al prezzo di conoscere le vere abilità di un nemico che mai e poi mai avrebbero avuto la capacità di fronteggiare alla pari.
Almeno non quel tempo.
Loghain aveva ascoltato i racconti dei superstiti, degli eroi, che erano riusciti a narrare di ciò che avevano visto. Ma la fortuna non porta la vittoria, solo un’effimera speranza di salvezza.
Per quelle vittorie, infatti, i guerrieri avevano lottato senza sosta, giorno e notte.
Giorno e notte.
Avevano vinto solo grazie a qualche stregoneria e perché di gran lunga superiori di numero; e tutto questo non era bastato a riportare un trionfo netto su un pugno di carcasse indemoniate!
Appunto, solo fortuna.
Cosa sarebbe accaduto, nell’affrontare la Prole in un vera e propria guerra? Avevano strategia, avevano un buon piano, non abbastanza uomini. Non ancora.
E gli Orlesiani (quei maledetti! Loghain sputò a terra), erano in ritardo sulla tabella di marcia. 
Se poi si fosse aggiunto l’Arcidemone, nemmeno la disfatta avrebbe avuto bocche per essere narrata.

* La strega diede un altro morso con uno scrocchio sonoro e masticò pensosamente, accomodandosi meglio nella sedia a dondolo.
-Le sorti cambiano-, lo sguardo della strega vagò in lontananza. –Un minuto sei innamorata, talmente innamorata che non riesci ad immaginare che possa accadere qualcosa di male, e quello dopo vieni tradita; il tuo amore ti viene strappato come fosse una parte del tuo corpo, e giuri a te stessa che farai qualsiasi cosa, qualsiasi cosa, perché i responsabili paghino-. I suoi occhi si concentrarono su Maric, e la voce divenne dolce, carezzevole.
-A volte la vendetta cambia il mondo. Cosa farà la tua, giovanotto?-
Lui non rispose, guardandola incerto.
Loghain si fece avanti di rabbia. –Lascialo in pace-.
La vecchia si voltò a considerarlo, con uno sguardo divertito. 
-E che mi dici della tua di vendetta? Hai rabbia quanto basta dentro di te, temprata in una lama d’acciaio puro. Mi domando in quale cuore l’affonderai, un giorno-. 

-Signore!-, lo chiamò una voce alle sue spalle.
-Che cosa vuoi?-, Loghain non si prese la briga di voltarsi, osservava, cupo, la superficie della propria scrivania.
Il soldato compì un passo in avanti, porgendo una pergamena.
-E’ giunta questa lettera da parte di vostra figlia, la Regina Anora- 


-Sapete, esiste un termine che ben descrive ciò che avete appena fatto, ma per pudore non lo dico-, trillò l’umano che stava cercando di accendere il fuoco. Si trovavano sotto il porticato dei resti di un’antica fortezza, mentre nelle selve imperversavano la notte e la pioggia ormai copiosa. Sarebbero rimasti al riparo finché la pioggia non avesse cessato di cadere. Teras sbatté le palpebre più volte, cercando di riprendersi da un incubo di cui non ricordava la forma, eccetto un paio di occhi gialli che brillavano come il sole in una notte cupa.
-Chi siete?-, domandò.
-Se volessi vantarmi direi che sono il vostro salvatore e che mi dovete un favore, - lasciò perdere il fuoco, rassegnato, -ma giacché non mi piace vantarmi, potete chiamarmi Alistar-. Si passò una mano sulla zazzera bionda. -Mentre scommetto che voi siete il Dalish che Duncan ha portato con sé,-sbuffò un risolino, -certo che state collezionando un bel po’ di favori da queste parti!-
Il Dalish non raccolse la battuta, sistemandosi a sedere; aveva un terribile sapore in bocca, che tolse bevendo dell’acqua da una borraccia che trovò lì vicino.
-Ma prego, non c’è bisogno di chiedere -lo apostrofò il giovane.
L’elfo si pulì il muso con il dorso della mano, e puntò gli occhi neri su quell’umano dal discutibile sarcasmo.
-Alistar-, ripeté il suo nome, -siete stato voi a trovarmi dunque.-
-La perspicacia non è il vostro forte-, scherzò lo shem, -ma vi perdono, perché onestamente non so come sia riuscito a trovarvi. Sembra che gli alberi di questo posto cambino posizione!-
Teras, di poche parole da quando era stato sbranato nelle rovine, si limitò ad un’occhiata interrogativa.
Il Custode riprese il racconto. -L’ultima volta che sono stato qui-, si trattava, infatti, del luogo in cui lui e i suoi compagni, poco tempo prima, si erano recati alla ricerca degli antichi trattati, -era ad ovest della fortezza, e dal momento che vengo da sud, è quasi impossibile che a metà strada mi sia ritrovato tra queste rovine, non trovate?-
L’altro non rispose, per quel che ne sapeva, dato il suo pessimo senso dell’orientamento, poteva trovarsi in capo al mondo. Tuttavia, si voltò a guardare quanto distante fosse la fortezza che aveva lasciato: non riusciva a scorgerla; non ricordava di aver percorso così tanta strada.
Alistar considerò per un attimo la figura di quell’essere tanto simile a sé eppure così sconosciuto. Non si era mai trovato al cospetto di un Dalish: rimase sorpreso dai suoi lineamenti. Non che avesse mai creduto alle storie riguardanti gli elfi della foresta, raccontate dalla sua gente, ma non si sarebbe mai aspettato di scorgere un volto così aggraziato.
Pareva quasi una donna! Certo, una brutta donna… O almeno, questo era ciò he aveva pensato trovandolo steso a terra.
-Quando vi ho visto, ho creduto di scorgere una fanciulla, e volevo portarvi in salvo. Non sapete che delusione quando mi sono accorto che in realtà eravate un uomo; ma dato che avete la faccia simpatica, ho deciso infine di aiutarvi-, spiattellò, nella sua solita parlantina.
Teras lo guardò sconcertato, il labbro superiore arricciato in una smorfia di disgusto.
-Sapete che potreste essere considerato come un disertore?-, lo ammonì il Custode, questa volta serio. -I Custodi non possono allontanarsi senza permesso.-
-Quindi mi ucciderete per questo?-, domandò, allora, l’elfo. Gli umani avevano ucciso elfi per molto meno. Avrebbe voluto mentire, ma riflettendoci, cosa avrebbe potuto inventare? Infatti, avrebbe potuto azzardare dicendo che qualcuno lo aveva mandato tra quelle selve, già... ma in cerca di che? E poi, chi aveva deciso di inviarlo lì? E quel Custode sicuramente conosceva  i nomi di coloro che erano al campo. Né avrebbe potuto spiegare di come Duncan il generale lo aveva mandato in perlustrazione, magari a cercare proprio quell'Alistar... già perché se poi quell'Alistar avesse chiesto qualcosa a qualcuno, come l'avrebbe messa Teras? Avrebbe perso la facoltà di raccontare future bugie, giacché nessuno avrebbe più creduto alle sue parole. Bel problema  sarebbe stato... avrebbe dovuto dire la verità, dunque. Avrebbe dovuto spiegare di essere scappato. O comunque lasciar intendere qualcosa del genere.
Alistar, del canto suo, si trovò invece a studiare la situazione in cui era venuto a trovarsi: non avrebbe voluto sovvertire il regolamento, ma qualcosa gli stava suggerendo non tanto rigore, quanto comprensione. Quel ragazzo non era un semplice elfo, bensì un Dalish. Un essere della foresta non avvezzo alle usanze umane, alla legge e alla buona creanza in generale.
Inoltre, era logico che, spaurito, avesse tentato di allontanarsi dagli umani. Duncan gli aveva raccontato la sua storia: sopravvissuto alla Prole, orfano di origini e di famiglia, giacché tutti morti per mano degli stessi demoni che avevano sbrindellato la sua carne.
Inoltre, uccidere un Dalish… Si sentiva sempre in imbarazzo a prendere decisioni che riguardassero gli elfi, essendo al corrente degli antichi asti.
Pensò ancora alcuni istanti, prima di proferire:  -La paura e la disperazione portano a fare grandi sciocchezze. E’ la vostra prima volta tra gli umani, non dirò nulla-, sentì di aver preso la decisione giusta.
La stessa sensazione l’aveva pervaso quando aveva deciso di caricarlo in spalla e portarlo con sé. Era stato tutto terribilmente automatico che nemmeno si era soffermato a pensarci su. 
Non immaginava che altri avessero mosso il suo cammino verso il Dalish. Flemeth , la strega delle Selve, aveva infatti deciso che quello era il momento per far sì che l’elfo e l’umano legassero. La battaglia, dopotutto, era vicina ed era necessario che Alistar diventasse amico di Teras al punto da sceglierlo al suo fianco, quando sarebbe stato opportuno; e che Teras si fidasse di Alistar al punto da seguirlo e proteggerlo.
Né sapeva che Teras era più avvezzo agli umani di quanto credesse, ma il Dalish si sfiorò la Vallaslin in fronte e non lo corresse.
-Stavo cercando di tornare a casa, - confessò, dunque l’elfo, d'accordo con i propri propositi.

-E se pensate che resterò qui a combattere, al fianco di voi shem, vi sbagliate: fuggirò di nuovo.-
-Allora perché siete ancora qui?-
-Aspetto il momento giusto, per uccidervi e riprendere il mio cammino.-
Alistar si rivolse a lui divertito. -Ne avete davvero l’energia?-
No. Sarebbe stata la giusta replica. -Il mio clan mi starà cercando, non posso restare-, disse, invece, l’elfo, ancora all’oscuro riguardo la sorte della propria gente.
Quell’affermazione colpì Alistar, il quale aveva creduto, come anche Duncan prima di lui, che quell’elfo sapesse che la sua famiglia era stata sterminata dalla Prole Oscura. Si chiese, allora, come si fossero svolti i fatti, lì dove Duncan lo aveva trovato. -Il vostro… clan?-, domandò, quasi retoricamente; ma in un istante si accorse di non avere il cuore di raccontargli come erano andate le cose. -Ah… mi dispiace, ma adesso non potete raggiungerli-
-Perché, no? Sarete voi ad impedirmelo?-
-Beh, nelle vostre condizioni non potete nemmeno permettervi di impedire a me di impedirvelo!-
-Siete davvero pieno di spirito-, lo canzonò l’elfo, riferendosi all’infelice battuta; studiava lo scempio di focolare che Alistar aveva tentato invano di far ardere, non guardò l’umano negli occhi.
-Scommetto che Duncan vi avrà spiegato cosa vuol dire essere un Custode, e cosa rappresenta. Volete davvero abbandonare tutto questo?-
In realtà, non gli era stato spiegato nulla. -So solo che mi sono ritrovato a vomitare il mio stesso sangue e ancora adesso fatico a respirare, cosa mi avete fatto?-, domandò Teras, senza nascondere il proprio astio.
-Non vi è stato fatto nulla che non sia servito a salvarvi la vita; ed anzi, dovreste essere grato a Duncan, se adesso vi trovate qui!-, rimbeccò Alistar.
-Grato? Dovrei essere grato?-, si agitò e tossì leggermente, ritrovandosi sul palmo ancora alcune gocce di sangue; sputò. -Non riesco a sentire il mio corpo, prima ho creduto di morire come quando…-
Come quando era riuscito a raggiungere l’esterno delle rovine, mentre quei demoni erano occupati a sbranare Tamlen.
-In cosa consiste, essere un Custode?-, chiese, infine, rassegnato: il ricordo dell’amico lo portò a trovare un argomento di conversazione che lo distraesse dal proprio dolore.
Allora Alistar gli spiegò tutto; gli parlò della corruzione, della Prole Oscura e dell’Arcidemone. Rispose ad altre domande e chiarì altrettanti dubbi.
E più Teras sentiva quell’umano parlare, più l’idea della redenzione prendeva forme che non comprendessero il ritorno a casa, non ancora. Sentì, in cuor suo, che poteva trovare la strada per diventare sul serio colui che il clan credeva che fosse. Aiutare gli umani; cercare di aiutare qualcuno avrebbe in qualche modo appianato i suoi sensi di colpa e gli avrebbe anche evitato di confessarsi, perché sarebbe diventato ciò che gli altri vedevano: un eroe.
In realtà, qualcos’altro gli stava impedendo di riprendere la via di casa. Una forza sconosciuta si stava impadronendo del suo giudizio, convincendolo a restare.
Qualcun altro stava scegliendo al posto suo. 
Qualcun altro aveva già scelto per tutti.

-Non è ancora tempo di conoscere la verità, mio caro-, Flemeth sfiorò con la mano la superficie dello stagno, e aiutandosi con un bastone si levò da terra, mentre la sua premonizione svaniva nel fondo. -La saprai quando nell’inseguirla avrai qualcosa da perdere. -

 



*Queste parti sono state prese dal libro “Dragon Age: Il trono usurpato”
di David Gaider..

Ringrazio tutti coloro che passano di qui e che leggono :) se volete, lasciate pure un commento, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate ^-^
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Dragon Age / Vai alla pagina dell'autore: sese87