Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: I n o r i    02/09/2012    2 recensioni
"Non capì cosa la portò a fidarsi di lui, a quel tempo. Quella persona avrebbe veramente potuto essere un assassino satanico desideroso di farla a pezzettini, eppure lo seguì con decisione fino a che non raggiunsero le fine del bosco. In mezzo a tutto quel buio, le bastò continuare a sentire il calore di quella mano, per sentirsi più tranquilla."
----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Judith ha solamente sedici anni quando si trasferisce a casa del padre, a Buldwick: un paesino estraniato dal resto del mondo, piccolo, dove tutti conoscono tutti. Per quanto possa pensare il contrario, è un'adolescente come tutte le altre: crede di sapere tutto di sé, di conoscere perfettamente se stessa. Ed è convinta di potercela fare benissimo con le sue sole forze in qualsiasi situazione: perché Judith è forte e non si lascia trasportare dai sentimenti come tutte le ragazzine della sua età.
Ma, come in ogni altra banale storia d'amore, tutte le sue convinzioni vengono abbattute nel momento in cui incontra lui, Nathan.
Un lago ad accomunarli, una strana luce che spingerà Judith ad avvicinarsi sempre di più a quel ragazzino così strano e misterioso...ed una leggenda, la leggenda della Divinità del lago di Buldwick.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Lì, rannicchiata nel suo letto, sotto le calde coperte che l'avvolgevano proteggendola da ogni contatto col mondo esterno, Judith si malediceva con tutta se stessa per non aver accettato l'aiuto di Norah, qualche giorno prima.

La sua stupidità l'aveva solo portata a prendersi una bel febbrone, uno di quelli che ti tiene a casa una settimana, che non ti fa dormire la notte per il senso di nausea e che ti fa girare la testa ogni volta che provi ad alzarti. Anche in quel momento, poggiando i piedi sul pavimento e provando ad mettersi in piedi, sentì un forte capogiro e il corpo pesarle come un macigno.

Sarebbe stata più felice se fosse direttamente svenuta e se si fosse risvegliata in un altro posto, in un altro mondo. In un'altra vita.

Ricordava che, quando da piccola si ammalava in un modo simile, sua madre non le toglieva mai gli occhi di dosso, neanche per un secondo. Restava accanto a lei perfino tutta la notte, se necessario.

In effetti, sua madre era sempre stata una donna fuori dal comune: invece delle fiabe di principesse e streghe maligne, quando Judith non riusciva a dormire, le raccontata dei suoi amori passati o della sua gioventù.

La piccola Judith avrebbe tanto voluto diventare come la sua mamma, quando sarebbe stata più grande: una donna amorevole e felice, con il sorriso sempre stampato sulla faccia, una persona che non si faceva mai abbattere da niente e da nessuno, bellissima e corteggiata da molti uomini, ma che amava solamente il suo papà.

Questa era l'idea che la bambina più casinista e piagnucolona del quartiere in cui viveva insieme ai suoi genitori, si era fatta della donna che l'aveva messa al mondo.

Cazzate. Tutte cazzate.

 

Fu costretta ad alzarsi, a malincuore, quando sentì il campanello suonare insistente. Suo padre era a lavoro, come al solito, e sarebbe tornato entro l'ora di cena.

Sfortunatamente, erano ancora le quattro del pomeriggio e non avrebbe potuto fare affidamento su di lui neanche questa volta. Ma le andava bene così.

Si diresse alla porta trascinandosi lentamente lungo il corridoio, mettendo un piede difronte all'altro quasi a fatica. Dette un'occhiata fugace allo specchio appeso alla parete, prima di aprire la porta di casa: era orribile. Aveva un aspetto inguardabile, si sarebbe schifata se avesse visto in giro una persona messa come lei in quel momento: aveva una bella ragnatela di capelli arruffati sulla testa, un brufolo proprio in mezzo alla fronte e gli occhi arrossati, per non contare il pallore sconcertante della sua pelle.

Sospirò, tirandosi su il cappuccio della tuta da ginnastica che indossava per stare a casa, e quando aprì la porta fu accecata dalla luce del sole, così intensa e lucente che dovette coprirsi gli occhi con una mano per riuscire a vedere la persona difronte a lei.

Le si presentarono difronte dei lunghi capelli neri, lisci e lucenti, che contornavano un piccolo faccino e ricadevano su un corpicino minuto. Non le ci volle molto per collegare quelle fattezze all'unica persona che avrebbe potuto raggiungerla a casa, lì a Buldwick: Norah.

<< Chi era quella con il corpo forte, che non si ammala facilmente? >> Ironizzò quest'ultima, citando le parole dette da Judith pochi giorni prima.

Sul volto della bionda si disegnò un'espressione stupita, ma non infastidita come aveva creduto di vedere Norah. Sembrava solamente sorpresa della sua presenza, evidentemente inaspettata.

<< Nichols? >> La richiamò, passandogli una mano davanti al viso per attirare l'attenzione su di sé.

Judith le sorrise flebilmente, sospirando di rassegnazione: perché Norah era lì, in quel momento? Dopo il modo distaccato in cui l'aveva trattata, dopo l'evidente fastidio che le aveva dimostrato nel sentirla sempre interessata a stare in sua compagnia...cosa aveva di speciale, lei, per ricevere delle attenzioni da una persona così dolce?

<< Entra. >> Sussurrò, abbassando lo sguardo per non far notare il sincero sorriso che si era venuto a creare sul suo volto.

La piccoletta non se lo fece ripetere due volte ed entrò saltellando, osservando attentamente ogni più piccolo dettaglio del corridoio in cui si trovavano, curiosa e impicciona come era sempre stata.

Judith la prese per mano e la trascinò in quella che doveva essere la cucina, lasciandola basita a quel gesto: che la sua stupida Nichols si stesse pian piano lasciando andare, nei suoi confronti?

Perseverare, perseverare sempre!, si ripeté Norah nella sua testolina, sedendosi su una sedia del tavolo di legno posto in mezzo alla cucina.

<< Non hai un bell'aspetto. >> Esclamò, mentre la vedeva porgerle un bicchiere d'aranciata.

<< Lo so, lo so. Grazie per avermelo ricordato! >> Rispose Judith a tono, ridacchiando fra sé e sé. Quella ragazzina era incorreggibile!

L'altra ghignò e poggiò sulla superficie del tavolo una busta, che Judith aprì appena si mise a sedere a sua volta: conteneva un quaderno che, cominciando a sfgliarlo, constatò essere di letteratura inglese.

<< La Collins ha detto che qualcuno avrebbe dovuto farti avere gli appunti degli ultimi giorni, ed io mi sono offerta volontaria per portarteli. >> Precisò la mora, nel vedere lo sguardo confuso della compagna.

Judith tentò per un attimo d'immaginarsi la scena: la professoressa che diceva agli studenti che facevano letteratura inglese con lei, di portare a Judith Nichols gli appunti dei giorni in cui era stata assente, e loro -ovviamente, dato che era andata a scuola per soli due giorni- ignari perfino di chi potesse essere la ragazza in questione.

<< Grazie. >> Rispose all'unica che si era ricordata della sua esistenza, riservandole un sorriso appena accennato e stringendo il quaderno fra le mani.

Norah intanto era intenta a gustarsi il succo d'arancia, incurante di essersi macchiata la maglia con qualche goccia di liquido.

Che pasticcio di ragazza!, esclamò la bionda, dentro la sua testa.

L'altra le lanciò un'occhiata divertita. << Vedi cosa succede a non ascoltarmi? Ti sei ammalata e sei rimasta a casa per più di quattro giorni. Lo dicevo io, che sei una scema. >>

Judith, a quelle parole, spalancò la bocca e aggrottò le sopracciglia, per poi iniziare a ridere fragorosamente: era la febbre. Si, era sicuramente colpa della febbre se le parole di Norah le erano apparse divertenti.

Insomma, le stava dando della scema e lei era scoppiata a ridere?

In compenso, si dovette fermare per il dolore pulsante alla testa, e quando rialzò lo sguardo sulla persona seduta difronte a lei, la trovò con gli occhi spalancati e la mascella serrata.

<< Che c'è? >> Le chiese, asciugandosi qualche lacrimuccia scesa dai suoi occhi per il troppo ridere.

Norah deglutì ed esitò qualche secondo, prima di rispondere. << È la prima volta che ridi. Sei spaventosa, hai una risata malefica! >> Esclamò, puntandole un dito contro.

Judith inarcò un sopracciglio e per poco non le andrò di traverso quel poco di succo d'arancia che aveva bevuto dal bicchiere di Norah.

Va bene che non aveva un aspetto meraviglioso in quel momento, ma non che facesse addirittura paura!

Suo malgrado, però, non riuscì a trattenere un'altra risatina a quelle parole. Che situazione stupida, se fosse stata lucida non si sarebbe di certo divertita così tanto. Non se lo sarebbe permesso.

A Norah, comunque, non dispiaceva per niente vedere la sua Nichols così spontanea e sorridente quel giorno, quindi si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo: se non fosse stata accolta in modo carino neanche quella volta, avrebbe cominciato a pensare davvero che Judith la detestasse veramente, anche se qualche giorno prima le era stato detto il contrario.

<< Ah! >> Attirò poi l'attenzione della bionda, come se si fosse ricordata di qualcosa di vitale importanza. << Sei invitata alla mia festa di compleanno, domani! Dopotutto è Domenica, credo che tu non abbia niente da fare, no? >> Esclamò pimpante ed esageratamente eccitata.

Judith tornò irrimediabilmente più seria e composta.

Parlando sinceramente, avrebbe tanto voluto evitare, lei non era portata per le feste e si sarebbe sentita sicuramente a disagio. Ma gli occhioni scuri di Norah, in quel momento, la stavano guardando in un modo così tenero e supplichevole che non poté fare a meno di farsi sfuggire un sorrisino, piccolo piccolo.

<< Ma non conosco nessuno... >> Sussurrò, tentando di dissuaderla.

Non era brava a fare amicizia e non li voleva neanche gli amici, lì a Buldwick.

Però, quei quattro giorni trascorsi in completa solitudine nella sua cameretta, non erano stati un granché. No, proprio per niente.

A Bristol sarebbe stato tutto più facile.

<< Appunto! Sarà un'occasione per conoscere un po' di gente, almeno qualche tuo compagno di scuola. >> Continuò la mora, facendo intendere che non avrebbe mollato la presa molto facilmente.

E Judith, quel giorno, non aveva proprio voglia di continuare a fare la sostenuta e la diffidente per i motivi illogici per cui aveva cominciato a comportarsi in quel modo, da quando era arrivata a Buldwick. Lei non era così, ed era stanca.

Per quanto potesse fingere che le andasse bene tutto questo, non era per niente vero.

Dentro di sé si sentiva scoppiare.

Avrebbe voluto urlare.

Sospirò e puntò nuovamente gli occhi in quelli di Norah, trovandovi soltanto la speranza che accettasse la sua proposta. Perché diavolo ci teneva così tanto?!

Improvvisamente, piombò nel silenzio che si era creato il rumore della suoneria di un telefono. Norah sussultò e tirò fuori dalla tasca dei pantaloni il suo cellulare nero, per poi portarselo all'orecchio dopo aver fatto una faccia stufata alla vista del nome comparso sulla schermo: Mamma.

<< Che vuoi? >> Chiese con un tono che Judith non aveva mai sentito da parte di Norah, neanche qualche giorno prima quando aveva bisticciato con Amanda.

Seguirono un paio di sbuffi e dopo qualche secondo riattaccò la chiamata.

<< Era mia madre, devo tornare a casa per badare a quello stupido di mio fratello mentre lei è a lavoro. Come se non potesse pensarci Amanda, una volta ogni tanto! >> Irritata, si alzò dalla sedia e si stiracchiò a dovere.

Judith si alzò a sua volta e annuì, per poi accompagnarla alla porta seguendo il passo veloce di Norah.

<< Beh, allora ti vengo a prendere domani alle 19.30! Non dimenticarlo, mi raccomando! >> E così, presa dall'euforia dei suoi stessi pensieri, si avviò correndo fuori dalla porta, non lasciando a Judith neanche il tempo di ribattere.

Quest'ultima gridò un “aspetta!”, tossendo per il mal di gola, ma l'altra non la sentì nemmeno, oppure fece solo finta di non sentirla.

Sospirando si richiuse la porta alle spalle, domandandosi se per il giorno dopo si sarebbe sentita almeno un pochino meglio, dato che era stata praticamente obbligata a partecipare a quella festa, e di certo non poteva andarci malaticcia com'era in quel momento.

Che palle.

Ma i suoi pensieri erano contrastanti rispetto alle sue azioni, dato che, guardando il quaderno che ancora stringeva fra le mani, un sorriso le si dipinse sulla faccia.

 


 

Mark uscì dal negozio e abbassò la saracinesca, dando un'occhiata al cielo che si estendeva sopra la sua testa: il sole era ormai calato ed entro poco sarebbe scomparso per dare spazio alla tonalità bluastra della sera, un colore che preannunciava l'arrivo della notte e sanciva la fine del giorno.

Adorava quel momento della giornata: era calmo e tranquillo, e lui era cosciente che fra non più di una decina di minuti si sarebbe ritrovato immerso nella sua vasca, intento a farsi un bel bagno caldo per scrollarsi dalla mente brutti pensieri e dal corpo le fatiche del lavoro.

Era anche preoccupato per la situazione di Judith: erano ben quattro giorni che se ne stava in camera sua, ne usciva solo per mangiare e per andare al bagno.

Nessuno era andata a trovarla, pur sapendo che fosse malata, dato che aveva avvertito lui stesso la scuola. Possibile che non si fosse fatta neanche un amico? Anche se aveva frequentato le lezioni solamente per pochi giorni, avrebbe dovuto fare la conoscenza almeno di qualcuno.

Ma, forse, si stava solamente preoccupando inutilmente.

Si avviò così verso la macchina, impaziente di raggiungere casa sua, ma qualcosa -o meglio, qualcuno- ostacolò i suoi piani di non pensare a lei, almeno per quel giorno.

Una chioma di capelli rossicci si confuse col cielo colorato dal tramonto, e degli occhi scuri come la pece si puntarono su quelli di Mark, che continuò a fissare rapito la figura della donna comparsa in quel momento difronte a lui.

<< Elisabeth... >>

Al suono del suo nome pronunciato da quella voce, la donna si avvicinò di qualche passo, piegando le labbra carnose in un grande sorriso.

<< È un po' che non ci vediamo, Mark. >> Disse lei, sentendolo avvicinarsi a sua volta.

<< Come stai? >> La voce di Mark era dolce, come lo era sempre stata. O almeno, con lei.

<< Me la cavo. >> Ridacchiò e cominciò ad avviarsi, seguendo l'uomo, verso la macchina di quest'ultimo. << E tu? >>

<< Non c'è male. Sai, da quando è arrivata mia figlia le cose sono più complicate, ma sono felice. >> Affermò, poggiandosi al cofano dell'auto, mentre lei rimaneva dritta, con la sua postura elegante e composta.

<< Oh, l'ho conosciuta! Frequenta le mie lezioni, è davvero molto bella. >>

Mark sostituì l'espressione leggermente stupita, nel ricordarsi che Elisabeth era davvero un'insegnante, con una un po' più soddisfatta.

<< Ha preso tutto dal padre. >> Ironizzò, sporgendosi un po' più avanti, più vicino al corpo della donna, illuminato dalla luce del tramonto.

Quella sorrise, lasciandosi sfuggire uno sbuffo divertito. << È vero. >> Rispose poi, alzando lo sguardo basso sul viso di lui, che in quel momento, invece, apparì quasi fiero di quel riconoscimento.

I loro occhi si soffermarono qualche attimo gli uni in quelli dell'altro, quasi pensando che, terminato quel contatto visivo, tutto quel dialogare normalmente e senza problemi sarebbe cessato, lasciando spazio ad argomenti più spinosi per i loro cuori e le loro menti.

Mark si chiese quanto tempo ci volesse, precisamente, per dimenticare una persona, per lasciarla andare e per ripulire il cuore dai segni lasciati da essa. A lui, in momento in cui avrebbe potuto affermare di essere riuscito in tale impresa, sembrava dannatamente lontano.

<< T-ti va se... >> Deglutì, indicando con un movimento del capo l'auto su cui era poggiato. << ...se andiamo a mangiare qualcosa? >>

Elisabeth tornò a guardarlo, mordendosi il labbro inferiore e tentennando sulla sua decisione. Infine sorrise, rassegnata: se fosse stata una persona più coraggiosa e più sincera con i suoi sentimenti, avrebbe sicuramente accettato.

<< Mi dispiace, ma stavo tornando a casa. Sai, sono stanca dopo una giornata di lavoro. Facciamo un'altra volta? >>

<< Oh, certo. Anche io sarei dovuto tornare a casa da Judith, comunque. >> Rispose senza esitare l'uomo, abbassando lo sguardo e strusciandosi le mani sudate contro i jeans vecchi e malridotti che portava quando era al negozio, impacciato.

Sapeva che sarebbe andata così, ma, purtroppo, era sempre stato un tipo testardo.

<< Allora...ci vediamo. >> Sentenziò, rivolgendole un ultimo sguardo amorevole e rifugiandosi all'interno della sua macchina, desideroso più che mai di uscire da quella situazione tremenda per entrambi.

Elisabeth, quando lui mise in moto e la macchina cominciò ad accelerare, facendosi sempre più lontana, si lasciò cadere le braccia, che teneva strette al petto, lungo i fianchi. Un sospirò riecheggiò nel vialetto in cui si trovava, prima che iniziasse a camminare verso il suo piccolo ma modesto appartamento.

L'unico rumore che si percepiva era il suono dei suoi tacchi -quelli più bassi che aveva- che toccavano il cemento della strada ad ogni suo passo, ognuno dei quali l'allontanava sempre di più da Mark, e la portava inevitabilmente alla sua solita noiosa e sciatta vita, che non aveva ancora il coraggio di cambiare una volta per tutte.

Era stufa di tutto: di sé stessa, soprattutto. Ma non abbastanza da lasciarsi andare in modo definitivo a quella che sarebbe potuta essere una buona occasione per essere davvero felice, dopo tanto tempo.

Tirò fuori le chiavi dalla borsa alla vista della sua abitazione, ma si fermò di scatto nel vedere qualcosa di decisamente più importante di tutto ciò a cui stava pensando.

<< Che ci fai qui?! >> Si avvicinò a passo spedito verso la fonte dei problemi che l'avevano investita in quell'ultimo periodo, e lui si fece a sua volta più vicino.

Le sembrava la stessa situazione vissuta con Mark qualche minuto prima. Ma lui non era Mark, decisamente non era l'uomo a cui non aveva il coraggio di donare il suo amore, come se fosse un bene prezioso che aveva riservato solo ad una persona, in tutti i suoi trentacinque anni di vita. Una persona che, oramai, non c'era più.

<< Voglio finire quello che avevamo cominciato qualche giorno fa, ma che tu hai interrotto bruscamente. Mi hai fatto soffrire quando mi hai allontanato da te, sai Elisabeth? >>

Lei, vedendolo avvicinarsi, schivò il suo viso e lo sorpassò, dirigendosi verso la porta di casa.

<< Io non sono Elisabeth, per te. Io sono la professoressa Collins, Nathan. >>

Ormai sul ciglio della porta, dopo quella frase, si sentì raggiungere dal ragazzo in questione, e quando voltò lo sguardo verso di lui, lo vide scuotere la testa e guardarla malamente.

<< Una semplice professoressa non si lascia baciare da un suo alunno! >> Gridò, irritato dal suo ennesimo rifiuto.

Lei sussultò e si guardò attorno spaventata, con la paura che qualcuno potesse aver sentito ciò che Nathan aveva appena detto.

Poi tornò con lo sguardo su di lui, incrociando le braccia al petto.

<< Ho sbagliato. Quello è stato un gravissimo errore. Hai ragione: una professoressa non dovrebbe lasciarsi baciare da un suo alunno. Ed è quello che ho fatto, dato che mi sono distaccata subito dopo aver capito cosa stava accadendo. >> Scandì quelle parole con una decisione che Nathan non fu in grado di accettare, visto il modo in cui poi afferrò il polso della donna, la quale con un gesto fulmineo si distaccò da quella presa.

<< Non farlo mai più. Non venire mai più fin qui e non provare ad avvicinarti nuovamente più del dovuto. Io sono la tua insegnate, Nathan. >> Ribadì, con uno sguardo che non ammetteva repliche, quasi arrabbiato. E lui si sentì sopraffare dalla frustrazione.

<< Tu volevi quel bacio, io lo so! >> Questa volta, nel gridare, cercò di risultare meno eccessivo, ma l'occhiataccia che gli lanciò Elisabeth non era delle migliori.

<< Non sai di cosa stai parlando. Per favore... >> Il suo tono era quasi supplichevole, amareggiato. Gli prese le mani fra le sue e e gli riservò uno sguardo rassegnato. << Non insistere ancora. >>

Nathan allentò la presa dalle sue mani, che aveva stretto non appena aveva percepito quel contatto, e si allontanò di un passo, scuotendo più volte la testa.

Non voleva vedere quello sguardo triste e abbattuto sul viso di Elisabeth, che era così bello e delicato. Non per colpa sua.

Così, senza dire una parola in più, si allontanò passo dopo passo, con lo sguardo basso e le mani in tasca.

Elisabeth, vedendolo sparire definitivamente dalla sua vista quando ebbe svoltato l'angolo del viale, si lasciò cadere sullo scalino di cemento davanti alla porta di casa, prendendosi la testa fra le mani e sospirando pesantemente.

Una donna della sua età, ormai matura, avrebbe dovuto comportarsi nel modo fermo e deciso che aveva utilizzato poco prima fin dall'inizio, invece di farsi imbambolare dalla dolcezza dimostratole da un ragazzino che aveva confuso la compassione che provava nei confronti della sua insegnante con dei presunti sentimenti d'amore.

Il tramonto si era ormai concluso e il cielo stava cominciando a scurirsi, si poteva osservare già qualche stella, piccola ma abbastanza luminosa.

Elisabeth si lasciò scappare un sorriso, alla vista di quel manto di un colore non troppo scuro ma neanche troppo chiaro, soffermando lo sguardo su un puntino in mezzo a quel cielo che tanto amava. Si chiese se suo marito la stesse osservando, in quel momento, e se le fosse ancora vicino come le aveva promesso che sarebbe stato, prima di andarsene per sempre.

 

 

 

 

 

 

 

-Angolo autrice-

Bene, bene, bene.

Innanzitutto mi scuso per il ritardo con cui ho pubblicato questo quarto capitolo, ma l'ispirazione sembrava avermi momentaneamente abbandonato. Poi è tornata stanotte e mi ha fatto stare sveglia fino alle cinque di mattina, ma quella è un'altra storia :'D

Uhm, che dire su questo capitolo...non è che mi piaccia un granché, ma ormai mi rassegno all'idea che non sarò mai totalmente soddisfatta dei miei scritti.

Forse perché l'ho scritto con la fretta, soprattutto la parte finale. Beh, ormai è andata così.

Adesso non so se mi starete più odiando per quello che sto facendo capitare in questa storia o perché non ci avete capito un fico secco, visto il mio modo di scrivere alquanto confusionario, a parer mio.

Comunque, riassumendo: si, avete proprio capito bene, la persona che Judith ha visto mentre si baciava con Nathan nel capitolo scorso è la professoressa Collins.

Che, tra l'altro, ha anche a che fare con Mark, se lo avete notato.

Finalmente la storia si sta facendo un po' più movimentata, so che i capitoli precedenti sono stati un po' noiosetti D:

Anyway...spero che anche questo capitolo vi sia piaciuto e che mi farete sapere cosa ne pensate, ci terrei molto a leggere qualche vostra opinione.

Un bacio e alla prossima <3

  
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: I n o r i