Fanfic su artisti musicali > Beatles
Segui la storia  |       
Autore: BohemianScaramouche    04/09/2012    6 recensioni
“Allora? Come è iniziato tutto?”
“Vuoi sapere tutta la storia?” le chiedo, prendendo un altro sorso di tè.
Annuisce violentemente, a momenti ho paura che le si stacchi la testa.
Mi mordo le labbra. Raccontarle proprio tutto? Ma sì, infondo è grande ormai…
“Tutto iniziò nell’agosto del 1958, quando mi trasferii a Liverpool dalla mia città natale di Southport…”
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

A "BRAND NEW" HOME






02 agosto 1958



Tirai una boccata di fumo dalla mia sigaretta. Ero stesa sul cofano della macchina di mio padre ad osservare il cielo pomeridiano e nuvoloso di Liverpool, un cielo che minacciava un bel temporale estivo.
Ero convinta che scrutandolo meglio avrei notato la differenza fra questo cielo e quello che ricopriva la volta di Southport, la città dove ero nata e cresciuta fino a quel pomeriggio di inizio agosto del ’58. Purtroppo i due cieli erano identici. Uno stesso cielo che ricopre due vite diverse, due vite diverse di una stessa persona.
E la persona tirata in ballo nel mio ragionamento era la sottoscritta. Stavo iniziando un nuovo capitolo della mia vita in una città diversa da dove si erano svolti gli altri inizi di capitolo, indi per cui questa volta il cambiamento sarebbe stato radicale, me lo sentivo.
Accidenti, anche l’aria era simile: lo stesso odore salmastro delle città portuali. Tuttavia Southport era una cittadina di poco più di 80.000 abitanti, mentre Liverpool, che è il capoluogo del Merseyside, ne contava circa 700.000, quindi l’odore manteneva qualche differenza.
Soffiai fuori tutto il fumo e buttai la sigaretta. Poi scesi dalla macchina e schiacciai il mozzicone con il piede. Anche il terreno era uguale, ma era così estraneo sotto il mio passo! Mi guardai attorno: un viale ricco di case della ‘middle class’ liverpooliana, diviso in mezzo alla strada da una fila di alberi di cui non sapevo il nome.
Mi venne voglia di un’altra sigaretta, ma, non avendone a portata di mano, mi accontentai dell’unghia del mio mignolo. La addentai voracemente, osservando un merlo dal becco giallo e dal piumaggio nero lucente che volò dalla cima di un albero all’erba del mio nuovo giardino. Lasciai perdere la mia unghia, catturata dalla visione di quel guizzo nero. Il merlo mi guardava con un’espressione interrogativa, del genere : ‘E tu chi cazzo sei?’. Mi avvicinai, ma a due passi dalla creatura, il merlo di dileguò battendo le ali.
Non so quanto tempo rimasi a contemplare lo spazio prima occupato dall’uccello, ma dopo poco sentii la voce di mia sorella Susan chiamarmi spazientita: “Jo! Vuoi deciderti ad entrare? Il cielo minaccia un temporale e tu non hai ancora mosso un dito per aiutarci! Vieni immediatamente!”
“Agli ordini, madame!” risposi filando in casa.
Non feci in tempo ad entrare che la prima goccia di pioggia cadde sulla punta del mio naso, facendomelo torcere di disappunto. Chissà perché, ogni volta che inizia a piovere, le perfide gocce puntano subito alla punta del mio adorabile nasino. Con questo pensiero entrai in casa, chiudendomi la bella porta di legno di noce alle spalle.
Una visione di scatoloni diede il benvenuto al mio sguardo. Alcuni contenitori erano già aperti, ed il loro contenuto era già disposto all’interno della casa, mentre altri erano ancora sigillati con lo scotch. In realtà gli scatoloni non erano poi tanti, se si considera che avevamo trasportato tre vite da una casa all’altra. Trasloco.
La verità è semplice da spiegare, ma mi costerà l’apertura di una piccola parentesi.
 
Mio padre,Edward Page, nato e cresciuto a Liverpool da Arthur e Charlotte Page, all’età di ventidue anni, dopo una breve gita a Southport, si innamorò di una certa Jacqueline Shaw, detta ‘Jackie’, che sposò prima della guerra (la seconda guerra mondiale, si intende). Subito dopo le nozze si trasferì definitivamente a Southport, dove iniziò la sua carriera di insegnante di letteratura inglese e dove cominciò a mettere su famiglia.
Nel frattempo suo padre, ovvero mio nonno Artie, non riuscì ad arrivare vivo alla fine della guerra, morendo durante un raid nell’autunno del 1940. Così mia nonna, rimasta sola a Liverpool, decise, in seguito alla, come dire…, ‘scomparsa’ di mia madre, avvenuta nel 1952, di trasferirsi a Southport da figlio e nipoti, per poter essere di aiuto nella strana situazione familiare che si era andata a creare.
Purtroppo sei anni più tardi mia nonna morì. Lasciò tutta l’eredità al suo unico figlio Edward e tale eredità comprendeva per l’appunto anche la casa di Liverpool dove era cresciuto mio padre, abitazione che lei si era sempre rifiutata di vendere per oscuri motivi.
Così quell’anno prendemmo la scelta di trasferirci nella casa nella grande città, anche in seguito all’assunzione di mio padre presso il prestigioso Liverpool Institute. Lo stabile, una bella villetta bifamiliare collocata in una via benestante di Liverpool, era ancora tutto arredato, ma necessitava di una bella pulita: in fondo era stata chiusa per ben sei anni. Al momento del trasferimento, quindi, avevamo deciso di vendere tutti i mobili della prima abitazione (una deliziosa casetta a schiera vicina al porto) e portato con noi solo l’essenziale: vestiti, vinili, la radio, qualche quadro, libri…
Chiusa parentesi, direi.
 
‘Cazzo, che puzzo di chiuso!’ mi lasciai scappare appena entrai in casa “Diavolo, abbiamo tenuto porte e finestre aperte tutto il giorno! A questo punto questo maledetto odore se ne sarebbe già dovuto andare da un pezzo!’
“Sii meno volgare, Joanna! Sei una signorina, non uno scaricatore di porto!” mi riprese Susan, come al solito.
“Qualcosa contro gli scaricatori di porto, Sue? Sono anche loro persone, sai” ribattei in fretta, suscitando il riso di mio padre, che nel frattempo stava cercando di togliere la polvere dalle stoviglie della cucina.
Susan, indispettita, tornò alla sua impresa di pulizie, rimettendosi a pulire il tavolo di legno della sala da pranzo. Forse un tempo era stato lucido di cera, ma in quel momento era di un orribile colore grigiastro dovuto alla deposizione secolare di polvere.
La vista dello zelo con cui Sue si rimise al lavoro mi fece sentire un mostro, in fondo non stavo facendo un bel nulla da tutto il giorno. Così distolsi lo sguardo. Occhio non vede, cuore non duole, no?
La casa, per quanto fosse in condizioni disastrose, ai miei occhi era stupenda. Innanzi tutto era enorme, a occhio e croce circa tre o quattro volte più grande della casetta in cui vivevo a Southport (in seguito scoprii che la mia stima era un po’ esagerata). Era comunque arredata con gusto, e dopo poco iniziai ad immaginarmela ai tempi del suo splendore, con nonno Artie (il ricordo della cui faccia era dovuto principalmente alle numerose fotografie che mia nonna a suo tempo mi aveva mostrato) che, accomodato sulla poltrona di pelle, leggeva il giornale e si arricciava con una mano i folti baffi scuri; mi figurai poi nonna Charlie (avevo ereditato da lei l’idea di darmi un soprannome maschile) che preparava la cena dimenando la testa non ancora canuta sulle note di una qualche canzone del periodo e mio padre a undici, dodici anni, che stava stravaccato sul divano rosso a leggere un libro (è sempre stato appassionato lettore, come la sottoscritta, d’altronde).
La mia fulgida immaginazione fu interrotta da quella rompipalle di mia sorella Sue.
“Invece di stare lì a sognare ad occhi aperti, potresti almeno darci una mano Jo! Sei sempre la solita pigrona” e detto questo, mi ritrovai uno straccio per pulire in faccia.
“Susan, non si lancia la roba! Si porge, da brave ladies!” la rimbrottai, facendole il verso.
Mia sorella mi lanciò uno sguardo torvo, mentre papà prendeva le sue difese :”Dai Jo, non fare la bambina e dacci una mano.”
“Da dove dovrei cominciare?” chiesi sbuffando.
 “Vai a guardare un po’ come è la situazione al piano di sopra e inizia a ripulire” fu la risposta del mio adorabile papino.
“Ah, e fai un fischio se trovi un topo!” aggiunse Sue con un sorriso stronzo.
“T-topi?” chiesi deglutendo vistosamente. Odio quelle bestiacce.
“Be’, sai come è, la casa è stata abbandonata a sé stessa per sei lunghi anni, magari nel frattempo i topi ne hanno fatto la loro dimora…”
“Ugh!” fu la mia intelligente risposta. Fortunatamente papà intervenne.
“La volete smettere di punzecchiarvi a vicenda? Sue, smettila di spaventare tua sorella. E tu, Jo, datti da fare!”
Mio padre, per quanto la maggior parte delle volte potesse essere amabile, affabile e comprensivo, talvolta riusciva a mostrare il suo lato fermo e deciso, nonché odiosamente severo e… insopportabile.
Lo guardai, analizzando i suoi occhi nocciola cerchiati dalla montatura marrone degli occhiali di corno, i capelli scuri e radi, i baffoni sotto il naso imponente (fortunatamente non ereditato da nessuno dei suoi tre figli), il fisico alto e abbastanza slanciato, se non si considerava la pancia che iniziava a sporgere. Lo osservai mentre puliva i piatti, la gamba buona che sorreggeva l’intera struttura, la gamba tarocca (in guerra qualcuno gli aveva sparato e, non so quale diavolo di tendine o muscolo o vattelappesca gli aveva fatto fuori, sta di fatto che quell’arto era stato, da allora, molto più debole del suo vicino) più rilassata. Il bastone di legno scuro era appoggiato al muro.
Il mio sguardo si spostò poi su Susan, sulla sua capigliatura castana chiara, quasi rossiccia, sugli occhi scuri ereditati da mio padre, la pelle chiara e i tratti del viso belli ed eleganti, il fisico magro e sano, le mani dalle lunghe dita da pianista. Anche se non sembrava, A VOLTE era una ragazza adorabile, persino con me. Aveva un carattere dolce e materno, sensibile e affidabile, quando voleva. Di quattro anni più anziana della sottoscritta, si era sempre occupata di me insieme a nonna Charlie, sopportando la mia indole lunatica. Era forse proprio per questo che molte volte si comportava proprio come se fosse una madre, affibbiandosi i piacevoli compiti di trattarmi come una poppante e di sgridarmi come una pazza quando la combinavo grossa. Ecco, quando faceva così (quasi sempre) la Odiavo. Con la O maiuscola.
Avevo anche un fratello, Adam,di sei anni più vecchio di me, ma il quel periodo non viveva più con noi. Si era trasferito nel ’56 a Londra per cercarsi un lavoro, visto che il Merseyside dall’inizio del decennio era entrato in una profonda crisi economica.
Con un sospiro iniziai a dirigermi verso il piano superiore, armata di straccio e scopa. Quest’ultima mi sarebbe servita più  per scacciare, uccidere, ferire mortalmente un’eventuale colonia di topi che per pulire.
Salii tutti gli scalini. Poggiato il piede sul gradino finale, feci un ultimo sospiro.
Che la lotta abbia inizio.
 

**

 
Quelli furono giorni di curiosità e di fatica, di scoperte e di terrore.
In una quindicina di giorni riuscimmo a ripulire TUTTO e a disporre le nostre cose nelle varie stanze della casa. In seguito ci demmo da fare per riuscire far mettere a posto il sistema idraulico e quello elettrico, assicurandoci che non ci fossero più tubi che perdevano o macchie di umido, lampadine fulminate o prese di corrente ridotte in malo modo. Fortunatamente non trovammo nessuna colonia di ratti, solo un paio di topolini in soffitta, che furono portati fuori dalla nostra proprietà nello stesso momento in cui annunciai la loro presenza con un urlo lirico prolungato ed estremamente acuto.
In compenso scoprimmo, nella stanza un tempo occupata dai miei nonni e che presto sarebbe diventata di mio padre, un nido di vespe, le quali erano entrate in casa da una fessura fra la finestra e il muro. Le vespe furono scacciate, il nido distrutto e la fessura chiusa, per la felicità di tutti.
Sue si accomodò in quella che un tempo era stata la stanza degli ospiti. Era una camera piccola, ma poteva contenere tutto ciò che Susan riteneva lo stretto indispensabile: un letto con comodino, un’enorme armadio, una piccola scrivania con sedia.
Io invece, avendo un’idea di stretto indispensabile molto più vasta, mi ero appropriata della vecchia stanza di papà, che era più grande, ma non senza averla resa un briciolo più femminile (ma solo un briciolo: ero molto più maschiaccio di quanto apparissi). Verso la fine di agosto la camera conteneva oramai un letto dal nuovo materasso, un bell’armadio di legno di quercia, una scrivania per i miei studi e per la mia radio (regalatami per il mio quindicesimo compleanno), una libreria enorme, che potesse contenere tutti i miei libri, i miei quaderni di schizzi e i blocchi dove scrivevo le mie cazzate, uno specchio a figura intera (sarò stata pure maschiaccio, ma mi piaceva a volte ammirarmi davanti allo specchio) e una poltrona azzurra posta vicino alla finestra dove avrei potuto leggere i miei adorati romanzi.
 
Per fare tutto il lavoro di pulizia, riparazione e disposizione ci sarebbero voluti mesi, mentre noi ci mettemmo soltanto una trentina di giorni a causa del programma di lavori forzati che aveva definito mio padre. Sveglia alle sei, termine della giornata posto alle dieci. Non un attimo di riposo, pause bagno ridotte drasticamente, quelle per il pranzo diventate estremamente brevi. L’unico fattore positivo è che papà ci portava spesso a mangiare fish & chips, ma dopo trenta giorni di soli pesci e patate, non potei introdurre quel piatto nel mio essere per più di tre mesi. L’idea iniziale era quella di consumare il pasto in casa, ma presto papà cedette di fronte alle preghiere sempre più pressanti di due sempre più stanche figliuole e iniziammo a passare le cene a base di fish & chips nelle strade di Liverpool, nei parchi, sulle panchine che si affacciavano sul letto del fiume Mersey o, meglio di tutti, su quelle che si affacciavano al mare. Adoravo i mare. Era così… bello, romantico, infinito, crudele, imperioso, crudele, affascinante… e di aggettivi del genere ne potevo continuare a snocciolare un bel po’. Il mare era tutto. Era casa. Non era vita senza l’odore di salsedine, senza l’estate passata fra le gelide onde del Mare d’Irlanda, senza il SUONO dei flutti che si abbattevano sulle barche, sulla spiaggia, sugli scogli. Se fossi stata Dio (o Allah, o Buddha, o Superman: non sapevo chi governava l’universo, non credevo nemmeno all’esistenza un’entità superiore capace di decidere i nostri destini) e avessi dovuto creare il paradiso, beh, non avrei messo su un luogo pieno di nuvole. Il mio paradiso ideale sarebbe stato una deliziosa cittadina dalle case colorate piene di libri, sulle coste di un mare infinito. Ah, e con la musica di Chuck Berry a tutto volume.
Okay, basta romanticismi. Li odio, quindi meglio darci un taglio.
 
Quando riuscivo ad eludere la sorveglianza di mio padre, o quando ero mandata a forza a fare commissioni, ne approfittavo per scoprire le strade Liverpool, e per iniziare a ricordarmele, visto che il mio senso dell’orientamento era pari a quello di un albero. Me ne andavo in giro così, con un paio di jeans da lavoro, una sformata camiciola a mezze maniche un tempo appartenuta a papà e un cappellaccio dove ficcavo tutti i miei scuri capelli.
Susan naturalmente si lamentava.
“Vorresti andare in giro conciata a quella maniera? Ma dimmi Jo, sei impazzita? La gente crederà che tu sia una lesbica!”
Io allora le chiedevo che c’era di male e lei per risposta lasciava la stanza scuotendo la testa. Non capivo il motivo di tutte quelle scenate. Avevo imparato da mio padre a non avere alcun tipo di pregiudizio, ad essere aperta alle novità, ad accettare le persone per come sono. Ma a quei tempi gli omosessuali erano visti come gravi peccatori, come persone che coltivavano passioni contro natura e contro Dio. Io, essendo atea, non avevo alcun tipo di rancore. Sue invece era una fervente cattolica, ma soprattutto un’irrimediabile borghese, sempre preoccupata di quello che la gente potesse pensare di lei o della sua famiglia. Non era sempre stata così, ma avvicinandosi all’età adulta era diventata inspiegabilmente noiosa, cosa molto strana, visto che la mia era una famiglia dalla mentalità aperta. Forse, chissà, pensava che comportandosi da borghese avrebbe rimediato ai comportamenti dei suoi eccentrici familiari.
 
Finalmente verso la fine di agosto la casa era quasi del tutto in ordine, dovevamo soltanto imparare ad usare la lavatrice (la nostra prima lavatrice) e accordare il piano verticale che era in salotto. Dal punto personale invece, mi mancava solo da andare a comprare la nuova divisa scolastica. Tutto era al proprio posto e  nella camera regnava un ordine fuori dall’ordinario (scusate il gioco di parole). Non sarebbe durato, comunque. Tempo una settimana a partire dall’inizio della scuola, e sarebbe tornato a regnare la ben più amata e selvaggia confusione. Intanto, aspettando il ritorno del caos, nonché l’inizio di un nuovo anno scolastico, mi godevo la nuova casa.
Una delle ultime sere di quel mese, testai la vasca del bagno mio e di Susan (finora avevamo utilizzato soltanto quella nel bagno di papà). Il responso fu favorevole, forse anche perché necessitavo di un bagno rilassante. Oramai le corse per finire la casa erano terminate e io potevo finalmente godere di un momento di pace vissuto fra acqua calda, schiuma e bolle di sapone. Mi crogiolai nella vasca da bagno per un bel po’, fantasticando sulla nuova vita che avrei avuto. Iniziai ad immaginarmi possibili compagni di classe, le loro facce, i loro caratteri e poi mi sognai ipotetici dialoghi che sarebbero potuti avvenire con questi personaggi. Non seppi mai quanto tempo rimasi ammollo, a fantasticare. Quando iniziavo a sognare a occhi aperti non finivo più. Me ne uscii dalla vasca solo quando l’acqua era oramai fredda e avevo tutte le rughe sui polpastrelli. Dopo essermi asciugata un po’ i capelli, mi diressi in camera a prendere il pigiama, ma, quando fui lì, qualcosa attirò la mia attenzione. La finestra della casa accanto era illuminata. Non che fosse la prima volta, certo che no, ma prima di quel momento non ci avevo fatto caso più di tanto. La luce mi attrasse come poteva attrarre una falena e, prima di rendermene conto, ero già posizionata sulla poltrona azzurra con la faccia quasi spiaccicata sul vetro per poter spiare meglio la finestra della casa accanto. Strizzai un po’ i miei occhi blu, poiché a causa di una leggera miopia non riuscivo a vedere bene da lontano. Tuttavia scorsi, all’interno della casa dei vicini, un ragazzo che suonava la chitarra. Non riuscivo a vedere bene i lineamenti del suo viso, né avrei saputo dargli un’età. Ciò nonostante riuscivo a vedere, a percepire o che so io, la concentrazione di quel tipo nel suonare la chitarra. Mi colpì molto. Avevo già visto numerosi ragazzi suonare; a Southport, come del resto in tutta l’Inghilterra, questa attività era diventata di moda. Ne avevo anche già visti tanti che si concentravano tanto da farsi fumare il cervello per riuscire a ricordarsi i movimenti che le dita dovevano compiere per cambiare velocemente accordo. Tuttavia, di quella figura sfumata mi affascinò la dedizione con cui si concentrava e con cui suonava. Era tangibile, anche a distanza. Ne rimasi incantata. Dopo un po’, non so da quanto tempo ero in contemplazione, il giovane alzò la testa dal proprio strumento e diresse il proprio sguardo fuori dalla finestra. O perlomeno, mi parve. Maledetta miopia!
Il mio primo istinto, che fu poi quello che seguii, fu quello di salutare infantilmente il ragazzo. Mi sentii molto stupida, ma continuai imperterrita ad agitare la mano. Alla fine lui si accorse di quello strano saluto e, un po’ riluttante, alzò anche lui la mano e mi fece un cenno. Sorrisi senza motivo, e senza sapere se lui l’avrebbe visto. Non mi importava. Mi allontanai dalla finestra, mi cambiai velocemente e, infine, mi  raggomitolai nel letto. Chiudendo la luce, mi chiesi quando avrei conosciuto di persona quel giovane e che cosa ci saremmo detti in un primo momento. Tuttavia, prima che potessi iniziare un’altra delle mie interminabili fantasticate, il sonno mi avvolse e caddi fra le morbide braccia di Morfeo.







*Angolo dell'autrice*
Hey there! La Scaramouche è tornata, aggiornando questo coso (che non so se chiamare racconto) con un nuovo sclero, un nuovo capitolo insomma. Okay, è vero, questa parte della storia non racconta niente di  particolare, ma serviva per introdurvi nel mondo di Joanna.
Ringrazio tutte le persone che hanno recensito il prologo di questa storia, coloro che l'hanno messa fra i preferiti o fra le seguite e anche quelli che leggono soltanto *abbraccia tutti*.
A presto,
la vostra BohemianScaramouche <3
  
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Beatles / Vai alla pagina dell'autore: BohemianScaramouche