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Autore: Whatadaph    09/09/2012    4 recensioni
Te l'ho detto, Albus. Noi non siamo come gli altri. Come noi ci siamo solo io e te, sarà sempre così.
Un ragazzo prodigio e un'estate che sembra il concentrato di tutti i suoi peggiori incubi. Un incontro inaspettato, che cambierà ogni cosa. Dove c'è molta luce, l'ombra è più nera: qual è allora il confine tra bene e male?
Gellert aveva sete di potere, Albus di giustizia. Insieme, avrebbero potuto fare grandi cose.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Altro personaggio, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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- Questa storia fa parte della serie 'Licht und Schatten'
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Capitolo 10

“La stanza di Albus”

Gellert si sentiva decisamente euforico.

Parlare con Albus delle tragiche vicende familiari di quest’ultimo aveva in qualche modo fatto sì che ogni pezzo andasse definitivamente al posto che gli spettava. Il destino stava mandando al suo prescelto un messaggio scritto a lettere ben chiare: il compagno a lui destinato per portare al compimento il Bene Superiore possedeva anche quest’ultimo requisito necessario – un movente personale che lo spingesse a ricercare una definitiva e pacifica convivenza fra Babbani e maghi.

Gellert aveva sete di potere, Albus sete di giustizia. Insieme avrebbero potuto fare grandi cose.

Per questa serie di motivi l’umore di Grindelwald era dei migliori mentre raggiungeva a pochi passi la casa in cui Albus abitava, immediatamente accanto a quella di Bathilda.

“Dove vai?” gli aveva chiesto l’amorevole zia, vedendolo infilare la porta d’ingresso. “Hai appuntamento con Albus?”

“Mi ha invitato per il tè!” aveva risposto Gellert baldanzoso, prima di schioccare a Bathilda un rumoroso bacio sulla guancia. La zia si era imporporata in volto, e aveva espresso la propria contentezza con grande entusiasmo.

“Sono davvero felice che tu abbia trovato un amico!” erano state le sue liete parole. “Sapevo che Albus aveva la stoffa per andare d’accordo con te.”

Per quanto ingenua, la zia era stata decisamente lungimirante.

Gellert non ebbe bisogno di suonare il campanello, giacché, non appena giunse davanti al cancelletto che imprigionava il fazzoletto di giardino infestato da erbacce, trovò Albus in piedi sull’ultimo dei gradini che conducevano alla veranda, la sua figura che si stagliava scura contro la luce smorta di quel pomeriggio dal cielo coperto.

Sembrava quasi che il sole avesse compreso che per quel giorno il campo di grano non avrebbe ospitato i due giovani, e che si fosse per questo disteso a riposare dietro alla fitta coltre di nubi grigiastre.

I capelli ramati di Albus erano raccolti nella solita coda bassa sulla nuca, i suoi occhi brillavano attraverso le lenti a mezzaluna degli occhiali. Il suo viso affilato era appena rallegrato da un quieto sorriso, ma le sopracciglia aggrottate erano indice di un certo nervosismo. Gellert dedusse che il litigio con Aberforth del giorno prima non fosse stato ancora del tutto stemperato.

“Gellert,” lo salutò l’amico. “Entra pure.”

Tirò il chiavistello e si fece strada lungo il viottolo. In veranda, Albus lo accolse con una mano posata fraternamente sulla spalla.

“Sono lieto di vederti,” disse.

“Anche io, Albus,” rispose lui con sincerità. “Anche io.”

L’altro gli sorrise e inclinò appena il capo, prima di aprire la porta d’ingresso e spostarsi di lato per farlo passare.

L’ingresso che accolse Gellert era molto simile a quello della casa di Bathilda, che doveva evidentemente essere strutturata allo stesso modo. L’ambiente era in penombra, una luce a metà che parlava di quieta frescura. Da una stanza lontana provenne l’eco di una risata. Albus strinse le labbra, quasi seccato, e Grindelwald ebbe l’impressione che se ne sentisse escluso. Lo vide poi levare gli occhi su di lui, sentendosi attraversato dal suo sguardo limpido e penetrante.

“Vuoi conoscere i miei fratelli?” gli domandò a mezza voce.

“Con grande piacere,” rispose.

Le dita fredde di Albus si chiusero gentilmente attorno al polso di Gellert, che lo seguì in silenzio lungo le scale. Dumbledore lasciò il suo braccio solo quando giunsero di fronte a una porta socchiusa, dalla quale faceva capolino un sottile spiraglio di luce.

Gellert si accorse di avere il fiato corto, ma non diede troppo peso alla cosa.

Albus bussò piano alla porta per annunciare la loro presenza, prima di distendere la mano sul legno scuro e spingere l’anta, che si aprì su di una stanza non troppo grande ma pulita e luminosa. Dai disegni infantili appesi alle pareti e le tendine rosa chiaro, Gellert dedusse che si dovesse trattare della camera da letto di Ariana.

Dunque posò lo sguardo sul tappeto di fronte al letto e per la prima volta vide i fratelli di Albus.

Aberforth dimostrava pienamente i suoi quindici anni. Somigliava moltissimo ad Albus nei lineamenti, sebbene fosse più robusto del maggiore. Aveva i suoi stessi occhi azzurri, ma non portava gli occhiali; i capelli erano dello stesso colore, ma più corti e scompigliati.

La cosa più diversa da Albus, tuttavia, era la sua espressione. Al loro ingresso aveva levato il capo per guardarli, e Gellert aveva potuto notare come le sue sopracciglia fossero aggrottate in una smorfia sospettosa. Aveva un’aria più rude e selvatica del fratello, più che a una volpe lui somigliava a un orso bruno.

Ariana era di spalle quando loro entrarono, ma Gellert ebbe appena il tempo di vedere una schiena esile sotto al vestito azzurro, ricci biondi liberi da nastri o forcine, prima che la ragazzina si voltasse verso di loro.

Aveva un bel viso pulito, dai lineamenti regolari. Non somigliava affatto ai fratelli, non fosse stato per la limpidezza dei suoi occhi azzurri, nei quali però albergava un’espressione ben diversa, in qualche modo spaesata. Sulle sue labbra rosee aleggiava un sorriso vago e quieto, quasi fosse lì con loro e al contempo in un luogo molto lontano.

“Ciao,” pigolò.

Albus le sorrise con dolcezza. “Ciao, Ariana. Questo è Gellert,” disse, indicandolo.

Ariana posò lo sguardo su di lui. “Ciao,” ripeté, sgranando i suoi occhi chiari.

“Ciao, Ariana,” disse Gellert, facendo eco alle parole di Albus. “Piacere di conoscerti.”

Il sorriso vago di Ariana si fece più largo. Non doveva essere abituata a sentire sconosciuti rivolgersi a lei normalmente, come se non fosse stata una squilibrata.

Gellert pensò di aver fatto una mossa intelligente.

Ariana si chinò sul foglio di carta che aveva davanti e aggiunse dei capelli biondi alla stilizzata figura umana che stava disegnando. Tracciò aggrovigliate spirali per rappresentare dei riccioli. Le bastarono pochi istanti, poi emise un versetto soddisfatto e porse il foglio a Gellert.

“Per te,” disse. “Tu.”

“Oh, grazie mille!” Gellert le sorrise ancora. “Sei davvero gentile.”

“Anche tu,” disse Ariana, tornando a sedere. “Comportati bene, visto che sei gentile.”

Nell’udire queste ultime parole, Gellert dovette fare un grande sforzo di autocontrollo per non sobbalzare. Si era reso conto improvvisamente del fatto che Ariana doveva avere una percezione diversa della realtà, in un certo senso più istintiva. Fargli dono di un disegno era stato un modo per sdebitarsi della gentilezza con cui le si era rivolto, e quell’accenno a comportarsi bene costituiva un ammonimento, quasi una velata minaccia.

Per fortuna, Albus sembrava non essersi accorto di nulla.

Aberforth, invece, aveva assistito a tutta la scena stringendo i suoi occhi lucenti.

Capì che non si sarebbe mosso di una virgola.

“Ciao,” disse, chinandosi per porgergli la mano. “Io sono Gellert.”

Aberforth la strinse con circospezione, scrutandolo attentamente, senza dar cenno di volersi alzare in piedi. “Aberforth,” mugugnò infine, prima di ritrarre bruscamente la mano.

Bastò quella parola digrignata fra i denti per rendere Gellert cosciente di un importante fattore: Aberforth Dumbledore non si fidava affatto di lui. In sua presenza avrebbe dovuto agire con cautela.

“Vieni, Gellert,” disse Albus. “Ti faccio vedere il resto della casa.”

Si trattava di una scusa bella e buona per andarsene di lì – Gellert lo capì all’istante.

Albus lo condusse fino al lato opposto del corridoio, dove gli fece strada oltre l’ennesima porta scura. Gellert comprese immediatamente che quella era la stanza di Albus, poiché la prima cosa che poté notare entrando furono i libri.

I libri erano ovunque: ne era stipata la grossa libreria situata sul fondo della stanza, le numerose mensole, il ripiano della scrivania. In terra vi erano ordinate pile di volumi, e Gellert avrebbe giurato che gli scatoloni sotto al letto dalle lenzuola perfettamente lisce contenessero libri. Sul comodino di Albus catturarono la sua attenzione i tre libri che lui stesso gli aveva dato in prestito, vicino ai quali era posto un quadernetto dalla copertina nera, che aveva tutta l’aria di essere infarcito di appunti.

Gellert immaginò pagine leggermente ingiallite, ricoperte della sottile scrittura obliqua che aveva avuto modo di ammirare nelle lettere che Albus gli mandava. Lui non era così ordinato: scriveva a zampe di gallina, specchio del suo animo irrequieto.

Albus pareva essersi accorto del modo in cui Grindelwald divorava con gli occhi quella stanza, ma lo lasciò fare, in silenzio e immobile al suo fianco.

Gellert si soffermò sullo scrittoio, un bel mobile in mogano irto di cassettini. Notò le lettere che si era scambiato con Albus, impilate in una pila ordinata accanto alla penna d’oca ben pulita e al calamaio chiuso con attenzione. Da un cassetto socchiuso faceva capolino un’altra lettera, coperta di una scrittura diversa. Gellert suppose che fosse stata scritta da Elphias, il cagnolino da compagnia di Albus che adesso era in giro per il mondo.

Si chiese perché Albus tenesse le sue lettere bene in vista sul piano del tavolino, se al tempo stesso ammassava quelle di Elphias in un cassetto, ma poi capì.

Le lettere di Elphias Doge erano celate agli occhi perché Albus non indendeva vederle. Per lui erano specchio del passato ormai lontano e del futuro che aveva perduto: scatenavano sensazioni negative nel suo animo.

Le lettere di Gellert erano la speranza di un futuro ancora diverso, di una condivisione al posto della solitudine cui Albus era abituato. Teneva le lettere in vista perché facevano sì che in lui scaturissero sentimenti positivi, o comunque piacevoli.

Chissà perché, il pensiero scaldò un poco il cuore di Gellert.

Notò un armadio chiuso, sormontato da un grosso baule vuoto, che immaginò essere quello che Albus, per sette anni, aveva riempito ogni primo settembre per portare a Hogwarts tutto l’occorrente per la scuola.

Una volta portata a compimento la sua analisi della stanza, Gellert si volse in direzione di Albus, il quale sorrise.

“È come immaginavi?” gli chiese.

Anche Grindelwald sorrise, scrollando le spalle. “All’incirca,” ammise. “Immaginavo che fosse ordinata e piena di libri.”

Era la verità: così si era immaginato la stanza di Albus. Ma non riusciva a trovare le parole per descrivere quella specifica sensazione che aveva provato entrando, quel curioso sentore di genio e giovinezza, l’odore polveroso di una strana e orgogliosa incoscienza. Era odore di legno, misteriosamente frammisto al profumo delle gialle ginestre che crescevano attorno alla strada che portava al campo di grano.

Albus accese con un colpo di bacchetta la lampada a olio della scrivania, e agitandola di nuovo evocò una comoda sedia per Gellert. Gli fece cenno di accomodarsi, mentre egli stesso si sedeva a quella della scrivania.

Grindelwald pensò che si trattava della prima volta in cui Albus Dumbledore aveva compiuto una magia davanti ai suoi occhi, Aveva riconosciuto nelle sue movenze una sensazione che gli era propria, quella naturalezza nel compiere sortilegi che gli insegnanti spesso gli avevano riconosciuto negli anni passati a Durmstrang.

Albus parve accorgersi del suo sguardo, poiché sorrise quasi in segno di sfida e agitò ancora la sua bacchetta magica. Dalla punta scaturì una cascata di scintille dorate, che vorticando e contorcendosi si levò verso il soffitto fino a prendere la forma di una fenice, che spalancò il becco e cantò dolcemente, allungando il collo. Poi spiegò le ali e planò verso di loro, e sfiorando la spalla di Gellert produsse un suono come di campanellini argentati. Infine tornò verso il soffitto e si contorse su se stessa ancora una volta prima di svanire con un piccolo sbuffo di fumo.

Grindelwald capì cosa volesse dire quello sguardo divertito: una sfida a chi avrebbe saputo produrre l’incanto più bello e soprendente.

Estrasse la bacchetta, pensando che la risposta fosse più semplice di scintille dorate e una fenice che sbatteva le ali.

Scoppiò a ridere fragorosamente, e guardò Albus dritto negli occhi prima di mormorare: “Expecto Patronum.”

Dalla punta della sua bacchetta una volpe argentea capitombolò sul pavimento e prese a saltellare allegra per la stanza, annusando la trapunta del letto e le gambe della scrivania. La sua coda soffice e lucente carezzava il folto tappeto e il pavimento piastrellato.

Gellert guardò Albus, che osservava con un lieve sorriso impresso sulle labbra la volpe aggirarsi per la stanza. Ricordò distrattamente quanto l’amico gli fosse parve simile al piccolo animale la cui forma prendeva il suo Patronus.

Mosse la bacchetta, e la volpe sparì.

“Bella scelta,” commentò Albus. “Naturale ma proprio per questo sorprendente.”

“Oh, ho apprezzato anche le tue scintille dorate,” Gellert ricambiò il suo sorriso. “Un incanto di tua invenzione, suppongo.”

“È molto semplice,” Albus scrollò le spalle. “È bastato trovare il modo di associare le idee dell’oro e della fenice all’incanto per le comuni scintille.”

“Semplice ma comunque geniale,” mormorò Gellert. “Che forma assume il tuo Patronus?” chiese poi a voce più alta.

“Quella di una fenice,” fu la risposta.

Si disse che non avrebbe dovuto esserne così sorpreso.

La cosa più sorprendente era che il Bene Superiore non fosse stato il suo unico pensiero quando aveva prodotto il suo Patronus.

****

Gellert,

alla fine non abbiamo fatto in tempo a parlare dell’argomento che più mi preme, ma spero che potremo rifarci domani. Alle cinque al solito posto?

Mi piace molto la forma che assume il tuo Patronus. È curioso, chissà perché non avrei mai immaginato che fosse una volpe.

A.

Albus,

confermo per domani, cinque al solito posto.

Io ti ripeto che le tue scintille dorate sono una gioia per gli occhi. Domani voglio vedere il tuo Patronus, niente scuse!

Suppongo che l’argomento che più ti preme sia quello relativo alla convivenza pacifica fra Babbani e maghi.

G.

Esattamente.

Come ti sono parsi i miei fratelli?

A.

Albus,

Ariana è stata molto dolce a farmi dono di quel disegno. Invece non credo di stare molto simpatico ad Aberforth.

G.

Gellert,

non preoccuparti per Abe, è fatto così. Un sospettoso di natura.

A.

Albus,

lo immaginavo. A domani.

G.

Buonanotte.

Albus

Note dell’Autrice

Se c’è qualcuno che ancora segue questa storia, mi scuso enormemente per il ritardo. La spiegazione è semplice: sono stata in vacanza! D’ora in poi farò sempre in modo di avere almeno un capitolo pronto al momento di postare, così da evitare ritardi. Ci vediamo fra una settimana!

Bisous!

Daphne

   
 
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