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Autore: zuccheroaffilato    09/09/2012    11 recensioni
“Come si chiama?” Domandò lui all’improvviso, come se si fosse appena ricordato di lei.
Frankie si grattò la nuca prima di rispondere. “Signorina Tyrell.” Annuì.
“Si okay, ma il nome?”
“Sai che non lo so Nick? E’ proprio strana quella ragazza.”
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Volevo ringraziarvi per le 15 recensioni al primo capitolo, sono tantissime!
Ve ne sono davvero grata, spero che questo secondo capitolo sia "all'altezza" del primo.
Penn.


La ragazza sospirò leggermente, la casa era vuota, buia, lei era di nuovo sola. Poco male, era abituata a non trovare nessuno al proprio rientro. Lasciò il borsone nell’entrata, qualcuno l’avrebbe svuotato di sicuro. Camminò al buio per la casa, raggiunse la sua stanza e premette l’interruttore. Strizzò gli occhi per un attimo, fino a quando le sue pupille non si abituarono alla luce. Era stanca, le facevano male gli arti, aveva solo bisogno di riposare. Si slegò i capelli, raccolti in uno chignon e si infilò la maglietta da uomo che le faceva da pigiama. Uno sbadiglio. Prese un libro dalla mensola sopra il letto, si guardò allo specchio per poi distoglierne immediatamente lo sguardo. Odiava il proprio riflesso. Due sbadigli. Si stese sul letto, coprendosi con il piumone bianco, aprì il libro cercando il segno. Tre sbadigli. Scosse la testa, richiuse il libro e lo posò accanto a sé. Quattro sbadigli. Era ora di dormire.



La svegliarono le prime luci dell’alba. Odiava essere svegliata in quel modo. Guardò l’orario e si maledisse per non aver abbassato le tende la notte prima. Sospirò, non si sarebbe mai riaddormentata, ormai era sveglia. Uscì dalla sua stanza, la casa era nel silenzio totale. Le assi del pavimento di legno scricchiolarono leggermente sotto il suo, seppur leggerissimo, peso. Entrò in cucina, aprì il frigorifero e prese la bottiglia del latte che posò sul bancone di acciaio. Fece per prendere una tazza, ma ci ripensò e bevve direttamente dalla bottiglia. Alla faccia dei suoi genitori che inorridivano ogni volta che ci provava.
Sentì la porta di casa aprirsi, si voltò verso di essa e fece un piccolo cenno alla donna che entrò nel salone. La fissò per qualche secondo, appollaiata sul suo scomodo sgabello della cucina.
La donna le sorrise dolcemente, ma la ragazza non ricambiò affatto il sorriso. Si limitò a guardarla, distogliendo poi lo sguardo quando le sembrò di averla squadrata per bene.
Tornò nella sua camera senza aver pronunciato una singola parola, dopo la sua misera colazione.



“A che ora hai lezione oggi?” Le chiese sua madre bevendo il primo caffè della giornata. Era stesa sul letto, la vestaglia rosa attorno al corpo scarno, i capelli rossi legati in una coda.
“Dalle sei alle nove.” Rispose la ragazza sedendosi accanto alla madre.
“Noi dobbiamo andare dagli Anderson, non…”
“Non potrete venirmi a prendere, lo so.” Finì la frase sua figlia.
“Puoi sempre farti venire a prendere da…”
“No mamma, faccio due passi, non ti preoccupare.” Tagliò corto la ragazza, alzandosi dal letto.
“A che ora sei tornata ieri?”
“Alle undici e mezza, non ti preoccupare.” Sorrise, uno di quei rari sorrisi che rivolgeva alla madre.
Tornò nella propria camera, odiava la mattina, non sapeva mai cosa fare. La sua vita era dedicata alla danza, era il suo pensiero fisso, quello che aveva sempre desiderato fare. Squillò il cellulare, la sua migliore amica.
“Dimmi.” Rispose spiccia come al solito.
“Vieni allo Starbucks sulla quinta?”
“A che ora?”
“Più o meno… adesso. Ci siamo tutti, ho provato a chiamarti, ma avevi il silenzioso, credo.”
“Si, vi raggiungo in due secondi.”
“Vuoi che ti ordini qualcosa?” Le chiese gentilmente.
“Si, un cappuccino, grazie Anthea.”
“Okay, arriva subito però.”
La ragazza riagganciò, poi si precipitò in camera della madre, trovandola piegata ad allacciarsi il cinturino delle scarpe.
“Vai all’Empire State?” Le chiede di fretta.
“Si, perché?”
“Mi accompagni dallo Starbucks sulla quinta?”
“Certo, ma muoviti.” Le parole della madre si persero nel vuoto, la figlia era, molto probabilmente, già sotto la doccia.



“Ho fatto più in fretta che potessi.” Disse entrando nel caffè e trovando il gruppo seduto su delle poltroncine verdi.
“Il cappuccino è appena arrivato.” Le disse  Anthea facendole spazio accanto a lei.
“Grazie.” Sorrise la ragazza, portando le labbra alla tazza di porcellana bianca
“Allora, abbiamo deciso?”
“Deciso cosa?” Si intromise la ragazza, inghiottendo un sorso bollente.
“Da chi fare la serata questa settimana.”
“Oh, casa mia è off limits, i miei hanno organizzato una cena per domani.”
“Non ti preoccupare, l’abbiamo fatta la settimana scorsa da te.” Le rispose Nigel, un ragazzo dalla pelle più scura del cioccolato.
“Se volete c’è casa mia.” Frankie prese la parola, con in mano il suo frappuccino al caramello. “E’ abbastanza grande per ospitarvi tutti.”
“Sei sicuro che non ci sia alcun problema?” Chiese Anthea giocherellando con i capelli.
“Certo.” Disse scrollando le spalle.
“Okay, poi ci dici l’indirizzo e tutto, adesso parliamo di cose più importanti.”
“Tipo cosa?” Chiese il ragazzino.
“Cibo.” Finì la frase una ragazza dai lunghi capelli rossi, alzando un sopracciglio e provocando una risata generale.



“Questa lezione mi ha distrutta.” La ragazza scese dal palco, si sedette su una delle poltroncine ribaltabili e si tolse le scarpette. Le sue migliori amiche erano ancora sul palco, provavano il loro passo a tre con Nigel. Frankie si sedette accanto a lei, intenta a parlare con Christina, la ragazza dai capelli rossi.
“Ah Frankie, a che ora è domani?”
“Anthea mi ha detto alle undici, va bene?”
“Certo, facciamo sempre prima di mezzogiorno.”
Il ragazzino sorrise e continuò a guardare il balletto che, intanto, era in esecuzione sul palco. La ragazza continuò a parlare con Christina, ma fu distolta da un rumore. Si voltarono tutti verso la fonte del suono, un ragazzo dai corti capelli ricci che si era appena seduto accanto a Frankie. Il ragazzo si scusò silenziosamente, provocando un sorrisetto sulle labbra della ragazza. Le labbra del riccio si incurvarono leggermente all’insù, alzò la mano a mo’ di saluto e concentrò il suo sguardo sul palco. La ragazza guardò un attimo il suo profilo illuminato dalla luce dei riflettori, un profilo familiare e non solo per il fatto che l’aveva visto la sera prima. Pur sforzandosi, non riusciva a ricordare dove potesse averlo visto. Alzò le spalle e si concentrò sulla rossa che aveva trascurato già per troppi minuti.



“Zuppa di farro stasera?” Robert le aprì la porta del pub, la ragazza sorrise e fece un cenno d’assenso, adorava quell’uomo. Come al solito era une delle ultime ad uscire dagli spogliatoi, una delle ultime ad arrivare al pub, una delle ultime a mangiare. Lasciò il borsone accanto al tavolo, ma la sua solita sedia vuota non c’era. Incurvò leggermente le sopracciglia, per poi prendere una sedia dal tavolo accanto. Scrutò la tavolata e notò improvvisamente il motivo per cui non aveva trovato la sedia.
C’era una persona in più.
Il riccio.
Quel tavolo, quelle serate, erano dedicati solamente al ‘gruppo’. Erano come una famiglia e lei era particolarmente diffidente nei confronti di ogni membro nuovo. Soprattutto quando non frequentava le lezioni con loro. Mangiò la propria zuppa in silenzio, leggermente contrariata dall’intrusione di quel tipo. Iniziava a darle veramente sui nervi.
Lo scrutò per tutta la serata, di sottecchi. Era più alto di lei di una piccola manciata di centimetri, almeno da quello che riusciva a constatare da seduta. Il viso era costellato da piccoli nei scuri, uno più evidente, sulla guancia destra. I riccioli erano scuri, piccoli, ma sembravano morbidi ad un primo sguardo. La ragazza notò che non sorrideva facilmente, un po’ come lei. Qualche volta incontrò il suo sguardo, ma lo distolse subito per timore che lui si accorgesse che lo stava scrutando. Non sembrava malaccio, il problema è che le dava ai nervi, a pelle. E quando qualcuno le dava sui nervi, non c’era alcun modo per farle cambiare idea.



Ed ecco, si ritrovò di nuovo sola, fuori dal pub, nel gelido freddo di una New York a dicembre. Le sue amiche erano appena andate via, abitavano tutte nella stessa zona, tranne lei.
“Ehi.” La voce di Frankie le fece gelare il sangue nelle vene. Quel bambino poteva diventare odioso, era troppo gentile.
“Da quanto tempo.” Rispose sarcastica la ragazza.
“Già, ti sono mancato vero?” Disse appoggiandosi accanto a lei.
“Si, non puoi immaginare quanto.” Sospirò teatralmente. “Tu mi segui.” Aggiunse dopo con un sorriso.
“Non posso fare a meno di te.” Rise il ragazzino.
“No dai, seriamente. Non trovo altra spiegazione. Dovresti essere a casa da un pezzo.”
“Colpa di mio fratello.” Indicò la porta del pub alle sue spalle. “Emergenza pipì.”
La ragazza rise, proprio nel momento in cui la porta si aprì e Nick uscì dal locale. Il ragazzo li raggiunse, perplesso.
“Mi devi togliere una curiosità?” Disse Frankie rivolgendosi alla ragazza.
“Quale?”
“Come ti chiami?”
Gli occhi della ragazza si spalancarono. “Davvero non ti ho detto il mio nome?” Frankie scosse la testa. “Oddio scusa pensavo di essermi presentata.” Aggiunse arrossendo fino alla punta dei capelli. “Comunque, piacere Meral Tyrell.” Allungò la mano al ragazzino che la strinse ridendo.
“Frankie Jonas.” Le fece l’occhiolino.
“Meral.” Si rivolse al riccio.
“Nicholas, ma tutti mi chiamano Nick.” La sua presa era forte, salda. La mano calda, nonostante il gelo invernale.
“Piacere Nick.”
“E’ un nome strano, il tuo.” Disse senza tanti preamboli.
“Lo so. E’ indiano e significa cerbiatto.”
Nick la guardò sorpreso. “Ma tu non sei un cerbiatto.”
“Sono contenta che te ne sia accorto.” Disse Meral con una risata.
“No cioè, intendevo dire che hai gli occhi chiari, di solito quelli da cerbiatto sono nocciola.”
“Lo so, ma a mia madre piaceva tanto questo nome. E poi lei ha gli occhi da cerbiatto.”
“Oh. E’ indiana?”
“No, americana.” Sorrise.
“Tuo padre è indiano allora?”
“No, americano anche lui, ma ha origine russe, se proprio vuoi saperlo.”
“Che famiglia.” Si lasciò scappare il riccio. Sembrò pentirsi delle sue parole perché si morse le labbra e fece per scusarsi.
“Non ti scusare, me lo dicono tutti. Siamo una famiglia complessa.”
“Una famiglia cosmopolita.”
“Esattamente.” Sorrise la bionda, guardando il riccio.
“Mi dispiace interrompere questo magico momento.” Disse Frankie con voce annoiata. “Ma ho sonno e vorrei tornare a casa.”
Meral arrossì e guardò a terra, le sue scarpe erano diventate la cosa più interessante del mondo, in quel momento.
“Vuoi un passaggio?” Continuò Frankie rivolgendosi alla ragazza, ma guardando il fratello.
“No grazie, ho la moto proprio qui dietro.” Rispose mentendo la ragazza mostrando un mazzo di chiavi. I due ragazzi sembrarono convincersi, perché la salutarono e se ne andarono a bordo della Ford scura. Meral sorrise tra sé e sé, senza nemmeno sapere il perché, prima di incamminarsi verso casa, le chiavi dell’appartamento strette nella mano e uno sciocco rossore sulle guance chiare.

   
 
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