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Autore: margheritanikolaevna    11/09/2012    3 recensioni
Confesso che l’11 settembre mi sconvolse: prima tragedia globale del nuovo millennio, cambiò in modo irreversibile le nostre idee di libertà, sicurezza e democrazia.
Forse per questo amo CSI NY, che si scelse di ambientare lì proprio per aiutare la rinascita della città e in cui l’11 settembre è in qualche modo anch’esso un personaggio, a volte sullo sfondo, a volte invece protagonista.
Ho cercato di raccontarlo secondo prospettive temporali diverse (subito prima, subito dopo, dieci anni dopo) e adesso, che sono passati undici anni e in me rimane ancora inalterato il terrificante sbalordimento di quel pomeriggio, ho voluto ricordarlo con una storia che non ne condivide né lo spazio né il tempo, ma unicamente il cuore più nero.
Grazie in anticipo a chi leggerà.
Prima classificata al contest "War Tales: racconti dal fronte", indetto da Filira su efp ma giudicato da My Pride
Questo è il link al contest:http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=10230276
Genere: Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Mac Taylor
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Capitolo terzo.
Vittime e carnefici
 
Gli uomini senza nome della valle avevano offerto ai loro guardinghi ospiti una specie di spezzatino di riso, frutta secca, spezie ed erbe aromatiche con carne e ceci spezzati chiamato Khorèsht, accompagnato da un pane sottile e rotondo, non lievitato ma saporito, detto Nan.
Niente alcolici, ovviamente, ma dopo l’arsura del giorno i marines avevano imparato che non esisteva nulla di più piacevole dell’acqua dei pozzi, fresca e dal sentore leggermente terroso.
Prima di riprendere il loro viaggio si erano radunati intorno alle macchine a fumare e a discutere tra loro, resistendo alla tentazione di tirare fuori dalle tasche un mazzo di carte e sfidarsi in un’improvvisata mano di poker alla luce tremolante delle torce elettriche. Ogni tanto qualcuno volgeva lo sguardo verso l’altra estremità dello spiazzo di terra battuta dove, intorno al fuoco, gli arabi bevevano il loro tè bollente e zuccherato in silenzio, fino a quando non uscì dalla tenda più lontana un uomo apparentemente vecchissimo, col volto abbronzato quasi deformato dalle rughe profonde e i capelli d’un bianco abbagliante.
Si sedette accanto al falò, prese un sorso dal bicchierino che Azar gli aveva porto con filiale devozione e poi cominciò a parlare con voce cantilenante come se recitasse una poesia, ma in un tono comunque solenne. Mac ne fu subito incuriosito e si avvicinò al gruppo, senza riflettere sul fatto che non sarebbe riuscito a comprendere niente del racconto del vecchio; per fortuna Mahmoud gli si mise accanto e di nuovo lo fissò, questa volta con aperta curiosità.
“Cosa fai qui, americano?” domandò nel suo inglese perfetto ma senza sentimento “Ti incuriosiscono le storie di questa terra?”.
L’altro annuì lentamente, cosicché l’uomo gli fece segno di sedersi per terra, accanto a loro.
Le crescenti fiamme del fuoco di sterpi illuminavano tutti quelli che guardavano e ascoltavano: il giovane tenente, la bellezza misteriosa di Shirin nella sua veste scura, l’anello degli uomini e delle donne, i soldati  nelle loro uniformi impolverate. Con le rocce e le povere case di pietra appena rischiarate simili a un palcoscenico dietro di loro e i rossi bagliori alternati alle ombre fuligginose che giocavano dappertutto, sui visi e negli occhi, avrebbero potuto essere il quadro di qualche opera altamente drammatica.
L’uomo fece un gesto con la mano ossuta, quasi ad abbracciare la valle semidesertica che si stendeva davanti a loro, immersa nel buio e nel silenzio.
Poi riprese a parlare: “Raccontano gli uomini degni di fede (ma solo Allah è onnisciente e onnipotente e non dorme) che una volta - non importa quando - in questo luogo si combatté un’aspra battaglia: tutto avvenne in una lunga giornata d’estate sotto il sole crudele di mezzogiorno, quando l’erba verde ancora ondeggiava in questa valle oggi desolata”.
Mahmoud traduceva scandendo piano le parole.
“Potete immaginare quanti fiori delicati, creati da Allah il Misericordioso affinché i loro petali fossero tazza di rugiada, ebbero invece la loro coppa colma fino all’orlo di sangue e caddero spezzati sotto quel peso orrendo? Quante farfalle videro le loro ali multicolori macchiarsi di rosso? Quanti insetti che trascinano le loro misere esistenze nella polvere le terminarono travolti da uomini moribondi, che in quella stessa polvere trovarono la fine della loro vita? Le acque chiare del fiume che prima scorreva quieto in questa vallata si tinsero del colore del sangue versato, mentre il terreno calpestato si mutò in una disgustosa fanghiglia purpurea attraversata dalle orme degli uomini e dei cavalli.  
Il silenzio allora fu riempito dalle grida dei vivi, che si ersero come un unico, interminabile gemito: era un suono pieno di orrore e di sofferenza che saliva da tutte le parti, dalla pianura devastata e dal fiume insozzato.
Potete forse sognare - che Allah il Grande ci risparmi - su quali scene si spalancò l’occhio pallido della luna allorché si levò da dietro la linea nera delle colline, contemplando la terra disseminata di morti? A quali spettacoli dovettero assistere la volpe, il falco e lo sciacallo aggirandosi tra i cadaveri che, con pupille vuote e immobili, fissavano senza vederlo il cielo terso con quegli stessi occhi che un tempo avevano cercato il volto amato di una madre, oppure si erano serenamente chiusi tra le sue braccia amorevoli?”.
Mac Taylor, seduto con le gambe incrociate e le braccia conserte, rabbrividì; e non fu a causa del freddo pungente della notte. Lo turbava ulteriormente sentire su di sé lo sguardo di Shirin che aveva seguito ogni suo movimento e, senza dire nulla, continuava solo a fissarlo.
“Il vento sepolcrale spirò incessante su questo luogo atroce” riprese il vecchio la cui voce era divenuta adesso tremula da sembrare quasi una ninnananna, ma che invece di cantare di vita cantava di morte.
 “Le stelle lo vegliarono mestamente, sorgendo e tramontando su di esso innumerevoli volte prima che tutte le tracce del massacro fossero sepolte dalla sabbia. E anche quando esse svanirono, cancellate dal tempo, e il sole sorrise a questo luogo contaminato come gli aveva sorriso quando era ancora innocente, tuttavia del male rimase traccia: non un filo d’erba, non più un fiore cresce in questi luoghi che il male ha reso sterili…”.
Il tenente era rimasto colpito da quel racconto più di quanto avrebbe voluto mostrare e quindi si levò in piedi e fece un paio di passi verso i compagni, ma Mahmoud lo seguì e gli rivolse di nuovo la parola: per quanto strano potesse sembrare in uno che la pensava come lui, quello straniero lo incuriosiva e sentiva il desiderio di parlargli ancora.
“Ti infastidiscono i racconti di guerra?” domandò mentre Mac, appressatosi al fuoco, si stava accendendo una sigaretta presa dal pacchetto che portava nella bisaccia. “Eppure per tanti la guerra è solo una scusa per uccidere senza essere puniti e, anzi, ottenendo la riconoscenza della gente”.
L’altro prese una boccata e aspirò il fumo avidamente, ma non rispose.
“E tu, tu hai mai ucciso?” insistette il primo.
Il marine trasse un sospiro e finalmente disse, scegliendo con cura le parole: “Sì, più di una volta. Ma senza piacere e anzi con sofferenza, anche se si trattava di coloro che abbiamo il dovere di uccidere, che ci viene ordinato di uccidere”.
“Però lo hai fatto…” ribatté l’arabo senza smettere di fissarlo.
“L’ho fatto e lo rifarò, se sarà necessario” rispose il soldato con uno scintillio triste nello sguardo “ma so che, quando sarà finita, se rimarrò vivo dovrò fare i conti con il mio Dio e con la mia coscienza”.
Esistono gli ordini, pensava il tenente, e agli ordini si deve obbedire: chi era lui per discuterli? Lui, tutti i suoi compagni alla fine non contavano niente, erano solo ingranaggi in un meccanismo più grande di loro, che forse prima o poi li avrebbe stritolati tutti, fino all’ultimo. Semplici strumenti nelle mani di chi decideva il loro destino.
E anche se quella non era la sua guerra, anche se erano lì per proteggere i civili e non vedeva quegli uomini come nemici, sapeva che invece Mahmoud e la sua famiglia li odiavano e che se li avesse incontrati in una situazione diversa probabilmente avrebbe dovuto combattere contro di loro, difendersi anche a costo di ucciderli.
Del resto, aveva scelto liberamente di arruolarsi perché credeva nei valori di cui il suo paese si faceva portavoce nel mondo e perché voleva disperatamente assomigliare a suo padre, eguagliare la sua forza e il suo coraggio, dimostrati in una guerra persino più sanguinosa di quella che ora stava lacerando il Medio Oriente. 
“Il tuo Dio” proseguì l’altro, distogliendo lo sguardo da lui e appuntandolo sulle persone sedute intorno al fuoco “consente che donne e bambini innocenti, che avevano trovato un rifugio alla loro miserevole sorte di profughi, siano massacrati uno a uno senza che voi occidentali, che vi ritenete l’emblema stesso della civiltà, facciate nulla per salvarli? Anzi, con la complicità del vostro silenzio e della vostra inerzia?”.
Sabra e Chatila(4).
Ecco di cosa parlava, trattenendo a stento il furore che adesso gli faceva tremare leggermente la voce: il tremendo massacro portato a termine daifalangisti cristiani con la piena copertura degli israeliani - si diceva - e che aveva reso la situazione libanese ancor più incandescente. Certo, nessuno dei suoi si sarebbe azzardato a parlare apertamente della cosa, né tanto meno a contestarla, eppure non si potevano ignorare le voci che circolavano tra i soldati in missione, né fare altro che ammettere l’atrocità di quel gesto insensato.
 “A volte” rifletté amaramente il soldato “penso che se ci fosse davvero un Dio non avrebbe mai permesso che avvenisse ciò che io stesso ho visto con i miei occhi. Però in fondo chi sono per poter giudicare la sua volontà? Io ho bisogno di credere che ci sia qualcuno, qualcosa di superiore che perdona e comprende la mia debolezza”.
“Non credo che il tuo Dio e il mio Dio abbiano idee diverse al riguardo” rispose però secco, sperando che l’altro cogliesse il riferimento celato dietro le sue parole solo apparentemente concilianti: quanti delitti erano stati commessi anche nel nome di Allah? Quanti misfatti giustificati in base alla sua pretesa volontà? Che colpa avevano, ad esempio, gli impiegati libanesi morti assieme ai soldati americani nell’attacco kamikaze che ad aprile aveva devastato l’ambasciata USA a Beirut?
L’altro per tutta risposta stirò le labbra sottili in una specie di sorriso e rispose: “Tu sei diverso, americano, l’ho capito fin dal primo momento; se solo tu e i tuoi non foste dalla parte di quei maledetti israeliani…”.
Ecco, quello era il punto: l’odio feroce verso Israele che aveva scacciato i palestinesi dalla loro terra, che lottava per espandere i propri confini rappresentando una minaccia per i paesi circostanti.
“Io sono dalla parte del mio paese e delle Nazioni Unite” ribatté il tenente, mentre dentro di lui il ricordo scavava la sua anima come un ruscello la roccia. Chissà perché in quel momento gli tornò in mente ancora una volta suo padre: il marine Mckenna Boyd Taylor senior apparteneva alla Sesta Divisione Corazzata che nel 1945 partecipò alla liberazione del campo di sterminio di Buchenwald e, rare volte, aveva raccontato al figlio gli orrori che era stato costretto a vedere e la cui memoria, lo si capiva, l’aveva accompagnato fino al suo ultimo istante di vita.
Le fosse piene di cadaveri, gli uomini ridotti a scheletri, con gli occhi spenti e l’anima devastata, eppure ostinatamente vivi. Di uno in particolare suo padre gli aveva parlato: dormiva sul pavimento di una baracca e, quando lui lo aveva svegliato, aveva sussultato per il terrore forse pensando che fossero le guardie del campo o le SS che, avendo capito che la guerra era persa, stavano cercando di eliminare quanti più testimoni potevano delle loro efferatezze.
Però poi lo aveva guardato in viso, aveva squadrato la sua divisa e letto l’orrore nei suoi occhi; il prigioniero era calvo, forse pesava sì e no quaranta chili e la sua pelle era grigia e fredda come quella un cadavere, ma nonostante ciò suo padre lo aveva tirato su vincendo la repulsione che quel contatto suo malgrado gli provocava, gli aveva offerto la sua giacca e  poi lo aveva portato fuori dalla baracca piena di morti accatastati tenendolo tra le braccia perché non riusciva a camminare.
Una barretta di cioccolato era stato tutto ciò che aveva potuto dargli, tutto ciò che il suo stomaco vuoto sarebbe stato capace di tollerare, però il prigioniero gli aveva sussurrato tra le lacrime che nulla in tutta la sua vita avrebbe avuto mai lo stesso sapore (5).
La storia umana aveva le sue vendette e la sua amara, amarissima, ironia.
Vittime e carnefici. Dolore subito e dolore inflitto.
L’odio ricevuto può giustificare il male?
Mac Taylor era solo un ragazzo sperduto sotto un cielo straniero e non sarebbe riuscito a trovare una risposta a quelle domande nemmeno se da ciò fosse dipesa la sua vita. Ciò che aveva, però, compreso era che adesso dovevano andarsene, tornare a Beirut, perché quella strana situazione poteva degenerare da un momento all’altro in maniera imprevista.
Perciò si alzò e prese congedo da Mahmoud, ordinando ai soldati di prepararsi in fretta e riprendere posto sulle auto; avrebbe voluto salutare anche Shirin che - lo aveva sentito anche quando non era voltato verso di lei - non lo aveva abbandonato nemmeno un istante, seguendolo con lo sguardo in ogni gesto, parola ed espressione del viso, ma comprese che suo padre non avrebbe consentito gesti del genere.
Più di una volta durante quella serata, quando fugacemente i loro occhi si erano incontrati e lei non li aveva abbassati come invece lui si sarebbe aspettato facesse, era stato attraversato dalla sensazione che volesse dirgli qualcosa. Ma non era stato possibile e del resto, anche se ne avessero avuto l’occasione, forse non sarebbero comunque riusciti a intendersi: appartenevano a due mondi troppo distanti, che forse nulla avevano in comune, e il loro sarebbe rimasto per sempre un dialogo impossibile.
 
 
 
 

  
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