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Autore: Ato    12/09/2012    5 recensioni
Dalla storia: "Itachi non gli credeva, nonostante si mostrasse molto apprensivo ogni volta che ne parlavano. Gli rivolgeva domande accorte e intelligenti, con gentilezza lo induceva ad ammettere che tutto quello aveva un che di assurdo, che non era sano sentirsi spiati e che soprattutto nessuno ci sarebbe riuscito.
Quando era di particolare buonumore, Itachi gli dava un buffetto sulla fronte, gli sorrideva, mormorava qualcosa come sono certo che hai già superato l’età dell’amico immaginario, Sasuke. [...]
Sasuke sentì quella consapevolezza al centro del petto come se fosse stato istantaneamente penetrato dalla più affilata delle armi.
Si era fidato del poligrafo. Aveva sbagliato.
Qualcuno era morto per questo.
Più di qualcuno, a dire il vero."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Itachi, Sasuke Uchiha
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Naruto Shippuuden
Capitoli:
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Questa storia ha partecipato a La Bella Estate [Uchihacest Summer Contest indetto dal forum New Moon – II Edizione] classificandosi terza.

Ne approfitto per ringraziare la giudice che è stata puntualissima e soddisfacente coi giudizi. In più ho già letto quasi tutte le altre storie partecipanti e non posso fare a meno di suggerirvene la lettura, quindi complimenti anche a tutte le altre ragazze!

 

Passando a questa fanfiction nello specifico ho una premessa da fare – spero di essere breve ma vi invito anche a mettervi comodi XD

È un po’ particolare, l’ho scritta come sfida pur sapendo che non fosse per niente adatta a partecipare a un contest. Ci tengo a precisarlo perché per ragioni di trama Itachi non è sempre IC. Questo non significa che mi sono presa la briga di farlo OOC per capriccio, ma spero di riuscire ad argomentare bene le mie ragioni nel corso della storia. L’alternanza tra IC!Itachi e OOC!Itachi è un punto focale della trama, quindi spero che abbiate il coraggio e la pazienza di perdonarmi XD

Altre note sparse:

-         Ci sono spoiler e riferimenti all’ultimo arco narrativo con Itachi e Sasuke, fino al capitolo 593.

-         Nekomata è il duecode. L’ho associato a Sasuke perché tra i demoni è quello legato al regno dei morti, viene chiamato spirito della vendetta, e poi è un gatto, quindi mi sembrava l’animale più vicino al clan Uchiha.

-         Il titolo della fiction è un omaggio a Brian Molko, You’re the truth not I  è un verso di Twenty years dei Placebo.

Questo è il primo dei tre capitoletti. Buona lettura! J

 

You’re the truth not I

Prologo

Nekomata sentiva che gli occhi stavano andando in fiamme. Sotto il suo sguardo giaceva un ragazzo che gli somigliava tantissimo. Il demone si chiese come fosse possibile che un essere umano, così giovane, così piccolo, così provvisorio, avesse il suo stesso fuoco negli occhi.

Una ragazza era in ginocchio vicino a lui. Aveva poggiato la testa del ragazzo sulle proprie ginocchia e gli sfiorava il polso destro con due dita fermissime. Anche lei non riusciva a distogliere lo sguardo da quello del ragazzo. Nekomata si chiese cosa ci fosse di magnetico in uno sguardo così tremendamente rosso e piatto.

Poco distante da loro, c’era un altro ragazzo. Quello che pronunciava promesse con leggerezza e solennità – un altro umano così sprovveduto da pensare di poter conciliare quelle due cose nello spazio di una frase. L’unico che poteva dargli retta era proprio Kurama, tanto disilluso e arrabbiato da rivelarsi credulone come un bambino. Nekomata si chiese come mai il jinchuuriki non si fosse lasciato ammaliare dallo sguardo rosso di quello disteso a terra, nonostante fosse evidente che in quegli occhi avrebbe desiderato persino morirci pur di vederli ancora per qualche istante.

Poi lo vide rivolgersi alla ragazza inginocchiata a terra. «Allora, hai capito cos’è successo? Cosa faccio?».

Lei sollevò il viso, lo guardò con una limpidità che sapeva di speranza – di quella speranza tipica dei soliti umani sprovveduti. «Sì», disse. «Devi continuare ad attaccarlo, mettilo sotto pressione».

Nekomata colse le occhiate che si scambiarono quello dai sorrisi impropri e quella dalle mani ferme. Si chiese come fosse possibile che esistesse qualcuno dotato di uno sguardo in cui bruciava qualcosa più forte delle fiamme della vendetta.

 

 

 

Capitolo 1

 

«Se ti liberi di Itachi, sparisce anche l’estate» lo avvisò Shisui, ilare. «È colpa sua se fa tanto caldo».

Sasuke sbuffò, avviandosi a spalancare le finestre. Venne investito da aria talmente afosa che il solo pensiero di tirare un altro respiro riusciva a riempirlo di angoscia. Gettò un’occhiata alla scrivania, valutando l’utilità del ventaglio che aveva abbandonato tra un mucchio di carte troppo impegnative e una macchina persino più insidiosa.

Il poligrafo lo usava ogni giorno, riponendo piena fiducia nei suoi meccanismi. Sin da quando ne era entrato in possesso, l’aveva trovato molto utile nella soluzione di interrogatori che conduceva personalmente in quanto membro di spicco della polizia di Konoha.

«Se continui a guardarlo così rischi di incenerire ventimila soffertissimi ryo dell’hokage», osservò Shisui, senza particolare sussiego.

«Non ho intenzione di liberarmene, se è questo che speri».

Sasuke lo scrutò con attenzione e decise di non insistere oltre quando lui di tutta risposta dopo un’occhiata severa scrollò lo spalle.

Erano due giorni che Shisui aveva ripreso a insistere con quella storia: condannava rigorosamente l’uso del poligrafo. Sasuke ricordava alla perfezione le poche parole che suo cugino utilizzava con cadenza pressappoco mensile per diffondere quello che sembrava il suo nuovo credo ninja. Non esiste nessuna macchina della verità, Sasuke, diceva, con un sorriso gentile, come di uno che si prepara a dare una terribile notizia a una mente instabile. Non esiste nessuna macchina della verità, Sasuke. Perché la verità non esiste.

«Sai come la penso», ribadì Sasuke, ignorando il proposito di pochi istanti prima. «Credo che la verità sia alla base di tutto. Voglio solo capire se questa macchina può aiutarmi a conoscerla».

«E quanti uomini dovranno morire ancora prima che tu capirai?»

La porta si spalancò proprio nel momento in cui la sentenza di Shisui finiva di gettare ombre scure sul viso di Sasuke.

Itachi entrò con calma e si concesse qualche secondo per studiare la situazione. «Sento odore di vecchi dissapori» esordì, col chiaro intento di alleggerire l’atmosfera. «Mantieni ancora la tua posizione, otouto?»

Sasuke annuì seccamente, girando attorno alla scrivania. Si avventò con nervosismo malcelato sui cavi del poligrafo tentando di venire a capo del groviglio di nodi. Senza sollevare lo sguardo, fece segno a Itachi di sedersi sulla sedia che aveva preparato per lui. «Sto cercando di fare la cosa giusta», precisò, e gli sembrò sbagliata l’idea stessa di doverlo precisare, come se tutti in quella stanza avessero avuto bisogno della sua rassicurazione.

Itachi prese posto davanti alla macchina, gli porse le mani e lo lasciò fare quando Sasuke iniziò a piazzare i sensori sulle sue dita.

La sera prima Sasuke gli aveva chiesto se fosse disposto a fare una prova al poligrafo per vedere se fosse possibile evaderne il controllo. Non era stato piacevole perché era chiaro che Sasuke si era rivolto a lui in qualità di bugiardo esemplare. Ma era anche vero che dare del bugiardo a suo fratello era un diritto che riteneva squisitamente suo e di nessun altro. Sapeva di capricci di bimbo – sei un bugiardo, nii-san – di sorrisi imbarazzati e caldi, di buffetti sulla fronte, di promesse mancate ma sentite – perdonami Sasuke, sarà per la prossima volta – sapeva di esclusività perché Sasuke aveva l’incoerenza sufficiente a fulminare con lo sguardo chiunque altro avesse dato del bugiardo a Itachi.

«Sei pronto?» lo interrogò, prendendo il blocco per gli appunti.

Itachi lo invitò a proseguire senza mostrare alcun segno di nervosismo, ed era esattamente la stessa cosa che faceva davanti a un nemico prima di farlo inginocchiare graziosamente ai suoi piedi e risparmiarlo per buona misura con un sorriso più o meno gentile, a seconda dei casi.

Sasuke tentò di non lasciarsi irritare da tutta quella calma. «Sei Uchiha Itachi?»

«Sì».

Osservò la registrazione del poligrafo e si appuntò i parametri vitali che corrispondevano alla sincerità di Itachi.

«Fa caldo?»

«Sì, ma è sopportabile».

Sasuke arricciò il naso, gettando uno sguardo al colletto della divisa di Itachi: era perfettamente composto e il pensiero di respirare afa evidentemente in lui non risvegliava istinti suicidi.

Sasuke odiava l’estate.

«Siamo tre persone in questa stanza?»

«Dipende».

«Itachi».

 

Quella storia andava avanti da un po’. Da un bel po’, a dire il vero. Tanto che Sasuke non avrebbe saputo dire quando fosse cominciata con precisione. Sapeva solo che a un certo punto della sua vita non era stato più solo, nemmeno nei momenti in cui la solitudine gli era sembrata un tesoro prezioso invece che qualcosa per cui morire di nostalgia.

Quasi sempre, di notte e di giorno, persino nel dormiveglia, riflessi rossi si posavano ai limiti del suo campo visivo, tracciando linee discontinue. Era come finire tra braccia troppo piccole per circondarlo tutto, ma sufficienti a soffocarlo.

I riflessi rossi erano un velo finissimo che si posava su ogni superficie e quasi la cristallizzava, la rendeva parte di un momento sospeso nel tempo. A volte sembrava che tutto quel rosso fosse in grado di mangiarsi l’aria; altre volte tutto quel rosso era così discreto da sembrare solo il riflesso di una lanterna che per fargli strada restava sempre accesa.

A volte Sasuke aveva tentato di trovare la fonte di tutto quel rosso. Non sempre ci riusciva, ma quando accadeva gli mancava il respiro, il cuore gli balzava in gola, il sangue nelle vene scorreva impazzito come se la paura ne assecondasse il rigurgito. Quando Sasuke si girava di scatto, spesso vedeva un enorme occhio rosso, uno solo. Ed era grande, così grande che Sasuke nei momenti di panico riusciva solo a pensare che l’occhio gemello dovesse essere visibile all’altro capo del mondo e che insieme, quegli occhi, fossero lo sguardo di qualche demone infernale.

Itachi non gli credeva, nonostante si mostrasse molto apprensivo ogni volta che ne parlavano. Gli rivolgeva domande accorte e intelligenti, con gentilezza lo induceva ad ammettere che tutto quello aveva un che di assurdo, che non era sano sentirsi spiati e che soprattutto nessuno ci sarebbe riuscito.

Quando era di particolare buonumore, Itachi gli dava un buffetto sulla fronte, gli sorrideva, mormorava qualcosa come sono certo che hai già superato l’età dell’amico immaginario, Sasuke.

 

Siamo tre persone in questa stanza?

Dipende.

«Non ricominciare con la storia dell’amico immaginario» lo avvertì Sasuke, abbastanza seccato, puntando un dito nell’aria che a lui sembrava comunque ammantata di riflessi rossi. Solo a lui, in ogni caso.

«Non era mia intenzione, Sasuke. In realtà stavo invitando nostro cugino a lasciarci soli».

Shisui li guardò con aria innocente e petulante. «Me ne vado subito se mi dici come si chiama il tuo amichetto immaginario, Sasuke» sorrise, e c’era un che di luciferino nel suo sguardo: luciferino ma delicato.

Quel comportamento riusciva a far sentire Sasuke come il più immaturo dei bambini, uno di quelli che non erano nemmeno entrati nell’età dei perché ma erano ancora troppo preda delle proprie fantasie per porsi qualche domanda sulla realtà delle cose.

«Si chiama chidori e sta per arrivarti in faccia» gli rispose lui, bruscamente.

«Va bene, va bene» acconsentì l’altro, per nulla scomposto, «me ne vado. Vi lascio lavorare».

Sasuke trasse un lungo respiro quando vide la porta ritornare nella sua cornice, finalmente chiusa. Respirare afa gli sembrava più sopportabile senza quell’imbecille di Shisui. «Riprendiamo?»

Itachi annuì con calma. Se era divertito, era comunque abbastanza bravo da non lasciarlo intendere.

«Ti piacciono i dolci?»

«Sì».

«Ti piace provare a farmeli mangiare?»

«È uno dei miei passatempi preferiti, otouto».

Sasuke assottigliò lo sguardo, minaccioso, eppure le sue labbra si arricciarono nel tentativo di trattenere un sorriso. «Credi in Konoha?»

«Assolutamente».

«Ora cominciamo con le bugie» avvisò Sasuke, ignorando il modo strano in cui l’ultima risposta gli aveva stretto lo stomaco. «Alle prossime domande devi mentire, così io posso vedere se il poligrafo segna la menzogna o continua a registrare le tue risposte come verità».

«Va bene».

«Mi chiederai perdono per aver tentato di farmi mangiare quei dolci?»

«Sì» sorrise Itachi, trattenendo tra le labbra una verità molto più sottile – non gli avrebbe mai più chiesto perdono.

Eppure il poligrafo diceva che quel era stato sincero.

«Hai detto la verità?»

«Sì».

«Itachi, questa era una domanda al di fuori dell’esperimento», sbuffò Sasuke, esasperato. «Vuoi davvero chiedermi perdono?»

«Devo dirti la verità o devo mentirti?»

C’era una luce particolare negli occhi di Itachi, forse la stessa che gli animava lo sguardo ogni volta che Sasuke gli faceva notare quanto fosse irritante che un tipo serio come lui sfruttava il suo otouto per fare del sottile umorismo.

«Lascia stare, andiamo avanti e rispondi con una bugia», decise, pensando alla domanda seguente. «La smetterai mai di chiamarmi Dr. Snake?»

«Sì».

Sasuke sbarrò gli occhi, puntandoli più urgentemente sul tracciato del poligrafo. Ancora una volta indicava che Itachi non stava mentendo. Sasuke serrò le labbra in una linea sottilissima.

Il poligrafo non sbagliava mai.

«Credi che gli uomini vivano immersi nei propri preconcetti?»

«No».

Il poligrafo non sbagliava mai. Il poligrafo non confondeva verità e menzogne.

Sasuke si agitò sulla poltrona, controllando l’ago e la carta su cui veniva inciso il tracciato.

«Hai sempre desiderato che io avessi i tuoi occhi?»

«No».

Bugia. Sasuke sapeva che Itachi non aveva desiderato altro da quando aveva tredici anni. Sarò la tua luce, Sasuke. Era sempre stato così.

Eppure il poligrafo diceva il contrario. Il poligrafo diceva che Itachi non stava mentendo.

Sasuke incassò la punta della penna nel blocco degli appunti, la sentì scoppiare tra le mani. Osservò senza vederle davvero le proprie dita sporche di inchiostro. I riflessi violetti si confondevano con altri più tenui ma penetranti alla vista e rossi.

«Shisui ha ragione a dire che questa macchina non serve a niente?» sfiatò, senza energia.

Itachi gli lanciò una lunga occhiata. «Vuoi sapere la verità o vuoi un’altra bugia?»

Lui sventolò lentamente la mano, portandosela sugli occhi. «Non importa».

«Penso che abbia ragione».

E lui invece aveva sbagliato.

Sasuke sentì quella consapevolezza al centro del petto come se fosse stato istantaneamente penetrato dalla più affilata delle armi.

Si era fidato del poligrafo. Aveva sbagliato.

Qualcuno era morto per questo.

Più di qualcuno, a dire il vero.

«Credi che le persone forti siano in grado di perdonarsi?» chiese, attendendo una risposta che credeva di conoscere, qualcuna in cui avrebbe trovato conforto – sì, otouto.

Itachi si sfilò lentamente i sensori dalle dita, si sporse verso di lui incrociando le braccia sopra la scrivania. «Credo che se non è la vittima a perdonare per prima, allora il carnefice non potrà mai perdonarsi. E credo che i morti non perdonino, Sasuke».

 

***

 

Itachi era riuscito a battere la macchina della verità.

A volte Sasuke si lasciava ancora accarezzare dal pensiero che suo fratello fosse perfetto – e cos’era la perfezione se non la capacità di vincere sempre? Itachi l’aveva avuta vinta persino su una macchina di ultima generazione, a cui avevano lavorato le menti più sofisticate del loro secolo.

Il colmo era stato che mentre lui si stizziva per determinati pensieri – la perfezione non esiste, per questo nasciamo in grado di assorbire le cose – Itachi aveva smesso di parlare con una ragazza che l’aveva definito perfetto. Le aveva rivolto un sorriso misurato, l’aveva ringraziata con un paio di parole di cortesia e si era avviato verso di lui, in mezzo a migliaia di riflessi rossi.

«Perdonami, Sasuke, sono stato trattenuto» si scusò.

Sasuke si irrigidì a sentire quella parola che aveva archiviato da tempo tra ricordi piacevoli, pur sapendo che sarebbe stato ancora più piacevole non ascoltarla più.

«Mi sembri nervoso, Sasuke».

La strada verso casa invece sembrava un calvario. «Sai che odio questo calore assurdo».

«Non dovresti» osservò Itachi, tenendo il passo. «Ti ho già detto cosa significa ora l’estate per Konoha, no?»

«Sì, solo un centinaio di volte» lo smorzò lui, abbassando un po’ la zip della divisa sul petto.

«Magari devo ripetertelo».

«Perché mai?»

«È che mi sembra strano…» ragionò Itachi, invitandolo a rallentare. «Tu ami così tanto la verità e poi odi l’estate».

«Non c’è niente di strano».

«So che eri in coma quando con l’hokage abbiamo tenuto un discorso in tuo onore, perciò probabilmente non ti rendi conto delle nostre decisioni. Tu ci hai insegnato il valore della verità. E quando pensavamo che non ti saresti ripreso abbiamo deciso di fare qualcosa in memoria di te».

«Creare un’illusione per cui è sempre estate non è stata una mossa intelligente, nii-san», si lamentò lui, senza mostrarsi troppo toccato dal gesto. Si passò una mano tra i capelli umidi. Chiuse gli occhi quando gli parve che la testa minacciasse di mettersi a vorticare.

«Esiste qualcosa che sia più vero e sincero dell’estate?» gli chiese Itachi, dimostrando una certa delicatezza quando non scoppiò a ridergli in faccia.

Sasuke sollevò un sopracciglio, sul punto di organizzare una piccola ma dignitosa rappresaglia.

«L’estate è vera, otouto. Nessuno riesce a girare con delle maschere o a indossare pesanti cappotti per nascondere chissà cosa. La gente si spoglia e non ha paura di mostrare la propria pelle; è di buonumore perché è come se tutta questa luce sia quella della speranza, di una speranza che non muore mai…»

«Questi motivi potrei recitarli a memoria, nii-san» lo informò Sasuke, accorgendosi dello sguardo compiaciuto di suo fratello. «Ma continuo a trovarli imbecilli».

«Sei impossibile» sorrise l’altro, quasi leggiadro.

«Ma almeno io sono sempre lo stesso». Sasuke si voltò per osservare attentamente il profilo di suo fratello: se si era sentito attaccato da quella frase sicuramente aveva fatto in modo di non darlo a vedere.

Era Itachi, quello che l’aveva spuntata persino contro la macchina della verità.

«Che cosa intendi, Sasuke?»

«Dico che a volte mi sembri strano» gli fece presente, guardando avanti per trovare le parole adatte a spiegarsi. «A volte non sembri nemmeno tu. E perché diavolo sembra che ora credi nella perfezione?»

Itachi sorrise, allungando una mano verso di lui. «Hai ascoltato la conversazione con quella ragazza?» indagò, sostenuto. «Vuoi sapere cosa avrei risposto a te se mi avessi detto qualcosa del genere?»

Sasuke rimase immobile, a occhi chiusi, attendendo parole rassicuranti.

La perfezione non esiste, per questo nasciamo in grado di assorbire le cose.

Arrivò il solito buffetto sulla fronte. «Anche tu puoi essere perfetto».

 

***

 

   
 
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