Questa storia ha partecipato a
La Bella Estate [Uchihacest Summer
Contest indetto dal forum New Moon – II Edizione] classificandosi terza.
Ne approfitto per ringraziare
la giudice che è stata puntualissima e soddisfacente coi giudizi. In più ho già
letto quasi tutte le altre storie partecipanti e non posso fare a meno di
suggerirvene la lettura, quindi complimenti anche a tutte le altre ragazze!
Passando a questa fanfiction nello specifico ho una premessa
da fare – spero di essere breve ma vi invito anche a mettervi comodi XD
È un po’ particolare, l’ho scritta come sfida pur sapendo
che non fosse per niente adatta a partecipare a un contest. Ci tengo a
precisarlo perché per ragioni di trama Itachi non è sempre IC. Questo non
significa che mi sono presa la briga di farlo OOC per capriccio, ma spero di riuscire
ad argomentare bene le mie ragioni nel corso della storia. L’alternanza tra IC!Itachi
e OOC!Itachi è un punto focale della trama, quindi spero che abbiate il
coraggio e la pazienza di perdonarmi XD
Altre note sparse:
-
Ci sono spoiler e riferimenti all’ultimo arco
narrativo con Itachi e Sasuke, fino al capitolo 593.
-
Nekomata è il duecode. L’ho associato a
Sasuke perché tra i demoni è quello legato al regno dei morti, viene chiamato spirito della vendetta, e poi è un
gatto, quindi mi sembrava l’animale più vicino al clan Uchiha.
-
Il titolo della fiction è un omaggio a Brian Molko, You’re the truth not I è un verso di Twenty years dei Placebo.
Questo è il primo dei tre capitoletti. Buona lettura! J
You’re the truth not I
Prologo
Nekomata sentiva che gli occhi stavano
andando in fiamme. Sotto il suo sguardo giaceva un ragazzo che gli somigliava
tantissimo. Il demone si chiese come fosse possibile che un essere umano, così
giovane, così piccolo, così provvisorio,
avesse il suo stesso fuoco negli occhi.
Una ragazza era in ginocchio vicino a
lui. Aveva poggiato la testa del ragazzo sulle proprie ginocchia e gli sfiorava il polso destro con due dita fermissime.
Anche lei non riusciva a distogliere lo sguardo da quello del ragazzo. Nekomata
si chiese cosa ci fosse di magnetico in uno sguardo così tremendamente rosso e
piatto.
Poco distante da loro, c’era un altro
ragazzo. Quello che pronunciava promesse con leggerezza e solennità – un altro
umano così sprovveduto da pensare di poter conciliare quelle due cose nello
spazio di una frase. L’unico che poteva dargli retta era proprio Kurama, tanto
disilluso e arrabbiato da rivelarsi credulone come un bambino. Nekomata si
chiese come mai il jinchuuriki non si fosse lasciato ammaliare dallo sguardo
rosso di quello disteso a terra, nonostante fosse evidente che in quegli occhi
avrebbe desiderato persino morirci pur di vederli ancora per qualche istante.
Poi lo vide rivolgersi alla ragazza
inginocchiata a terra. «Allora, hai capito cos’è successo? Cosa faccio?».
Lei sollevò il viso, lo guardò con una
limpidità che sapeva di speranza – di quella speranza tipica dei soliti umani
sprovveduti. «Sì», disse. «Devi continuare ad attaccarlo, mettilo sotto
pressione».
Nekomata colse le occhiate che si
scambiarono quello dai sorrisi impropri e quella dalle mani ferme. Si chiese come
fosse possibile che esistesse qualcuno dotato di uno sguardo in cui bruciava
qualcosa più forte delle fiamme della vendetta.
Capitolo 1
«Se ti liberi di Itachi, sparisce anche
l’estate» lo avvisò Shisui, ilare. «È colpa sua se fa tanto caldo».
Sasuke sbuffò, avviandosi a spalancare
le finestre. Venne investito da aria talmente afosa che
il solo pensiero di tirare un altro respiro riusciva a riempirlo di angoscia.
Gettò un’occhiata alla scrivania, valutando l’utilità del ventaglio che aveva
abbandonato tra un mucchio di carte troppo impegnative e una macchina persino
più insidiosa.
Il poligrafo lo usava ogni giorno,
riponendo piena fiducia nei suoi meccanismi. Sin da quando ne era entrato in
possesso, l’aveva trovato molto utile nella soluzione di interrogatori che
conduceva personalmente in quanto membro di spicco della polizia di Konoha.
«Se continui a guardarlo così rischi di
incenerire ventimila soffertissimi ryo
dell’hokage», osservò Shisui, senza particolare sussiego.
«Non ho intenzione di liberarmene, se è
questo che speri».
Sasuke lo scrutò con attenzione e decise
di non insistere oltre quando lui di tutta risposta dopo un’occhiata severa
scrollò lo spalle.
Erano due giorni che Shisui aveva
ripreso a insistere con quella storia: condannava rigorosamente l’uso del
poligrafo. Sasuke ricordava alla perfezione le poche parole che suo cugino
utilizzava con cadenza pressappoco mensile per diffondere quello che sembrava
il suo nuovo credo ninja. Non esiste
nessuna macchina della verità, Sasuke, diceva, con un sorriso gentile, come
di uno che si prepara a dare una terribile notizia a una mente instabile. Non esiste nessuna macchina della verità,
Sasuke. Perché la verità non esiste.
«Sai come la penso», ribadì Sasuke,
ignorando il proposito di pochi istanti prima. «Credo che la verità sia alla
base di tutto. Voglio solo capire se questa macchina può aiutarmi a
conoscerla».
«E quanti uomini dovranno morire ancora
prima che tu capirai?»
La porta si spalancò proprio nel momento
in cui la sentenza di Shisui finiva di gettare ombre scure sul viso di Sasuke.
Itachi entrò con calma e si concesse
qualche secondo per studiare la situazione. «Sento odore di vecchi dissapori»
esordì, col chiaro intento di alleggerire l’atmosfera. «Mantieni ancora la tua
posizione, otouto?»
Sasuke annuì seccamente, girando attorno
alla scrivania. Si avventò con nervosismo malcelato sui cavi del poligrafo
tentando di venire a capo del groviglio di nodi. Senza sollevare lo sguardo, fece segno a Itachi di sedersi sulla sedia che aveva
preparato per lui. «Sto cercando di fare la cosa giusta», precisò, e gli sembrò
sbagliata l’idea stessa di doverlo precisare, come se tutti in quella stanza
avessero avuto bisogno della sua rassicurazione.
Itachi prese posto davanti alla
macchina, gli porse le mani e lo lasciò fare quando Sasuke iniziò a piazzare i
sensori sulle sue dita.
La sera prima Sasuke gli aveva chiesto
se fosse disposto a fare una prova al poligrafo per vedere se fosse possibile
evaderne il controllo. Non era stato piacevole perché era chiaro che Sasuke si
era rivolto a lui in qualità di bugiardo
esemplare. Ma era anche vero che dare del bugiardo a suo fratello era un
diritto che riteneva squisitamente suo e di nessun altro. Sapeva di capricci di
bimbo – sei un bugiardo, nii-san – di
sorrisi imbarazzati e caldi, di buffetti sulla fronte, di promesse mancate ma
sentite – perdonami Sasuke, sarà per la
prossima volta – sapeva di esclusività perché Sasuke aveva l’incoerenza
sufficiente a fulminare con lo sguardo chiunque altro avesse dato del bugiardo
a Itachi.
«Sei pronto?» lo interrogò, prendendo il
blocco per gli appunti.
Itachi lo invitò a proseguire senza
mostrare alcun segno di nervosismo, ed era esattamente la stessa cosa che
faceva davanti a un nemico prima di farlo inginocchiare graziosamente ai suoi
piedi e risparmiarlo per buona misura con un sorriso più o meno gentile, a
seconda dei casi.
Sasuke tentò di non lasciarsi irritare
da tutta quella calma. «Sei Uchiha Itachi?»
«Sì».
Osservò la registrazione del poligrafo e
si appuntò i parametri vitali che corrispondevano alla sincerità di Itachi.
«Fa caldo?»
«Sì, ma è sopportabile».
Sasuke arricciò il naso, gettando uno
sguardo al colletto della divisa di Itachi: era perfettamente composto e il
pensiero di respirare afa evidentemente in lui non risvegliava istinti suicidi.
Sasuke
odiava l’estate.
«Siamo tre persone in questa stanza?»
«Dipende».
«Itachi».
Quella storia andava avanti da un po’.
Da un bel po’, a dire il vero. Tanto che Sasuke non avrebbe saputo dire quando
fosse cominciata con precisione. Sapeva solo che a un certo punto della sua vita
non era stato più solo, nemmeno nei momenti in cui la solitudine gli era
sembrata un tesoro prezioso invece che qualcosa per cui morire di nostalgia.
Quasi sempre, di notte e di giorno,
persino nel dormiveglia, riflessi rossi si posavano ai limiti del suo campo
visivo, tracciando linee discontinue. Era come finire tra braccia troppo
piccole per circondarlo tutto, ma sufficienti a soffocarlo.
I riflessi rossi erano un velo finissimo
che si posava su ogni superficie e quasi la cristallizzava, la rendeva parte di
un momento sospeso nel tempo. A volte sembrava che tutto quel rosso fosse in
grado di mangiarsi l’aria; altre volte tutto quel rosso era così discreto da
sembrare solo il riflesso di una lanterna che per fargli strada restava sempre
accesa.
A volte Sasuke aveva tentato di trovare
la fonte di tutto quel rosso. Non sempre ci riusciva, ma quando accadeva gli
mancava il respiro, il cuore gli balzava in gola, il sangue nelle vene scorreva
impazzito come se la paura ne assecondasse il rigurgito. Quando Sasuke si
girava di scatto, spesso vedeva un enorme occhio rosso, uno solo. Ed era
grande, così grande che Sasuke nei momenti di panico riusciva solo a pensare
che l’occhio gemello dovesse essere visibile all’altro capo del mondo e che
insieme, quegli occhi, fossero lo
sguardo di qualche demone infernale.
Itachi non gli credeva, nonostante si
mostrasse molto apprensivo ogni volta che ne parlavano. Gli rivolgeva domande
accorte e intelligenti, con gentilezza lo
induceva ad ammettere che tutto quello aveva un che di assurdo, che non era
sano sentirsi spiati e che soprattutto nessuno ci sarebbe riuscito.
Quando era di particolare buonumore,
Itachi gli dava un buffetto sulla fronte, gli sorrideva, mormorava qualcosa
come sono certo che hai già superato l’età
dell’amico immaginario, Sasuke.
Siamo
tre persone in questa stanza?
Dipende.
«Non ricominciare con la storia
dell’amico immaginario» lo avvertì Sasuke, abbastanza seccato, puntando un dito
nell’aria che a lui sembrava comunque ammantata di riflessi rossi. Solo a lui, in ogni caso.
«Non era mia intenzione, Sasuke. In
realtà stavo invitando nostro cugino a lasciarci soli».
Shisui li guardò con aria innocente e
petulante. «Me ne vado subito se mi dici come si chiama il tuo amichetto
immaginario, Sasuke» sorrise, e c’era un che di luciferino nel suo sguardo: luciferino ma delicato.
Quel comportamento riusciva a far
sentire Sasuke come il più immaturo dei bambini, uno di quelli che non erano
nemmeno entrati nell’età dei perché ma erano ancora troppo preda delle proprie
fantasie per porsi qualche domanda sulla realtà delle cose.
«Si chiama chidori e sta per arrivarti in faccia» gli rispose lui,
bruscamente.
«Va bene, va bene» acconsentì l’altro,
per nulla scomposto, «me ne vado. Vi lascio lavorare».
Sasuke trasse un lungo respiro quando
vide la porta ritornare nella sua cornice, finalmente chiusa. Respirare afa gli
sembrava più sopportabile senza quell’imbecille di Shisui. «Riprendiamo?»
Itachi annuì con calma. Se era divertito,
era comunque abbastanza bravo da non lasciarlo intendere.
«Ti piacciono i dolci?»
«Sì».
«Ti piace provare a farmeli mangiare?»
«È uno dei miei passatempi preferiti,
otouto».
Sasuke assottigliò lo sguardo,
minaccioso, eppure le sue labbra si arricciarono nel tentativo di trattenere un
sorriso. «Credi in Konoha?»
«Assolutamente».
«Ora cominciamo con le bugie» avvisò
Sasuke, ignorando il modo strano in cui l’ultima risposta gli aveva stretto lo
stomaco. «Alle prossime domande devi mentire, così io posso vedere se il
poligrafo segna la menzogna o continua a registrare le tue risposte come
verità».
«Va bene».
«Mi chiederai perdono per aver tentato
di farmi mangiare quei dolci?»
«Sì» sorrise Itachi, trattenendo tra le
labbra una verità molto più sottile – non
gli avrebbe mai più chiesto perdono.
Eppure il poligrafo diceva che quel sì era stato sincero.
«Hai detto la verità?»
«Sì».
«Itachi, questa era una domanda al di
fuori dell’esperimento», sbuffò Sasuke, esasperato. «Vuoi davvero chiedermi
perdono?»
«Devo dirti la verità o devo mentirti?»
C’era una luce particolare negli occhi
di Itachi, forse la stessa che gli animava lo sguardo ogni volta che Sasuke gli
faceva notare quanto fosse irritante che un tipo serio come lui sfruttava il
suo otouto per fare del sottile umorismo.
«Lascia stare, andiamo avanti e rispondi
con una bugia», decise, pensando alla domanda seguente. «La smetterai mai di
chiamarmi Dr. Snake?»
«Sì».
Sasuke sbarrò gli occhi, puntandoli più
urgentemente sul tracciato del poligrafo. Ancora una volta indicava che Itachi
non stava mentendo. Sasuke serrò le labbra in una linea sottilissima.
Il
poligrafo non sbagliava mai.
«Credi che gli uomini vivano immersi nei
propri preconcetti?»
«No».
Il
poligrafo non sbagliava mai. Il poligrafo non confondeva verità e menzogne.
Sasuke si agitò sulla poltrona,
controllando l’ago e la carta su cui veniva inciso il tracciato.
«Hai sempre desiderato che io avessi i
tuoi occhi?»
«No».
Bugia.
Sasuke sapeva che Itachi non aveva
desiderato altro da quando aveva tredici anni. Sarò la tua luce, Sasuke. Era sempre stato così.
Eppure il poligrafo diceva il contrario.
Il poligrafo diceva che Itachi non stava mentendo.
Sasuke incassò la punta della penna nel
blocco degli appunti, la sentì scoppiare tra le mani. Osservò senza vederle
davvero le proprie dita sporche di inchiostro. I riflessi violetti si
confondevano con altri più tenui ma penetranti alla vista e rossi.
«Shisui ha ragione a dire che questa
macchina non serve a niente?» sfiatò, senza energia.
Itachi gli lanciò una lunga occhiata.
«Vuoi sapere la verità o vuoi un’altra bugia?»
Lui sventolò lentamente la mano,
portandosela sugli occhi. «Non importa».
«Penso che abbia ragione».
E lui invece aveva sbagliato.
Sasuke sentì quella consapevolezza al
centro del petto come se fosse stato istantaneamente penetrato dalla più
affilata delle armi.
Si era fidato del poligrafo. Aveva
sbagliato.
Qualcuno era morto per questo.
Più
di qualcuno, a dire il vero.
«Credi che le persone forti siano in
grado di perdonarsi?» chiese, attendendo una risposta che credeva di conoscere,
qualcuna in cui avrebbe trovato conforto – sì,
otouto.
Itachi si sfilò lentamente i sensori
dalle dita, si sporse verso di lui incrociando le braccia sopra la scrivania. «Credo
che se non è la vittima a perdonare per prima, allora il carnefice non potrà
mai perdonarsi. E credo che i morti non perdonino, Sasuke».
***
Itachi era riuscito a battere la
macchina della verità.
A volte Sasuke si lasciava ancora
accarezzare dal pensiero che suo fratello fosse perfetto – e cos’era la
perfezione se non la capacità di vincere sempre?
Itachi l’aveva avuta vinta persino su una macchina di ultima generazione, a cui
avevano lavorato le menti più sofisticate del loro secolo.
Il colmo era stato che mentre lui si
stizziva per determinati pensieri – la
perfezione non esiste, per questo nasciamo in grado di assorbire le cose –
Itachi aveva smesso di parlare con una ragazza che l’aveva definito perfetto. Le aveva rivolto un sorriso
misurato, l’aveva ringraziata con un paio di parole di cortesia e si era
avviato verso di lui, in mezzo a migliaia di riflessi rossi.
«Perdonami, Sasuke, sono stato
trattenuto» si scusò.
Sasuke si irrigidì a sentire quella parola
che aveva archiviato da tempo tra ricordi piacevoli, pur sapendo che sarebbe
stato ancora più piacevole non ascoltarla più.
«Mi sembri nervoso, Sasuke».
La strada verso casa invece sembrava un
calvario. «Sai che odio questo calore assurdo».
«Non dovresti» osservò Itachi, tenendo
il passo. «Ti ho già detto cosa significa ora l’estate per Konoha, no?»
«Sì, solo un centinaio di volte» lo
smorzò lui, abbassando un po’ la zip della divisa sul petto.
«Magari devo ripetertelo».
«Perché mai?»
«È che mi sembra strano…» ragionò
Itachi, invitandolo a rallentare. «Tu ami così tanto la verità e poi odi
l’estate».
«Non c’è niente di strano».
«So che eri in coma quando con l’hokage
abbiamo tenuto un discorso in tuo onore, perciò probabilmente non ti rendi conto
delle nostre decisioni. Tu ci hai insegnato il valore della verità. E quando
pensavamo che non ti saresti ripreso abbiamo deciso di fare qualcosa in memoria
di te».
«Creare un’illusione per cui è sempre estate non è stata una mossa
intelligente, nii-san», si lamentò lui, senza mostrarsi troppo toccato dal
gesto. Si passò una mano tra i capelli umidi. Chiuse gli occhi quando gli parve
che la testa minacciasse di mettersi a vorticare.
«Esiste qualcosa che sia più vero e sincero dell’estate?» gli chiese
Itachi, dimostrando una certa delicatezza quando non scoppiò a ridergli in
faccia.
Sasuke sollevò un sopracciglio, sul
punto di organizzare una piccola ma dignitosa rappresaglia.
«L’estate è vera, otouto. Nessuno riesce
a girare con delle maschere o a indossare pesanti cappotti per nascondere
chissà cosa. La gente si spoglia e non ha paura di mostrare la propria pelle; è
di buonumore perché è come se tutta questa luce sia quella della speranza, di
una speranza che non muore mai…»
«Questi motivi potrei recitarli a
memoria, nii-san» lo informò Sasuke, accorgendosi dello sguardo compiaciuto di
suo fratello. «Ma continuo a trovarli imbecilli».
«Sei impossibile» sorrise l’altro, quasi
leggiadro.
«Ma almeno io sono sempre lo stesso».
Sasuke si voltò per osservare attentamente il profilo di suo fratello: se si
era sentito attaccato da quella frase sicuramente aveva fatto in modo di non
darlo a vedere.
Era
Itachi, quello che l’aveva spuntata persino contro la
macchina della verità.
«Che cosa intendi, Sasuke?»
«Dico che a volte mi sembri strano» gli
fece presente, guardando avanti per trovare le parole adatte a spiegarsi. «A
volte non sembri nemmeno tu. E perché diavolo sembra che ora credi nella
perfezione?»
Itachi sorrise, allungando una mano
verso di lui. «Hai ascoltato la conversazione con quella ragazza?» indagò,
sostenuto. «Vuoi sapere cosa avrei risposto a te se mi avessi detto qualcosa
del genere?»
Sasuke rimase immobile, a occhi chiusi,
attendendo parole rassicuranti.
La
perfezione non esiste, per questo nasciamo in grado di assorbire le cose.
Arrivò il solito buffetto sulla fronte.
«Anche tu puoi essere perfetto».
***