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Autore: Pwhore    14/09/2012    3 recensioni
Quando Gerard aveva diciassette anni successe una cosa che gli cambiò la vita e gli sottrasse il ragazzo che amava più al mondo. Ora, a distanza di anni, decide di tornare indietro e scoprire cos'è successo effettivamente al ragazzo che tanto amava, scomparso in circostanze misteriose e dato per morto da tutta la comunità.
Genere: Mistero, Sentimentale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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combattere contro il passato (cap 11) «Dì un po', questo che ti ricorda?» domandò la bionda all'amico ricciuto, appena lui ebbe posato la busta del pranzo sul tavolo e si fu avvicinato ulteriormente a lei, passandogli l'annuario e voltandosi a guardarlo. Lui lo prese in mano con aria corrucciata, aprendolo e sfogliandolo finché lei non gli disse di fermarsi, fece correre lo sguardo sui visi dei ragazzi immortalati e si soffermò a lungo su quello contratto dell'unico uomo della scena, visibilmente contrariato da qualcosa presente nella fotografia, e allontanò il fascicolo dagli occhi.
«Cosa dovrebbe ricordarmi esattamente?» chiese, alzando le sopracciglia e guardandola negli occhi. Poi sospirò.
«Saranno stati cinque o sei anni fa, prima che la scuola venisse ristrutturata» disse, cercando di stimare la data e tornando ad analizzare l'immagine, «quindi quest'uomo qua è il vecchio bidello, il signor Ramsey, e questi due ragazzi ripresi di sfuggita siamo io e il moro quando abbiamo deciso di saltare l'ora di matematica per andare a leggere fumetti in biblioteca. Questo dev'essere Oren, come al solito in giro a cazzeggiare, e quest'aria incazzata dev'essere dovuta al fatto che lui aveva appena finito di pulire ed eravamo arrivati noi a sporcargli tutto senza alcun riguardo». Guardò l'amica in cerca di una conferma e lei annuì, sorridendo, incitandolo a proseguire. Ray respirò a fondo e tornò a guardare l'uomo, malinconico.
«Mi ricordo questo giorno; era aprile, maggio al massimo, e tutta la scuola era su di giri perché era venuta a sapere che il vecchio preside sarebbe andato in pensione a fine pentamestre, e che quindi dall'anno successivo le cose avrebbero preso una svolta positiva per tutti quanti. Avevamo organizzato una festa, quella sera stessa, e ognuno doveva portare qualcosa da bere, così io e Frank ci siamo presentati con due bottiglie di vodka, decisi a spassarcela al massimo, e abbiamo dato il meglio di noi, ubriacandoci come non mai. Fortuna che il giorno dopo avevamo due ore di buco e siamo potuti entrare alle dieci, altrimenti non saremmo neanche riusciti a reggerci in piedi per più di cinque minuti» ricordò, ridendo.
«Possiamo lasciar perdere la festa e concentrarci sull'inserviente?» domandò Lindsey, cercando di non sembrare troppo scortese agli occhi dell'amico.
«D'accordo, ma su di lui non posso dirti molto. Era piuttosto severo e non vedeva di buon occhio il nostro continuo ciondolare lungo i corridoi durante le ore di lezione, ma svolgeva il suo lavoro con una pignoleria impeccabile e non ricordo di aver mai visto le aule sporche dopo il suo passaggio. Ci metteva l'anima in quel che faceva e non si lamentava mai, quindi doveva essere contento di trovarsi lì, anche se era un lavoro duro e a volte gli toccava fare da balia a quelli che venivano buttati fuori dai loro professori; ma credo che sotto sotto non gli dispiacesse neanche quello» cominciò, portandosi un dito davanti alla bocca man mano che proseguiva, «Certo, essendo un inserviente aveva qualche problema con gli studenti più sciocchi, che lo sfottevano e si divertivano a sporcare apposta per farlo sfacchinare di più, ma niente di troppo grave, credo. L'unica cosa che forse poteva dargli fastidio era un gruppo di ragazzi del quarto anno, dei deficienti convinti che prendersela con un bidello fosse la cosa più spassosa del mondo, che l'aveva preso di mira e si divertiva a riempirlo di scherzi, più o meno gravi. Lui non si lamentava mai, se non qualche volta con il preside, ma credo che avrebbe dovuto farlo fin dall'inizio, così avrebbe stoppato la cosa sul nascere e quelle teste calde sarebbero state costrette a calmarsi» commentò.
«Scherzi, hai detto?» ripeté la bionda, pensierosa. «Che tipo di scherzi?»
«Ah, non ne ho proprio idea» ammise il riccio, scrollando le spalle e scuotendo il capo. «So solo che a volte erano piuttosto pesanti, tanto che quando stava da solo era sempre guardingo e sulle spine, e che comunque non erano robetta da niente, ma cose ben architettate e pensate con cura. Insomma, questo povero cristo viveva con un clima di ansia perpetua sulle spalle e non doveva essere una cosa molto carina, visto che alla fine si è ribellato» disse.
«Ribellato?» la ragazza corrugò la fronte, stupita. Vista la mole modesta dell'uomo, una sua possibile vendetta contro dei ragazzi fisicamente più sviluppati e caratterialmente più ottusi e aggressivi di lui le sembrava piuttosto improbabile.
«Parlo per sentito dire perché quel giorno ero a casa con la febbre, ma pare che un giorno abbia organizzato un piano per stanare i suoi aguzzini e si sia nascosto in mezzo alle frasche per ore, pur di riuscire nel suo intento, ma che per sua sfortuna abbia beccato i ragazzi sbagliati, capitati lì per puro caso e ignari di tutto quanto, e che li abbia inseguiti lanciandogli contro tutto ciò che trovava sul suo cammino. Quelli si sono spaventati da morire e si sono rifugiati in un locale, il cui padrone si è offerto di proteggerli, bloccando l'inserviente e costringendolo a calmarsi, e poi da lì hanno chiarito tutto. Comunque sono certo che gli amici di quei ragazzi non abbiano digerito la cosa bene quanto i protagonisti, perché il giorno dopo l'uomo è venuto a scuola con qualche escoriazione sul braccio e gli occhi velati di paura, quindi qualcuno dev'essere andato a fargli visita, e non dev'essere stato troppo piacevole» raccontò, scuotendo la testa.
«Ma a parte quello si trovava bene a scuola, no? Hai detto che gli piaceva lavorare qui, che s'impegnava da morire e che non si lamentava mai di niente, quindi perché negli annuari successivi sembra essere scomparso?» domandò la bionda.
«Be', perché semplicemente è  scomparso. Vedi, qualche mese prima della fine della scuola, qualcosa gli ha fatto perdere completamente le staffe ed ha avuto un esaurimento nervoso di quelli seri, al punto che sono dovuti intervenire degli infermieri a sedarlo perché sennò avrebbe combinato sicuramente qualche casino. Il consiglio d'istituto ha indetto una riunione straordinaria e ha ritenuto più opportuno offrirgli una vacanza anticipata, in modo che si riprendesse totalmente dallo stress e dalla fatica a cui aveva sottoposto il suo organismo, così lui è partito, una tiepida mattina di metà maggio, e ce ne siamo dimenticati tutti, tornando alla solita routine di sempre. Solo che, contrariamente a quanto si aspettassero il consiglio docenti e tutti gli altri membri dello staff, lui non si è più fatto sentire e non ha più messo piede in città, facendo perdere completamente le sue tracce. Facendo bene i calcoli, è uscito di testa poco dopo la scomparsa di Frank» rimuginò il ragazzo, guardandola negli occhi.
«Pensi che possa essere coinvolto nel caso?» suggerì lei, a cui la domanda era ronzata in testa fin dall'inizio.
«Non penso niente» smentì invece il riccio, passandosi le dita sul mento e corrugando la fronte, «ma devo ammettere che la cosa è piuttosto sospetta».
«Escludendo la possibilità che fosse implicato nella scomparsa del moro, cos'altro avrebbe potuto farlo impazzire?» insistette la ragazza, ansiosa di sentire il suo parere. Ray tacque e ci pensò su per un po', poi scrollò le spalle storcendo la bocca.
«Be', la vita di un bidello è uno stress continuo: pulisci qua, pulisci là, il gesso, le cimose, la lavagna, l'aula video, il laboratorio, questo che deve uscire prima, quello che deve entrare dopo, il caffè, lo zucchero, il latte, i fogli, i plichi, il secchio... Hai tante cose a cui pensare, e a tutte queste devi sommare i dispetti degli studenti, i capricci dei professori e le preferenze dei colleghi, senza contare che il tuo stipendio non ti permette neanche una casa o una macchina da re e che i turni di lavoro sono a dir poco massacranti. Diciamo che viveva in una vasca di stress, ma che tutto sembrava scivolargli addosso come l'acqua, e che quindi la causa del suo esaurimento va cercata da qualche altra parte. Forse è stato rapinato o aggredito, o forse qualcuno se l'è presa con qualcuno a lui caro, con qualcosa di sua proprietà o con qualcosa di comunque importante, e quando l'ha scoperto è andato su tutte le furie, rompendo il delicato equilibrio che era riuscito a crearsi attorno e facendosi crollare addosso tutta la merda che era riuscito ad evitare per anni e anni» ipotizzò, guardando l'amica negli occhi.
«Potrebbe anche darsi...» commentò lei. «Credi che ci sia un modo per far chiarezza su tutto questo?»
«Posso collegarmi al sito della polizia e controllare le denunce per aggressione e furto risalenti a quegli anni» propose lui, 
«magari trovo qualcosa che ci possa tornar utile».
«Saresti in grado di farlo?» domandò la ragazza, piacevolmente impressionata dalla sua abilità. 
«Be', ci posso provare» scrollò le spalle, con l'aria di chi non è minimamente preoccupato, «non è niente di troppo difficile, secondo me. Dopotutto me la cavo piuttosto bene con computer, password e tutta quella roba lì, Jimmy mi ha insegnato tutti i trucchi del mestiere. E poi non sarebbe la prima volta che m'intrufolo in un sistema di qualcun altro».
«Sul serio?» ripeté la bionda, estasiata, e lui annuì imbarazzato, come se non fosse tutta 'sta gran cosa.
«Sul serio» rispose, staccando le spalle dal muro e dirigendosi verso l'altra parte della stanza, mentre lei lo seguiva con lo sguardo e sorrideva. «Dammi cinque minuti» borbottò, accendendo il portatile e premendo qualche tasto con aria esperta, mentre la schermata del sito della polizia si faceva velocemente strada sullo schermo azzurrino. Ray s'immerse nel suo lavoro e la bionda tornò a dedicarsi al video, dando il cambio a Columbia, che raggiunse il riccio con una grande tazza di caffè fumante e gli si fermò alle spalle. Gliela porse e lui la prese con un sorriso riconoscente, tornando quindi ai suoi codici criptati e lasciandola lì come se fosse la cosa più normale del mondo, mentre lei sorrideva e scuoteva il capo, sentendosi come una madre intenerita davanti alla figura del figlio completamente catturato da un nuovo videogioco. Si lasciò sprofondare sulla poltrona poco distante e sorseggiò un po' del suo caffè, rilassata. Aveva la massima fiducia in Ray e sapeva che non l'avrebbe lasciata a mani vuote, quindi non aveva niente di cui preoccuparsi. A parte, forse, quell'uomo che tanto spaventava Fin.


«N-no, ti prego, ti giuro che non ti farà niente. Te lo giuro sul mio corpo, su Alicia, su mia madre, su qualunque cosa tu voglia, ma ti prego non andare. Ti prego... t-ti prego...» singhiozzò il moro mordendosi il labbro, gli occhi improvvisamente pieni di lacrime.
Fin stava praticamente supplicandomi in ginocchio di rimanere e, sebbene fossi spaventato e terribilmente in ansia, non ebbi la forza né il coraggio di mollarlo lì e tornare in città, così mi arresi con un sospiro e scrollai le spalle, cercando di rassicurarmi.
«D'accordo, rimango, ma a una condizione» dissi, cercando di sembrare il più sicuro possibile.
«Quale?» trillò il ragazzo, con un lampo di speranza in viso.
«Mi porti giù in cantina. Ora» annunciai, la voce dura e piatta e la mascella contratta.
Non sapevo esattamente perché, ma qualcosa mi diceva che era la mossa giusta da fare, così mi c'impuntai e, nonostante le proteste e i tentativi di dissuadermi del moro, mantenni la mia posizione fino all'ultimo, vincendo la sua resistenza dopo qualcosa come un centinaio di vane preghiere e suppliche. Con il cuore in gola e una faccia spaventosamente cadaverica, il ragazzo mi guidò giù, senza fare pause e senza obiettare più nulla, e si fermò davanti a una grande porta marrone scuro, a cui era attaccata una pesante maniglia d'acciaio affiancata da una serratura aperta; si guardò intorno e poi si voltò verso di me, come a cercare una mia conferma. Lo incitai ad andare avanti con un cenno del mento e lui fece un respiro profondo, spostando con la mano le ragnatele penzolanti che adornavano e rendevano più grottesco l'ambiente, spinse il portone e lo aprì con un cigolio acuto, fermandosi a bussare prima di metter piede nella stanza. La sala era illuminata dalla luce del sole, che filtrava attraverso una modesta finestrella che dava sul prato, posta troppo in alto rispetto al pavimento, e l'odore di polvere e muffa che vi ristagnava era quasi nauseante, ma delle impronte di piedi e dei mobili spostati di recente tradivano la presenza di qualcuno, in quel lugubre sotterraneo, così mi spinsi in avanti e curiosai in giro in cerca di materiale sospetto, guardingo. Tuttavia dovetti ammettere che non c'era nulla d'interessante o fuori dal normale in quel luogo e, sebbene il mio accompagnatore sembrasse completamente terrorizzato dal solo trovarsi nella stanza, non riuscii a trovare niente di troppo rilevante o anche minimamente utile all'indagine, così scrollai le spalle e lasciai perdere, uscendo dalla sala. Fin mi seguì con un sospiro di sollievo e si chiuse la porta alle spalle, delicatamente e stando attento a non far troppo casino, e trotterellò sulle scale, rimanendomi dietro. Per quanto lui fosse sollevato dalla mia infruttuosa ricerca, io ero insoddisfatto e non riuscivo a smettere di pensare e ripensare alle parole della mora, a quelle del fratello, alle sue occhiate spaventate e al suo impallidire quando avevo espresso il mio desiderio di scendere in cantina; ed ero più che convinto del fatto che quella stanza mi stesse nascondendo qualcosa, un segreto che a me non era dato conoscere e che sarebbe dovuto rimanere tale ancora a lungo, se non per sempre. Scossi la testa, improvvisamente colpito da una scossa di autostima e consapevolezza delle mie capacità. No, sarei riuscito a scoprire pure quello, avrei solo dovuto aspettare un altro po' di tempo prima di far luce anche su quel mistero: tornare laggiù immediatamente sarebbe stato inutile e avventato, senza contare che avrebbe potuto mettere in allarme il misterioso padrino, che avrebbe poi potuto prendersela con Fin appena me ne sarei andato, e non volevo che il ragazzo passasse dei guai per causa mia. Certo, ne avrebbe passati per avermi permesso di andare a frugare in mezzo a tutta quella roba, ma se fossi tornato giù una seconda volta non oso immaginare cosa quell'uomo avrebbe potuto fargli; la sua descrizione di uomo violento e rabbioso mi preoccupava non poco, e il suo nome continuava a rimbombarmi in testa, come se da un momento all'altro dovesse scattarmi in testa un campanello d'allarme o qualcosa del genere. Effettivamente, quel nome mi diceva qualcosa, ma non avrei proprio saputo dire cosa. Del resto, tante cose mi ricordavano qualcosa, ma a volte era solo frutto della mia immaginazione e comunque non c'era verso di sapere se le mie supposizioni erano fondate o meno, quindi avevo smesso da tempo di fidarmi dei ricordi e delle sensazioni. Be', okay, magari non del tutto, ma c'ero quasi.
«Soddisfatto?» domandò a un certo punto il moro, appena fummo di nuovo seduti in giardino. Grugnii.
«Immaginavo... che ti immaginavi di trovare?» aggiunse, con una leggera nota di delusione.
«Non lo so. Qualcosa» ribattei, tagliando corto. Non avevo voglia di parlarne, tanto meno con lui.
«Allora... rimarrai?» chiese quindi, abbassando lo sguardo dai miei piedi e poi portandolo sui miei occhi, speranzoso.
«Ma certo, io mantengo le promesse» sorrisi, anche se effettivamente non gli avevo promesso niente. Il suo volto si illuminò e un sorriso si fece strada sulle sue labbra fine, quasi inconsapevolmente, e il ragazzo si morse l'indice, come a sopprimere un urletto; si voltò a guardarmi, visibilmente felice, e si morse il labbro inferiore, aggiungendo un grazie che più sincero non poteva essere. Mi sentii come lusingato da quella sua aria pura e estasiata e non potei fare a meno di sorridere. Rimanemmo in silenzio per un po', a guardarci e arrossire, poi l'improvviso levarsi in volo di uno stormo d'uccelli ci riportò sulla terra, dove ormai era l'una meno un quarto e tutte le famiglie si stavano raggruppando in cucina per preparare qualcosa, in attesa del ritorno chi del marito, chi dei figli, chi di qualche amico. All'improvviso mi ricordai del vecchio e mi sbattei una mano in fronte.
«Merda, devo chiamare mio padre!» esclamai, ricordandomi quindi che non avevo trovato il mio cellulare.
«Tieni, usa il mio» si offrì il moro, passandomelo con un gesto impacciato. Lo ringraziai con gli occhi, sbloccai il display e composi il più velocemente possibile il numero di mio padre, portandomi l'apparecchio all'orecchio e respirando più volte a fondo, come a prepararmi psicologicamente alla sua voce sgradevole e ai suoi modi burberi, che sfoggiò appena prese in mano la cornetta.
«Senta» rispose, scocciato «non so chi sia né cosa venda, ma non ho bisogno di niente, ha capito?»
«Papà, sono io, Gerard». Lo sentii annuire alla cornetta, per niente colpito.
«Si può sapere dove ti sei cacciato, ragazzo?»
«Sono con gli altri, volevo dirti che non verrò a pranzo».
«E quando pensi di tornare, signorino?» sbuffò.
Guardai prima il moro, poi la casa, poi il bosco, mordendomi le labbra e esitando un attimo, poi sospirai.
«Domani mattina, credo; abbiamo un casino di cose da fare» risposi. Annuì.
«
Poi fammi sapere, in caso cambiassi idea. Vedi di non farmi vergognare di te, mh?»
«D'accordo. Ciao pa'» mi congedai, poi lui riagganciò, lasciandomi un attimo stupito della sua calma.
«Hai detto domani mattina, rimarrai qui anche stanotte?» mi chiese d'un colpo il moro, raggiante.
«Se mi sopportate» scherzai con un sorriso, restituendo il cellulare al ragazzo e ringraziandolo per la sua gentilezza. Lui fece segno che non importava e mi prese per la mano, trascinandomi dentro con aria euforica e andando a cercare la sorella.
«Aliiicia? Ehi, Ali, dove sei?» gridò, amplificando la voce con la mano e ricevendo una risposta dal salone. Ci avviammo verso la sala e superammo il corridoio in tempo record, così velocemente che non ebbi neanche il tempo di fermarmi a accarezzare i dipinti con lo sguardo, e la figura magra della ragazza ci venne incontro sulla porta, appoggiandosi allo stipite.
«Be', cos'è quest'aria felice?» domandò, incrociando le braccia con lo sguardo di chi ha già capito tutto.
«Gerard rimane a dormire anche stanotte» le annunciò il moro, che si era completamente lasciato alle spalle il pallore e il timore che lo avevano assalito mentre ci avventuravamo nei sotterranei e che ora sembrava decisamente al settimo cielo.
«Ah, questa sì che è una bella notizia» commentò lei, «allora mangeremo in tre».
«E quel tizio che è appena arrivato? Lui non mangia?»  domandai io, aggrottando la fronte.
«Ah bho, non penso proprio» rispose lei scuotendo le spalle, «non si fa mai vedere durante il giorno. Lavora molto e mai nello stesso punto, quindi non sai mai a che ora e come tornerà, abbiamo smesso di aspettarlo da parecchio e a lui sta bene così».
«In questo caso vuol dire che mangerò anche per lui» scherzai, ricevendo una sonora pacca sulla schiena.
«Questo è lo spirito, ragazzo mio» si compiacque, «poi più tardi andremo a cercare il tuo cellulare. Sono sicura che è finito sotto qualche divano o in un posto impensabile, ma vedrai che riusciremo a recuperarlo».
Annuii, fiducioso, e lei sorrise, mentre il fratello la salutava e mi trascinava da un'altra parte. Voltandomi, mi sembrò di scorgere un lampo di preoccupazione nei suoi occhi carbone, ma forse fu solo una mia impressione, visto che qualche secondo dopo era già tornata alle sue occupazioni, tranquilla.
«Fin, dici che vostro padre avrà bisogno della brandina?» domandai dopo un po', rompendo il silenzio.
«Nah, ha una stanza tutta sua con un letto mille volte più comodo di quello che hai tu» ribatté con sicurezza.
«Al massimo, se proprio la rivuole, ti toccherà dormire con me» aggiunse, sorridendo sotto i baffi.
«A me sta bene, basta che non russi» scherzai senza sbilanciarmi, beccandomi una spinta.
«Seriamente, è l'Anti-Fin Day o cosa?» fece lui, fingendosi esasperato e alzando le mani al cielo.
«C'hai preso in pieno, fratellino» confermò la mora, raggiungendoci. «Ora vai, è il tuo turno di cucinare».
Il ragazzo si alzò in piedi, scuotendo leggermente la testa con aria divertita, e uscì dalla stanza, senza che l'altra si muovesse per seguirlo o dargli anche solo una pacca sulla spalla. Aspettò in silenzio che il rumore dei suoi passi scomparisse definitivamente e poi si voltò a guardarmi, improvvisamente seria.
«Posso parlarti un attimo?» domandò. Annuii, deglutendo, e mi aspettai il peggio.
«Non andate in giro per casa stasera e non avvicinatevi alla cantina per nessuna ragione, okay? Questa mattina passi, e se volete tornarci anche dopo pranzo va più che bene, ma stasera non vi azzardate a metterci il muso dentro, sono stata chiara?»
Annuii nuovamente, sentendomi mancare il terreno sotto ai piedi.
«Non lo dico per farvi un torto o niente, ma esclusivamente per la vostra sicurezza» aggiunse, guardandomi con aria premurosamente preoccupata, «e perché vorrei che tu fossi in grado di tornare a casa, domani mattina».
A questo punto dovetti per forza impallidire notevolmente, perché lei mi posò una mano sulla spalla e me la strinse delicatamente, scuotendola e cercando di tranquillizzarmi. Esisteva la possibilità che non sarei stato in grado di andarmene?
«Vedi, il nostro patrigno non è cattivo, ma certe volte non riesce proprio a controllarsi. Di colpo diventa un'altra persona e perde ogni freno inibitorio, ed è proprio questo che vorrei evitare di farti vivere» sussurrò, accarezzandomi la spalla.
«Non è colpa sua, ovviamente, come non lo è di nessuno di noi, ma è meglio non rischiare troppo, se si può».
Mi guardò con apprensione e io abbassai lo sguardo, elaborando le ultime informazioni.
«Siamo tutti un po' strani in questa casa, ma nessuno ha scelto di esserlo. Evitate di stuzzicarlo e non succederà niente, tranquillo» concluse, ritraendo la mano e alzandosi, per poi fermarsi per qualche secondo accanto alla porta e lanciarmi un'ultima occhiata.
Dal canto mio, non sapevo cosa pensare. Era una situazione surreale, ma non mi sentivo davvero come se ci fosse un pericolo che incombeva dietro l'angolo, anzi; era come se il pericolo ci fosse sì, ma non mi riguardasse minimamente, quindi riuscivo a preoccuparmi solo fino a un certo punto. E pensare che fino a una mezz'ora prima mi stavo cagando in mano!
Scossi la testa e mi alzai in piedi, seguendo le orme dei due ragazzi. Quell'enorme casa mi metteva a disagio, e ancora più mi colpivano quei quadri, enormi ritratti dei tempi che furono, che sembravano spiarmi e seguirmi con lo sguardo ovunque io andassi, anche in presenza del moro; e l'ultima cosa che desiderassi era rimanere da solo con loro, alla mercé dei loro sguardi arcigni e delle mie paranoie inutili. Percorsi il corridoio quasi di corsa e quando raggiunsi gli altri tirai un taciturno sospiro di sollievo, mi proposi di aiutarli e dare una mano ad apparecchiare e loro accettarono, senza smettere un secondo di ridere e chiacchierare. Alicia aveva ripreso la sua aria spensierata, anche se ogni tanto mi lanciava un'occhiata per vedere come me la cavassi, e mi fu impossibile non notare che Fin sembrava a dir poco su di giri per la mia presenza, anche se cercava di non darlo a vedere; e non riuscii a non sorridere nel prendere parte ai loro piccoli rituali quotidiani, sentendomi parte per qualche minuto della famiglia che avrei tanto voluto avere.


«Vittoria!» esclamò Ray, allontanandosi dal computer col un colpo al muro e alzando le mani in aria, trionfante.
«Ce l'hai fatta?» domandò la bionda, sgranando gli occhi per l'ammirazione e avvicinandoglisi, al settimo cielo. Ray annuì, orgoglioso.
«Jonathan Tim Ramsey, collaboratore scolastico con più di diec'anni di onorevole servizio, è stato pestato e legato a un palo sulla statale, esattamente tredici giorni prima della scomparsa del nostro amico. A quanto pare è stato un automobilista ad avvertire la polizia dell'accaduto: stava dirigendosi verso Newark dopo una serata passata a cena di alcuni parenti quando ha visto una figura mezza accasciata per terra e si è insospettito, così ha spento l'auto ed ha trovato il nostro uomo, in stato di semi-incoscienza e coi vestiti violentemente stracciati. A quanto dicono, non aveva soldi o documenti addosso, e il telefono gli era stato sottratto in precedenza, per poi venir ritrovato in un cestino nei pressi del municipio qualche giorno dopo. Non si è mai scoperto il colpevole e la polizia ha archiviato il caso senza troppi problemi» alzò gli occhi sull'amica, «probabilmente causando uno stress troppo grande per un uomo già troppo esposto all'esaurimento, che quindi ha avuto una crisi ed è  diciamo così - impazzito». Respirò a fondo, analizzando la situazione.
«Non c'è da stupirsi se se n'è andato» commentò poi, storcendo la bocca mentre l'amica rimuginava.
«Quando sono state interrotte le ricerche del suo aguzzino?» s'informò la bionda, pensierosa.
«Più o meno quando è scomparso il moro. Non che li si possa biasimare, l'intera comunità era in subbuglio e pretendeva che la polizia ritrovasse il più presto possibile il ragazzo, sbattendosene le palle di un fatto che non era neanche stato pubblicato sul giornale locale, sotto richiesta della vittima, quindi non hanno avuto molta scelta. Per la cittadinanza era vitale».
«E se l'avessero fatto apposta? Se la loro fosse stata una specie di spedizione punitiva, e il rapimento del moro solo un diversivo per distogliere l'attenzione della polizia locale da un fatto di cui tutti erano più o meno colpevoli?» azzardò. Ray la guardò, inespressivo, e considerò l'idea, prendendosi il mento tra le dita.
«Potrebbe anche essere» ammise, «ma allora perché non farlo ricomparire dopo aver scacciato Ramsey?».
«Forse sapeva troppo e l'hanno fatto fuori per essere sicuri che non potesse spifferare niente a nessuno» suppose. 
«A volte succede».
«Può anche darsi, e questo spiegherebbe perché l'altro giorno si sono mostrati tutti stranamente taciturni; ma allora perché non far sparire il ragazzo in un momento di solitudine, senza dover correre il rischio di venir poi riconosciuti?» ribatté il riccio.
«Forse avevano bisogno di un capo espiatorio, un qualcuno a cui addossare la colpa, o forse non potevano soffrire Gerard e basta, così hanno deciso di far fuori pure lui, solo che non ci sono riusciti».
«Allora perché abbandonarlo lì così, senza dargli il colpo di grazia? Il corpo è stato ritrovato solo alcune ore dopo, quindi non c'è neanche la possibilità che gli assassini siano stati intravisti da qualcuno e quindi messi alla fuga. Ammesso che ci sia stato un testimone, avrebbero potuto tranquillamente freddare anche lui e portare via anche il suo, di cadavere, senza doversi esporre così tanto» ragionò il ragazzo. «No, secondo me è successo qualcos'altro. Nessun assassino è così sprovveduto».
Lindsey tacque, appoggiata al muro, e continuò a rimuginare; poi si allontanò con una spinta dal cemento e raggiunse la busta con il cibo, tirandone fuori una bottiglietta di succo alla mela e portandosela alle labbra, senza spiccicare parola. In effetti, l'amico aveva ragione, anche se qualcosa le diceva d'insistere. Scrollò le spalle. L'avrebbero scoperto presto.
«Ehi, venite a vedere!» esclamò d'un colpo la riccia, che era rimasta in silenzio durante tutti i loro ragionamenti, facendola sobbalzare e cadere dalle nuvole con un sonoro sussulto, facendole cenno di avvicinarsi velocemente. Raggiunse l'amica e si sporse in avanti, cercando di vedere oltre la sua spalla; quella alzò il volume, in modo che tutti potessero sentire ciò che stava dicendo la ragazza nel video, e si spostò un po' di lato, lasciando agli altri anche una visuale migliore. Lindsey rabbrividì.
«Cosa pensate che significhi?» domandò, improvvisamente molto più pallida.
«Non ne ho idea, ma la faccenda si complica» commentò la riccia, storcendo le labbra. «E parecchio».


«Ti va di andare a vedere le stelle, Gerard?» domandò dopo un po' il moro, sorridendo.
La cena era finita da un po' di tempo ed eravamo placidamente seduti sul divano, mentre Alicia guardava una soap opera nella stanza accanto, decisa a lasciarci soli il più possibile, e nella sala aleggiava un'aria sciolta e rilassata, che io mi stavo godendo con tutto me stesso. Sulle prime mi venne spontaneo dire di sì, poi mi ricordai le raccomandazioni della ragazza ed esitai.
«Non pensi che sarebbe meglio restare dentro?» obiettai, «fuori fa un po' freddo...». Non avevo il coraggio di dirgli che non mi fidavo del suo patrigno in piena notte e mi sentii un po' in colpa a mentirgli così, ma non avevo altra scelta - sarebbe sembrato come se non volessi stare con lui.
«Oh, freddo dici?» ripeté lui, come cadendo improvvisamente dalle nuvole.
«Ma certo, come ho fatto a non pensarci? Aspetta, vado a prenderti una felpa» mi annunciò, correndo via e lasciandomi solo. Lo osservai scomparire nel buio del corridoio e respirai a fondo, silenziosamente, deglutendo e serrando forte le labbra, per poi guardarmi attorno e concentrarmi sulle voci del programma della mora, senza muovere un muscolo o aprire bocca. Dopo un paio di minuti mi accasciai sul divano e mi morsi il labbro, ormai conscio che sarebbe stato impossibile dissuadere Fin dall'idea di andare a vedere le stelle, e mi rassegnai al fatto che avremmo rischiato come non so cosa. Sospirai e mi parve di scorgere un'ombra alla fine del corridoio; rabbrividii istintivamente e mi spostai un po' più a sinistra, togliendomi dalla visuale e dandomi l'impressione di essere un po' più al sicuro, e attesi, ansioso. Fin entrò di corsa nella stanza e mi raggiunse sfoggiando un enorme sorriso a trentadue denti, mi passò una felpa e riprese fiato, mentre io la indossavo cautamente.
«Spero non ti stia troppo piccola, è la più grande che avevo» ansimò, le mani posate sulle ginocchia.
«Va alla grande, grazie mille» lo rassicurai, stringendomici e avvolgendomi nel suo profumo. Lui sorrise e io feci lo stesso, poi mi porse il braccio e io mi ci avvinghiai, felice. Percorremmo il corridoio in silenzio e sbucammo in un altro punto del giardino, abbastanza vicino alla nostra camera da letto, e il moro si sdraiò sull'erba, mettendosi le braccia dietro la testa a mo' di cuscino. Seguii il suo esempio e mi stesi a pochi centimetri da lui, riempiendomi gli occhi di astri, nuvole e satelliti, sempre senza dire niente, e sorrisi, percependo lievemente il calore del ragazzo al mio fianco. Sospirai il più delicatamente possibile e mi voltai a guardarlo, attento a non farmi vedere, e rimasi catturato dalla sua candida bellezza, accentuata dalla luce della luna e addolcita dal vento che ci accarezzava i volti. Sentii un tuffo al cuore e arrossii, così decisi di tornare a guardare il cielo per calmare un po' il turbine di ormoni che aveva preso possesso del mio corpo e socchiusi gli occhi, rilassando ogni muscolo che potevo controllare, e sentii un sospiro compiaciuto da parte del moro.
«Sai, mi piacciono molto le stelle» mormorò, senza staccare lo sguardo dalla volta celeste, «uno dei miei sogni è riuscire a diventare un astronauta e salire lassù, sulla luna, per poter vivere un paio di mesi circondato solo da loro, per poterle studiare, vedere, sentire, per poter assaporare ogni minimo particolare che possiedono. Se ci pensi, è come una magia». Tacque un attimo, sbattendo le palpebre. «Voglio dire, la maggior parte delle stelle che vediamo ora è già morta, esplosa o in mutazione, eppure noi non riusciamo ad accorgercene, perché la loro luce impiega milioni di anni a raggiungerci e con tutte le luci che ci sono oggi è praticamente impossibile vederne tante. Quando abitavamo in città, era una cosa che detestavo, e spesso e volentieri guardavo e riguardavo documentari sull'universo e sugli altri pianeti, dove le stelle si vedono sempre benissimo e dove non ti devi preoccupare di aerei, satelliti e stronzate varie. Siete solo tu, le stelle e un qualche professore che puoi zittire benissimo abbassando il volume del televisore» proseguì, gli occhi ancora chiusi.
«Tu guardi mai le stelle?» chiese, un po' per farmi sentire meno a disagio, un po' per effettiva curiosità.
«Quando sono qui, sempre, ma in città lo spettacolo è piuttosto ridotto» risposi, dandogli ragione; lui annuì e conservò il silenzio, pensieroso.
«A che pensi?» domandai dopo un po', voltandomi verso di lui. Fin scrollò le spalle, increspando le labbra.
«A tutto e a niente» mormorò, guardandomi, «tu?» .
«Niente di che, ma sono felice di essere qui» commentai, abbozzando un sorriso.
«Anche io» convenne il ragazzo sorridendo, avvicinandosi più a me. «Guarda, questo è il Corvo» mi spiegò, passandomi un braccio sotto il collo per indicarmi meglio una costellazione molto piccola, formata al massimo da dieci-undici stelle che brillavano nella parte meridionale del cielo, altrimenti piuttosto buia.
Il suo braccio era bollente, o forse ero io a esserlo diventato al contatto con la sua pelle. Rabbrividii.
«Hai ancora freddo?» domandò, posando lo sguardo su di me. Per un attimo temetti che mi avrebbe lasciato da solo nel bel mezzo della notte per andare a prendere un'altra giacca da mettermi su, invece mi si avvicinò ancora di più e mi abbracciò stretto, avvolgendomi tra le braccia e posando la testa sul mio petto. Arrossii da morire, ma il buio lo nascose.
Feci per aprire bocca ma mi morsi la lingua e mi godetti il momento, inspirando il suo profumo.
Dio, quant'era bello quel ragazzo, e Dio quanto mi piaceva.
«Gee?» mi chiamò dopo un po', spostando il viso verso il mio e guardandomi negli occhi.
«Sì?» replicai, allentando istintivamente la presa. Forse gli stavo facendo male.
«Grazie». Lo guardai e lui mi sorrise, sincero; al che arrossii di nuovo e distolsi lo sguardo, mordendomi il labbro.
Oh Dio.
«Sei carino quando arrossisci» disse, guardandomi dolcemente con un sospiro.
«Ah beh, tu sei carino sempre» replicai, pescando il coraggio da chissà dove. Lui sorrise e rise fra se.
«Dico davvero» insistei, «sei... sei carino».
Oh Dio, perché insisto? Smettila, coglione, smettila, prima che sia troppo tardi.
«Grazie» mormorò, abbassando e rialzando lo sguardo, come se non riuscisse a sostenere il mio.
«Io... a parte Alicia, sei il primo che me lo dice» mi confidò. Sgranai gli occhi, stupito.
«Il primo?» ripetei; lui annuì e socchiuse un attimo gli occhi.
«A quanto pare non sono bravo a piacere alla gente» sospirò, tornando a guardare il cielo.
«Be', a me piaci» replicai senza pensarci, prima di sigillarmi la bocca con una mano e maledirmi mentalmente.
«D-davvero?» domandò, girando la testa verso di me. 
«Davvero» annuii, cercando di non sembrare completamente terrorizzato dallo scoprire quella che sarebbe potuta essere la sua reazione.
«Anche tu mi piaci» sorrise «e tanto anche».
Sorrisi, arrossendo, e lo guardai, realizzando che l'unico ad arrossire ogni tre secondi ero io, ma per una volta me ne fregai. Lo strinsi più forte, lasciando che affondasse il viso nel mio petto, e gli baciai la nuca, il cuore che batteva a mille, felice; lui portò le mani vicino al volto e si aggrappò a me, come se temesse che sarei potuto correr via da un momento all'altro, e mi lasciò un bacio sulla felpa, uno di quelli così delicati che quasi non li senti, che quasi non sai di riceverli.
Rimanemmo lì avvinghiati per un po', poi il fresco aumentò e decidemmo di rientrare, lasciando stare stelle, luna e satelliti vari e concentrandoci sul calore soporifero che emanava la casa, già pochi passi oltre la porta, e ci dirigemmo verso la stanza da letto del moro, evitando di accendere le luci per non svegliare la mora.
«Fin, Alicia? Che cosa ci fate svegli a quest'ora?» domandò secca una voce alle nostre spalle, avvicinandosi lentamente.
«Dovreste essere a letto da un bel po', non lo sapete questo?» insistette, sempre più vicina. Deglutii, arretrando.
«Lo sapete cosa succede quando mi disubbidite, non è vero? Perché volete farmi scomodare a quest'ora della notte? E io che pensavo di potermi fidare, a lasciarvi a casa da soli... Be', evidentemente mi sbagliavo» sbuffò stancamente, sbattendo qualcosa contro la mano e arrestando per qualche secondo la sua camminata.
«F-fin?» balbettai, ricordandomi quello che mi aveva detto la mora, «cosa succede quando disobbedite?»
«Tira fuori la cintura» impallidì il ragazzo, indietreggiando di qualche passo. Sbiancai, deglutendo.
«Non dici sul serio, vero?» domandai con voce strozzata, cercando di scorgere la sagoma dell'uomo, protetta dal buio più nero. Il ragazzo scosse il capo.
«È la verità» sussurrò, cercando di mandar giù il groppo che gli aveva prepotentemente attanagliato la gola.
«Oh mio Dio» mormorai, andando a toccare il muro con la schiena. Mi voltai, ma eravamo in un vicolo cieco. «No...».
«Fiiin, Aliiiciaa, lo sapete che non potete scappaaaree» ci chiamò l'uomo, avvicinandosi ancora, «Smettetela di nascondervii, tanto lo sapete che è inutilee».
Fece qualche altro passo in avanti, mi posai le mani davanti alla testa e cercai di farmi il più piccolo possibile, realizzando che al mio fianco il moro non c'era più. Sgranai gli occhi e lo cercai con lo sguardo, terrorizzato, ma mi trovai davanti solo Ramsey, in tutta la sua pazzia.
«Cucù, ragazzino» cinguettò. «Hai visto, che ti ho trovato?» trillò poi, scrocchiandosi le ossa del collo e avvicinandomisi spaventosamente, un raggio di luna che gl'illuminava il volto.
«
Ora imparerai a non disubbidirmi mai, mai, mai più» mi annunciò con un ghigno, poi alzò la cintura verso l'alto e me la scagliò addosso.
   
 
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