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Autore: Rakistars    17/09/2012    1 recensioni
“Noi siamo qui per addestrarvi all’arte della sopravvivenza e prepararvi a combattere fino alla morte. Se vi nascondete, noi vi snidiamo. Se provate a ingannarci, noi ve la facciamo pagare. Voi siete stati scelti per l’intrattenimento di Capitol City. Noi per far sì che lo show non duri meno di un’ora”
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo Uno
- Les -



« Ehi, Les! È ora di andare! ».
 La voce di Mike mi arriva attutita dai metri cubi d’acqua che ho sopra la testa; lancio un ultimo sguardo allo scoglio che sto setacciando alla ricerca di ricci di mare, ma li ho già presi tutti e sistemati nella borsa di vimini che porto legata al fianco. Torno in superficie con qualche colpo di pinne e mio fratello mi tende una mano per aiutarmi risalire sulla barca. Mi tolgo la maschera di vetro e gomma che ci danno i Pacificatori quando dobbiamo immergerci e prendo una boccata di aria fresca, finalmente. Non vedo l’ora di avere diciotto anni, così potranno dare anche a me le bombole d’ossigeno e non dovrò riemergere ogni tre minuti per respirare.
« Ma se sarà al massimo mezzogiorno! » protesto, notando il sole a picco sopra le nostre teste. In genere peschiamo più o meno fino alle cinque, poi portiamo tutto al negozio. Qualche volta usciamo anche di notte, per pescare calamari.
« Hai dimenticato che giorno è oggi? ».
Ci penso su. Siamo a giugno, il compleanno di Lindsay è stato il mese scorso, quello di Mike è in inverno, l’anniversario di mamma e papà a ottobre. E nei distretti non c’è mai nessun giorno di festa dal lavoro.
Mike nota la mia aria confusa e sospira. « Non comincerai mai a prenderli sul serio, eh Les? ».
Poi capisco. Oggi è l’otto giugno, il giorno in cui da ormai otto anni vengono scelti ventiquattro condannati a morte. Il modo di Capitol City di ricordarci che abbiamo perso la guerra, e che i Giorni Bui non sono mai finiti.
Getto le pinne in un angolo della barca con rabbia, avvolgendomi un asciugamano attorno al corpo. « È orribile » sibilo, lo sguardo fisso sull’acqua. Oggi abbiamo preso la barca a remi invece di quella a vela perché non dovevamo allontanarci troppo. Ora capisco perché.
« Lo so » dice Mike, laconico.
No che non lo sa. Se qualcuno davvero si rendesse conto di quanto sia obbrobrioso costringere ventiquattro ragazzini a combattere tra di loro fino a che non ne rimane uno solo, allora fermerebbero gli Hunger Games. Ma solo dieci anni fa stavamo uscendo dai bunker, temendo che Capitol ricominciasse a gettare bombe sui distretti; solo dieci anni fa il Distretto 13 è stato polverizzato. Nessuno tornerebbe a combattere proprio ora.
« Perché non ci ammazzano e basta? » dico, seccata. « Perché non prendono un ragazzo e una ragazza tra i dodici e i diciotto anni da ogni distretto e li fucilano? Sarebbe molto più comodo ».
« Sarebbe meno crudele. E Capitol City ha l’abitudine di fare le cose in modo più crudele possibile».
 Rimaniamo in silenzio finché la barca non arriva nel porto, quindi scendiamo e la tiriamo in secca; un Pacificatore viene a registrare il nome della barca e a ritirare l’attrezzatura. Se provassimo a tenerci una maschera finiremmo entrambi alla gogna.
Un secondo Pacificatore viene a ritirare il pesce. A noi spetta solo il venti percento, cosa che secondo loro serve a motivarci a pescare di più, ma la maggior parte delle volte vuol dire solo che noi saremo stanchi e morti di fame, e loro a casetta con la pancia piena.
Trasciniamo fino a casa la cesta con il pesce che ci spetta. Ho ancora un cartoccio pieno di frutti di mare, cosa che almeno ci garantirà una ricca insalata, stasera.
Mamma è in piedi sulla soglia che ci aspetta. Quando ci vede tira un sospiro di sollievo e ci viene incontro. Con mio disappunto ordina a Mike di portare dentro la roba da solo, mentre io devo andare dentro con lei a prepararmi.
È questa la cosa più terribile degli Hunger Games. Non che ci prelevino dalle nostre case e ci spediscano in un’arena come fossimo soltanto carne al macello, nemmeno che dobbiamo ammazzarci l’un l’altro. Ci costringono a prenderla come un’occasione mondana. Ci truccano come bambole, ci fanno indossare i migliori vestiti, ci riprendono con le telecamere a ogni ora del giorno e della notte, sia dentro che fuori l’arena, mentre i distretti sono obbligati ad assistere sui maxischermi e gli abitanti di Capitol scommettono su di noi. Ci costringono a prenderla come un’occasione per  portare onore al Distretto da cui veniamo, e ci dicono di essere grati per questa opportunità.
 È per questo che ora mamma mi sospinge dentro casa, mentre Mike si carica sulla schiena la cesta. Mi porta a rendermi presentabile per le telecamere di Capitol City.
« Perché avete fatto così tardi? » protesta debolmente. « Ora non hai il tempo di lavarti i capelli e asciugarli per bene! ».
Sbuffo, evitando di guardarla in faccia. So che maschera la paura lavorando, ma mi irrita il fatto che assecondi le manie di Capitol in questo modo. Alla fine accetta di acconciarmi i capelli sopra la testa, in modo che non si veda che sono incrostati di sale. Raccolgo dell’acqua dal catino che abbiamo in cucina e strofino il viso, il collo e le braccia, mentre lei cerca nel suo armadio un vestito da farmi indossare – cosa complicata, visto che i nostri vestiti sono ridotti all’indispensabile. Alla fine ritorna con quella che sembra una vecchia vela di riserva. Me la drappeggia attorno al corpo, poi trova ago e filo e comincia pazientemente a mettere insieme qualcosa, mentre io trovo i miei sandali sotto al letto che divido con Lindsay e li infilo.
Dall’altra stanza, una specie di salotto molto piccolo, arrivano le voci chiassose della folla del Distretto 4 che si accalcano attorno al nostro misero banchetto del pesce, che abbiamo deciso di creare nei rari momenti in cui il pescato è addirittura troppo per noi cinque. Visto che va a male subito ed è quasi impossibile conservarlo, se non sotto sale – che costa una fortuna – abbiamo deciso di rivenderlo a prezzo basso, giusto quel che ci serve per comprare delle scarpe per Lindsay, dei fiammiferi o dei rocchetti di filo per rammendare le reti. La voce squillante di Mike comincia a decantare, da venditore esperto, tutto il genere di prelibatezze che abbiamo preso oggi. E la sua voce calda disegna così bene i pasti che a molti sono negati, che chi non ha soldi per comprare viene qui solo per ascoltare, come se potessero riempirsi la pancia di parole. Un mormorio eccitato mi dice che anche il solito gruppetto di ragazze è arrivato. In genere comprano poco, ma passano anche ore a farsi consigliare da Mike che, pazientemente, invece di scacciarle le asseconda. Devo ammettere che è davvero bello, molto più alto e massiccio di me, abbronzato, coi capelli biondi e gli occhi azzurri. Anche se nel nostro Distretto questi tratti sono la norma.
Solo mio padre, che entra mentre finisco di provarmi il vestito, ha i capelli scuri e gli occhi castani, nella nostra famiglia. «Allora, come si va?» chiese, appoggiandosi allo stipite.
« Abbiamo appena finito » dice mamma, spingendomi un riccio disordinato dietro l’orecchio.
Alla fine è uscito fuori un vestito senza spalline, corto, bianco, stretto sotto il petto da un pezzo di una vecchia corda. Io lo trovo infinitamente scomodo, ma oggi non posso protestare. Mi spettino di nuovo i capelli sfuggiti all’acconciatura e torno nel negozietto, mentre mamma mi urla non macchiarmi per nessun motivo esistente. Mi lascio cadere su una sedia di lato al bancone, che non è altro che il davanzale della finestra aperta davanti alla quale è esposto il pesce. Mike è in piedi con un grembiule addosso e un paio di guanti, intento a togliere le lische da una spigola. Nell’angolo opposto, mia sorella Lindsay si è seduta su un cumulo di reti da rammendare ed è intenta a intrecciare le dita nei fili. Abbozzo un sorriso e attraverso la stanza per prenderla in braccio ed evitare che distrugga ulteriormente le reti. Soprattutto perché oggi è il mio turno di rammendarle.
« Da brava, Linds, vieni con me » le dico, e lei subito si mette ad armeggiare con i fili pendenti della corda che tiene su il vestito.
Quando ripasso davanti alla vetrina dal gruppetto di ammiratrici di Mike si alzano degli urletti deliziati alla vista della mia angelica sorellina, con un’aureola di capelli biondi chiarissimi a incorniciarle il viso e gli occhi azzurro chiaro.
« Ooh, è tua sorella, Mike? » chiede una di loro, coi capelli biondo-rossiccio.
« Quale delle due? » chiede, girandosi. « Bel vestito, Les» aggiunge.
« Grazie, anche tu sei molto sexy » dico, indicando il grembiule troppo grande.
« Quella burbera è Leslie » dice, tornando a rivolgersi alla folla. « L’altra è Lindsay ».
« Ciao Lindsay! » dicono in coro, cosa che scatena in lei un attacco di teneri risolini. Comincia a fare ciao-ciao con la manina, finché papà non entra nel negozio e se la mette a cavalluccio. Lei si aggrappa saldamente ai capelli scuri, ridendo come una pazza.
Mi ricordo come ero io alla sua età. A cinque anni ero ancora rinchiusa nelle quattro pareti di cemento del bunker messo su in fretta e furia dai ribelli, talmente fragile che se Capitol avesse deciso di ucciderci tutti non sarebbe stato un problema. Ma la metà di noi era già morta, e sarebbe stato un problema rimanere senza pescatori.
Ripenso alla folla di persone stipate sottoterra, al fatto che non ho visto la luce del sole per qualche mese, e credo che nonostante tutto Lindsay sia molto fortunata. Forse, forse, gli Hunger Games sono il giusto prezzo per farla vivere serena…
Scaccio via il pensiero. Ricordo che anche Linds arriverà ad avere dodici anni, e che come Mike e me prima di lei dovrà correre il rischio di essere scelta come Tributo. Però questo è un pensiero diffuso, ormai: a quanto pare la morte di ventitré ragazzi è un prezzo equo, confrontato con la guerra. Ma chissà perché, a pensarla così sono solo quelli che hanno più di diciotto anni e nessun figlio.
Dopo qualche ora Mike richiude le imposte della finestra-bancone e si dà una ripulita, poi ci avviamo tutti insieme verso la piazza principale. A metà strada un grido familiare mi fa spuntare un sorriso. Mi giro e trovo Hanna, pimpante come al solito – anche se oggi c’è la Mietitura – che mi butta le braccia al collo; poi stampa un bacio sulla fronte di Lindsay, in braccio a mia madre, e abbraccia Mike. Ci conosciamo dai Giorni Bui, quando nel bunker tentavamo di far passare un’ora dopo l’altra senza pensare agli hovercraft che sorvolavano il distretto, e al pericolo che tutti correvamo.
« Come va? » le chiedo. Lei scrolla le spalle. È un’altra che, come me, non riesce a prendere sul serio gli Hunger Games.
È già tanto che siano durati nove anni. Non continueranno.
« Che hai fatto oggi? » mi chiede, con aria assente.
« Frutti di mare. Tu? ».
« Polpi » dice, e solleva le braccia per farmi vedere i segni delle ventose sulle braccia. «Stupide piccole creature tenaci» borbotta, mentre io rido.
Tutti nel Distretto 4 pescano. Persino Lindsay gioca spesso a fare i nodi, ovunque, e sa tenersi a galla da quando ha due o tre anni. Io e Hanna andiamo di rado a pesca insieme, in genere sono “affari di famiglia”, ma le poche volte che capita facciamo a gara a chi trova più conchiglie, o frutti di mare, o a chi rimane più tempo in apnea.
« Carino il vestito » dico, osservando la camicia bianca e larga che indossa sopra una gonnellina dello stesso colore.
« È più bello il tuo » borbotta. «Vorrei avere l’inventiva di tua madre ».
Vorrei risponderle che più che inventiva è necessità di adattarsi, ma siamo arrivate nella piazza e un muro di gente ci sbarra la strada. Come ogni anno tutti i ragazzi e le ragazze in età da Hunger Games sono dovuti venire qui da tutto il Distretto, intasando le strade. Anche stavolta siamo noi a dover andare avanti, mentre le famiglie rimangono indietro a osservarci sui maxischermi che hanno appena montato. Facciamo un cenno di saluto e dei sorrisi ai nostri cari, ci registriamo a un banchetto allestito dai Pacificatori e ci mescoliamo alla folla cercando un posto dove sistemarci.
« Odio questa calca » sbuffa Hanna. « Ogni anno è sempre peggio ».
« Non dire così, ti ricordi al nostro primo anno? Erano tutti alti il doppio di noi. Ora è molto meglio».
Questa è la quarta volta che partecipiamo a una mietitura. Mike ha partecipato a sei, e ora è fuori dalla fascia di età. A noi mancano solo due anni per esserne fuori.
Ricordo bene le vecchie edizioni, anche se non le prime. C’erano inconvenienti di ogni tipo, dalle luci che saltavano, all’elettricità che mancava all’improvviso, agli errori dei presentatori, alla scarsa organizzazione. Quest’anno sembrano essersi almeno allenati. Il Palazzo di Giustizia, che domina la piazza con i suoi stucchi bianchi e le finestre scintillanti, è tirato a lucido; stendardi con il sigillo di Capitol pendono da ogni parte; dozzine di Pacificatori sorvegliano la folla; e sul palco rialzato c’è la persona più strana che io abbia mai visto.
Hanna mi tira una gomitata mentre ci sediamo per farmi notare quel bizzarro spettacolo di Capitol. Una ragazza di circa venticinque anni è in piedi a conversare amabilmente col sindaco, che sembra un po’ impacciato. In effetti, anche io lo sarei se parlassi con quella.
Ha i capelli di uno stranissimo rosso scuro, acceso, che pare scintillare alla luce del sole; sono rasati ai lati, ma al centro sono lunghi e cotonati, tirati all’indietro come una strana criniera spelacchiata. Gli occhi sembrano fin troppo grandi, dipinti di nero, con ciglia talmente lunghe e spesse che riesco a distinguerle da qui, anche se sono in ottava fila.
« Oh diavolo » sussurro nell’orecchio di Hanna mentre la strana tipa avanza verso il microfono. «Come fa a camminare? ». Indossa i tacchi più alti che io abbia mai visto, di un nero lucido.
« Come fa a respirare » mi corregge la mia amica. La maglietta che indossa fa male agli occhi per quanto scintilla, ed è della stessa identica tonalità dei suoi capelli; ma se la schiena è scoperta, un rigido colletto increspato le copre la gola, e ha l’aria decisamente scomoda.
« Ehm ehm » dice lei, per testare il microfono. Poi trilla: « Buongiorno, Distretto 4! Mi chiamo Suzie Hopkins, e sono la vostra nuova presentatrice! Il mio compito è quello di condurre voi e i tributi attraverso lo spettacolo degli Hunger Games! ».
Fino ad ora i nomi dei Tributi erano stati estratti senza troppe cerimonie dal Sindaco. Questa deve essere una delle novità di questa edizione.
« Suzie Hopkins » borbotto. « Nome strano ».
« Devi sentire quelli che danno ai bambini nel distretto uno ».
« Ma ora, ascoltiamo le parole del nostro presidente Haywood, per non dimenticare! ».
Uno schermo alla nostra destra smette di mostrare le immagini della piazza e si sintonizza su vecchie immagini di guerra, sulle rovine fumanti del Distretto 13, su scene di violenza incontrollabile, mentre una voce – che immagino essere quella del presidente – descrive le atrocità dei Giorni Bui e come gli Hunger Games abbiano contribuito a mettere fine a tutto questo.
Ma visto che è lo stesso discorso di quando Mike partecipava alle Mietiture, quindi dopo tanto tempo non mi fa più molto effetto. Ne approfitto per continuare a chiacchierare con Hanna.
« Guarda i pantaloncini che ha » dico. « Sembrano dei palloncini! ».
« Sì, ma sono passabili in confronto a tutto il resto che ha addosso ».
« Concordo. E poi sono azzurro scuro ».
Hanna alza gli occhi al cielo. « Basta che è di una sfumatura di blu, e qualunque cosa per te diventa carina! ».
« Eh, che ci vuoi fare? » dico, dandole una leggera gomitata.
« E dai, smettila » ridacchia.
« Mmm, secondo te riusciremmo mai a camminare su dei tacchi come quelli? » chiedo, tanto per cambiare discorso.
« Ma dai, ti immagini camminare sulla sabbia con quelli? Affonderesti in trenta secondi! ».
« E in effetti a Capitol City deve essercene proprio tanta, di sabbia. Chissà se…».
« Leslie Thompson! ».
«…se hanno il mare, da quelle parti. O almeno un lago…». Hanna mi tira una gomitata. «Che c’è?» dico, seccata. «Perché mi hai chiamata?».
Lei si è fatta improvvisamente pallidissima. « Non…» inghiotte a vuoto. « Non ti ho chiamata io, Les ».
Mi giro verso il palco, e vedo Suzie Hopkins che scruta la folla con un foglietto in mano. Senza che me ne accorgessi il video del presidente è finito, e hanno estratto il nome del Tributo Femmina del Distretto 4.
« Leslie Thompson » ripete con voce chiara, scandendo le parole. Mette su un’espressione imbronciata. « Avanti cara, vieni fuori ».
Per un attimo penso di scappare. Sono seduta nella fila più esterna, quella che dà sul corridoio tra la folla che taglia in due la piazza. Ci sono migliaia di persone, mi dico, forse ce la faccio. Ma dove diavolo potrei andare?
Sono quasi tentata di rischiare il tutto e per tutto quando ricordo quella ragazza che hanno beccato l’anno scorso mentre tentava di scappare dal Distretto. Aveva trovato un punto cedevole nel terreno e aveva scavato una buca abbastanza ampia da strisciare sotto la recinzione elettrificata. L’avevano beccata quasi subito, era stata punita con quindici frustate e messa alla gogna. E le era andata bene. C’erano storie su prigionieri di guerra portati a Capitol City… mia madre ancora non vuole che io e Mike le sentiamo.
E non era neanche stata scelta come Tributo…
Comincio a respirare affannosamente. Mi tremano le labbra, ma faccio un passo di lato e mi ritrovo in mezzo al corridoio. Con la coda dell’occhio vedo che il monitor ora non trasmette più la faccia confusa di Suzie Hopkins, ma la mia, spaventata come non mai.
Non è vero
Mi giro verso Hanna e le faccio un debole sorriso. Ha entrambe le mani premute sulla bocca, come se fosse stupita o stesse tentando di non mettersi a singhiozzare davanti a tutta Panem.
Non può esserlo
Azzardo un altro passo avanti, ma in quel momento un tafferuglio e un’esplosione di grida mi costringe a girarmi verso l’ingresso principale alla piazza.
« Leslie! » sta gridando Mike, trattenuto da tre Pacificatori, tutti e tre molto più bassi di lui; troverei la scena quasi buffa se non fosse per la situazione in cui mi trovo. Invece, mi metto a correre verso di lui. « Mike! » urlo. La parte infantile di me crede ancora che mio fratello maggiore possa risolvere qualunque problema.
« Leslie! » chiama di nuovo, ma arrivano altri Pacificatori che lo nascondono alla mia vista. Altri due mi afferrano per le braccia e mi trascinano sul palco. Non ho la forza di urlare, ma continuo a guardare nella direzione in cui è scomparso finché quasi non inciampo nel primo gradino che porta sul palco. Suzie Hopkins mi tende una mano ma io rifiuto, perché una remota parte della mia mente si ricorda dei sottili e fragili tacchi che indossa, su cui io e Hanna stavamo scherzando non più di cinque minuti fa…
Lei mi poggia comunque una mano sulla spalla e mi guida verso il microfono.
« Dici a tutti come ti chiami, su, cara ».
A che serve?, mi chiedo. Ma obbedisco, in un sussurro. « Leslie Thompson ».
« Brava! Un applauso al nostro Tributo Femmina del Distretto 4!».
Nessuno osa muoversi, con un leggero sospiro di disappunto da parte di Suzie Hopkins e un’altra studiata espressione imbronciata. Vengo sospinta in un angolo del palco, mentre lei infila la mano in un secondo boccione di vetro e ne estrae un altro rotolino di carta.
« Trevor Linebeck » chiama.
Dopo qualche secondo dalle ultime file esce un ragazzino che scatena un bisbiglio nella folla. Trevor Linebeck non potrà avere più di dodici anni, con il visino pallido dalle labbra carnose e i ricci di un biondo rossastro. È alto e magro, cosa che lo fa sembrare ancora più fragile.
Ciononostante, sale sul palco con aria spavalda, saluta il pubblico con un cenno della mano e quando dobbiamo stringerci la mano nei suoi occhi non vedo ombra di paura. Io mi sento in stato di trance.
Metre Suzie Hopkins saluta il pubblico promettendo una entusiasmante edizione dei Giochi, io e Trevor veniamo scortati giù dal palco dentro il Palazzo di Giustizia. Credo sia il posto più lussuoso che io abbia mai visto finora: le pareti sono di un bianco candido, quasi accecante, non come l’intonaco delle nostre case che ormai tende al grigio; sottili tavolini altrettanto bianchi servono da supporto per vasi di fiori di colori mai visti.
Il Palazzo di Giustizia è stato il primo edificio ad essere ricostruito dopo i Giorni Bui. A quanto pare la filosofia del presidente è il controllo, quindi voleva ristabilire fin da subito il luogo che doveva servire a mantenere l’ordine – ma nonostante il suo ruolo durante la guerra il Sindaco si era schierato dalla parte dei ribelli. Ed è morto durante il conflitto.
Mi fanno entrare in una stanza e chiudono le doppie porte alle mie spalle. È lussuosa ma spoglia: al centro esatto c’è un divano blu, con lo schienale a forma di onda; le finestre, che in genere devono affacciarsi sulla strada, ora sono sprangate; un altro vaso di fiori spicca in un angolo, emanando un profumo talmente intenso da disgustarmi. E poi, sulla parete alla mia sinistra, vedo un quadro con la cornice dorata che rappresenta uno scorcio del Distretto 4, con in primo piano una barca a vela e dei pescatori. Mi siedo sul divano, senza mai distogliere lo sguardo, tentando di ricordarmi ogni dettaglio di casa mia. Non sono stupida. Non ho creduto fin ora agli Hunger Games – e magari ho ragione, magari in poco tempo finiranno – ma questa è la mia edizione, e dubito che riuscirò a uscirne viva. Capitol City è famosa per la sua frivolezza, per la sua stranezza e per la varietà di strumenti di tortura che possiede.
Pian piano, ritorno in me. Il primo pensiero razionale che faccio è che stasera non sarò io a dover rammendare le reti.
Comincio a chiedermi cosa ne faranno di me. Sono qui dentro già da dieci minuti e nessuno ha dato segno di ricordarsi che sono qui. Comincio a tormentare una ciocca di capelli vicino l’orecchio.
A un certo punto la porta si spalanca ed entra mio padre come una furia; subito dietro di lui viene Mike – che getta un’occhiataccia ai due Pacificatori in corridoio intenti a fare la guardia – e infine mamma, con in braccio Lindsay; lei ha un’espressione nervosa, ma non credo capisca perché ora ci troviamo qui. La portiamo alle mietiture, ma non le permettiamo di vedere i Giochi. Non l’hanno permesso nemmeno a me, finché non ho compiuto dieci anni.
Mio padre si precipita verso di me e mi abbraccia; io mi aggrappo alla sua camicia come se ne andasse della mia vita. Penso che questo potrebbe essere l’ultimo momento che vedo la mia famiglia – anzi, lo sarà quasi sicuramente – e mi si forma un nodo in gola. Credo di non essere ancora scoppiata a piangere solo per lo shock.
« Perché siete qui? » riesco a sussurrare, quando mio padre mi lascia andare. Mia madre e mia sorella si sono sedute sul divano, Mike misura la stanza a grandi passi, ma io non riesco a fare nessuna delle due cose. Vorrei raggomitolarmi in un angolo e svegliarmi da quest’incubo.
« Ci hanno fatto entrare loro »spiega papà. « Per… augurarti buona fortuna ».
« Per dirmi addio, insomma » lo correggo.
Mike si blocca all’improvviso e mi prende per le spalle. « Sentimi bene, Les. Tu puoi vincere ».
« Mike, non scherziamo » gli dico. Non mi va che mi menta, anche se è per rassicurarmi.
« Ha ragione, Lesile » dice invece mio padre, e io mi rimetto a fissare il quadro con insistenza. « Sai fare un mucchio di cose. Sai pescare, fare nodi, nuotare, arrampicarti sugli alberi…».
« Sugli alberi delle navi » puntualizzo io.
« E quanto potrà essere diverso? ».
Evito di rispondergli. « L’anno scorso l’arena era un deserto » dico invece. «Solo sabbia e sabbia per kilometri. Saper nuotare mi sarà di certo utile ».
« Non faranno di nuovo un’arena così » dice Mike, convinto.
« E perché no? ».
« Perché  è stata una noia mortale ».
« E tu chiami noia mortale ventiquattro persone che si scannano fra loro?! » esclamo, improvvisamente furibonda. Gli Hunger Games sono una merda solo per alcuni, e specialmente per chi ha la mia età.
« Ma certo che no, Leslie » interviene mamma, che apre bocca per la prima volta da quando è entrata. « Ma se ben ci pensi, in pochi si sono scannati. I più sono morti di stenti ». Mike annuisce con vigore.
« La sostanza non cambia » dico, irritata. « Sono morti ». E tra poco morirò anche io.
« Prova per un attimo a vederla come la gente di Capitol » suggerisce mio padre.
« Non c’è differenza. Capitol ci vuole morti. Questo è quanto ». Mi sento sfinita, e il fatto che loro stiano tentando di darmi speranza mentre io provo a mettermi l’anima in pace da subito non mi aiuta.
« Il governo di Capitol vi vuole morti. Il pubblico vuole divertirsi. E il governo deve accontentare i frivoli capricci dei cittadini. Cosa c’è di entusiasmante in uno che muore di sete? » gli occhi azzurri di Mike mi scrutano per accertarmi che capisca il concetto. « Pensa invece a una grande lotta, spargimenti di sangue, violenza…».
Rabbrividisco. Tutto ciò è spaventoso, e tuttavia si incastra perfettamente con il discorso che facevamo prima in barca. Se ci volessero morti e basta potrebbero ucciderci adesso, senza truccarci e vestirci come bambole, senza mandarci nell’arena a combattere.
« D’accordo » dico. « Mettiamo che in un caso remoto io riesca a sopravvivere almeno cinque minuti… che cosa farei? Sono alta uno e cinquantacinque, non so combattere…»
« Sei veloce, puoi nasconderti facilmente » insiste papà.
« E sei abituata a maneggiare gli arpioni » aggiunge Mike.
« Una cosa è tirarli in acqua e una sulla terraferma » dico. Poi noto un’altra differenza fondamentale. « Una cosa è tirarli contro dei pesci, un’altra contro delle persone ».
A questa mia uscita, non sanno più cosa dire. Afflitta, mi lascio cadere sul divano accanto a mia madre.
« Sentimi bene » dice lei. « Magari morirai, magari no, ma se non ci provi nemmeno la fine è già certa ».
« Ma io…» inizio, senza nemmeno sapere cosa dire; ma la porta si apre di nuovo e un Pacificatore dice che devono andare via.
Ci abbracciamo tutti insieme, Lindsay si mette a ridere per quello slancio di affetto inaspettato, e perché lei è schiacciata al centro insieme a me. Credo che sia così che voglia ricordare la mia famiglia: Lindsay che ride, e tutti quanti abbracciati, sempre insieme. Quando i Pacificatori vedono che non abbiamo nessuna intenzione di staccarci l’uno dall’altro, spingono gli altri fuori con la forza.
Mi richiudono dentro, e torno sola. Ripenso a ciò che mi hanno detto, e ora capisco che ciò che sto per affrontare è ancora peggio di quanto pensassi. Non dovrò solo morire, quello sarebbe relativamente facile. No, io dovrò farmi manipolare da una città di idioti, essere mandata in un’arena e poi uccisa nel più brutale dei modi, in modo che loro possano divertirsi.
Mi viene da vomitare. Se prima odiavo Capitol City adesso la detesto, li detesto tutti quanti uno per uno.
La porta si riapre, e mi aspetto che vengano a dirmi che stiamo per partire; invece entra Hanna.
Mi alzo e corro ad abbracciarla; ha gli occhi rossi e l’aria di una a cui hanno tolto la terra sotto i piedi. Sento che le lacrime stanno per arrivare e sbatto forte le palpebre per spazzarle via; mi tocca comunque tirare su col naso.
« Ora non dirmi che anche tu sei qui per dirmi che andrà tutto bene » le dico, e lei abbozza un sorriso.
« Sono qui per ricordarti cos’è che sai fare e cosa dovrai imparare a fare ».
« Mio padre e Mike hanno già fatto un inventario di tutto ciò che potrà essermi utile, compreso arrampicarmi sugli alberi delle navi e lanciare arpioni ». La mia è ironia, ma lei annuisce con serietà.
« Bene. Allora parleremo solo di quello che dovrai imparare a fare ».
Mi prende una mano e mi fa sedere di nuovo sul divanetto, al suo fianco. « Ora, il fatto che ci preparino come per una festa ha un senso » inizia.
« Sicuro » dico. « Far divertire quelli di Capitol ».
« Devi girare la situazione a tuo vantaggio. Fatti amare dal pubblico. Devi ammaliarli ».
« Come se fosse facile, eh? ».
« Fingi. Menti. Costruisciti un personaggio e recita. Basta anche essere sarcastica come ora, a certi piacciono le ragazze di carattere ».
Mi muovo a disagio sul divano, senza guardarla negli occhi. « Non mi piace essere usata come semplice merce. Come se loro avessero diritto a far di me quello che vogliono » dico. « Non voglio ammaliarli, voglio fare a loro quel che stanno facendo a me ».
« Allora trova un modo per girare la frittata » dice asciutta Hanna. « È sempre stato il tuo forte».
Poi mi abbraccia un’ultima volta ed esce dalla stanza.
Poco dopo torna Suzie Hopkins, che mi annuncia – per mia grande gioia – che ci accompagnerà a Capitol e rimarrà con noi per tutta la durata del nostro soggiorno lì. Durante il tragitto che porta fino alla stazione, occupo il tempo immaginando di fare pratica su di lei per quando entrerò nell’arena.
Eppure, anche mentre lei chiacchiera instancabilmente al mio fianco con il suo accento frivolo e lezioso, non riesco a pensare davvero ad uccidere qualcuno. A dir la verità, io proprio non voglio. È una di quelle cose che Capitol ha deciso per me, e io odio che qualcuno prenda le decisioni al posto mio. Sto ancora ragionando sulle remote possibilità di nascondermi in qualche punto dell’arena ed aspettare che sia tutto finito, quando arriviamo al treno che ci poterà a destinazione. Non è come i treni merci, con i vagoni squadrati che cigolano a ogni movimento. Questo qui sembra fatto di puro argento lucido, lungo e affusolato, privo di vagoni separati ma compatto come un serpente su rotaie.
Il posto è pienissimo di giornalisti, tutti di Capitol, anche se meno eccentrici di Suzie. Lei ci fa cenno di salutare la folla. Io mi rifiuto, ma Trevor alza una mano e obbedisce con spavalderia. Lo osservo per capire se sta fingendo o se davvero ha voglia di finire in quella stramaledetta arena.
Dopo qualche altra foto saliamo sul treno, che parte poco dopo a tutta velocità – tanto che il paesaggio fuori dal finestrino è sfocato. Mi torna la nausea e, non appena mi viene indicata la mia stanza, mi ci chiudo dentro e vado in cerca del bagno.
Per essere solo la camera di un treno, è assurdamente grande e lussuosa. Mi chiedo come a Capitol siano riusciti a far stare un letto così grande, che da solo potrebbe contenere quasi tutta la mia famiglia, e una vasca da bagno che all’occorrenza può fare anche da doccia. La riempio d’acqua fino all’orlo e mi ci immergo dentro, ben decisa a starci almeno due ore, la metà del tempo che ci vuole per arrivare a Capitol, godendomi l’acqua calda e immaginando di essere ancora a casa.


———
Angolo delle autrici:
Saalve ~
Siamo ancora noi, le Rakistars.
La storia comincia, ma è nel prossimo capitolo che si comincerà a vedere come mai questa è una storia diversa dalle altre.
Ci farebbe molto piacere se lasciaste qualche recensione, positiva o negativa che sia.
May the odds be ever in your favor!

  
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