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Autore: BohemianScaramouche    19/09/2012    5 recensioni
“Allora? Come è iniziato tutto?”
“Vuoi sapere tutta la storia?” le chiedo, prendendo un altro sorso di tè.
Annuisce violentemente, a momenti ho paura che le si stacchi la testa.
Mi mordo le labbra. Raccontarle proprio tutto? Ma sì, infondo è grande ormai…
“Tutto iniziò nell’agosto del 1958, quando mi trasferii a Liverpool dalla mia città natale di Southport…”
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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BASTARD!






31 agosto 1958


Ultimo giorno di agosto. Fra poco sarebbe iniziata la scuola, quindi fine della pacchia.
Era così bello non dover far niente dopo giorni di lavori forzati! Dormivo fino alle undici, ero presentabile verso le due, mangiavo come un maiale, leggevo, davo noia a mia sorella… non pensavo che le vacanze potessero essere così belle. Fare NIENTE tutto il giorno mi procurava una gioia incommensurabile. Le vacanze dei miei anni a Southport erano sempre così piene di impegni: uscire con il mio gruppo di amici, andare al mare, fare il bagno, prendere il sole, aiutare nonna a preparare il pranzo… A Liverpool provai invece un nuovo tipo di vacanza, solitaria, ma sorprendentemente rilassante. Il tempo che sprecavo era dedicato solo a me stessa.
A volte decidevo di svegliarmi presto e con la mia tenuta da battaglia mi addentravo nei parchi della città, oppure mi spingevo fino alle rive del Mersey o, ancora, andavo al porto. Lì mi mettevo su una panchina e mi mettevo a scribacchiare quello che mi passava per la testa (principalmente poesie e brevi racconti), oppure, se avevo il mio blocco per gli schizzi, rappresentavo con i carboncini il paesaggio che mi circondava. Mettere le cose bianco su nero, che fossero disegni o testi, mi riempiva di gioia. Rendeva le cose più nitide, metteva pace nella mia testa costantemente incasinata.
Altre volte invece, mi limitavo a stare in casa a cantare, ballare o semplicemente ad ascoltare del buon rock ‘n’ roll: Elvis, Chuck, Eddie, Gene, Buddy… i miei eroi.
Anche papà li adorava, perciò era facile convincerlo a comprarmi tutti gli LP dei miei cantanti preferiti. Appena acquistati, i vinili venivano subito messi nel grammofono a tutto volume e io e papà e, quando c’era, mio fratello Adam ci scatenavamo sulle note di quelle canzoni irresistibili, ballando in modo maldestro e cantando parole sbagliate. Nel frattempo Susan, riluttante a lasciarsi andare al suono di quella musica sregolata, stava sul divano a guardarci. Dopo un paio di ascolti la danza era più accurata ed il testo era recitato perfettamente, ma ci divertivamo lo stesso come pazzi. Il motto di mio padre era: ‘Se la musica è il cibo dell’amore, continua a suonare’. Fino ai quattordici anni avevo sempre creduto che fosse una massima di sua invenzione, ma poi avevo scoperto che aveva fregato questa frase a Shakespeare.
Papà aveva anche numerosi LP di cantanti jazz e blues come Billie Holiday, Ray Charles ed Ella Fitzgerald.  Mi piacevano tantissimo, anche se non appartenevano alla sfera ribelle del rock ‘n’ roll.
Tuttavia la maggior parte delle volte, la musica che regnava a casa nostra era quella di Elvis Presley, trasmessa dalla radio o prodotta dal nostro mangiadischi. Il volume era sempre abbastanza alto, in modo tale che potessimo godere appieno della voce del Re, ma di certo non avrebbe dato noia ai nostri vicini, i Reevers.
 
I Reevers risiedevano nell’altro appartamento della casa bifamiliare dove noi abitavamo. Erano una coppia di coniugi i cui figli erano già andati tutti via di casa, ma lavoravano ancora, avendo entrambi poco più di cinquant’anni. Stephen era uno stenografo, mentre Dora faceva l’assistente odontoiatrica. Entrambi erano piuttosto simpatici e abbastanza tolleranti nei confronti del rock e dei giovani, quindi la convivenza con loro si era rivelata piacevole e priva di problemi.
Steph e Dora erano gli unici vicini con cui avevamo fatto conoscenza. Non sapevamo quasi niente delle altre famiglie che abitavano la via. Quando le incrociavamo per strada era tutto un ‘Buongiorno’, ‘Salve’, ‘Buonasera’ molto educato, contornato da sorrisoni finti, come se avessimo saputo benissimo chi fossero. In realtà parlo solo a nome mio e di mia sorella: papà invece non faceva che fermare persone per strada e farsi fermare. Sembrava così contento di essere tornato a Liverpool! Così, circondato dai vecchi compagni di scuola, dai vicini di un tempo, dagli amici degli anni che furono, mio papà sembrò rinascere. Non lo avevo mai visto in quel modo, salvo nelle poche occasioni in cui, tempo addietro, andavamo a Liverpool a fare questa o quella commissione o a fare visita alla nonna, quando ancora non si era trasferita da noi. Oltre ad un sorriso rilassato, in seguito al trasferimento a papà spuntò anche una certa parlantina. Era capace di tenere a parlare i vecchi conoscenti per ore, durante le quali iniziava ad enunciare la propria biografia completa a partire dai tempi in cui si era trasferito a Southport. Non si soffermava molto sulla ‘scomparsa’ di sua moglie, ma in compenso raccontava ogni singola vicenda in cui noi figli facevamo la nostra comparsa. Era imbarazzante. Soprattutto quando ci si mettevano anche gli ascoltatori, che, passando per un minuto alla categoria interlocutori, iniziavano dai tipici ‘Ma guarda come sono cresciute queste belle ragazze!’ e terminavano con i più orribili ‘Sì, mi ricordo quando da piccola andavi al mercato con la nonna e ti mettevi ad alzare la gonna alle signore anziane per far loro i dispetti! Ahahhaahha!’.
Davvero imbarazzante.
 
Stavo ripensando a questi sgradevoli episodi quando, nella calma di quel caldo pomeriggio, il campanello suonò. Papà era di sopra a fare non so cosa, così come Sue, che probabilmente si era rinchiusa in camera a sonnecchiare. Io ero l’unica al piano terra, immersa fino al collo in un nuovo romanzo e con le orecchie piene della voce di Elvis che gridava: “Let’s rock, everybody let’s rock, everybody on the whole cell block, they was dancing to the jailhouse rock!”.
Tuttavia, anche se ero molto impegnata, sarebbe toccato a me alzarmi e andare ad aprire la porta. Chissà, magari Dora non aveva più sale e stava venendo a chiedercene un po’ a noi. Ma questa mia ipotesi era semplicemente improbabile: a casa Reevers avevano sempre tutto, eravamo sempre noi a chiedere se ci prestano un po’ di questo o un briciolo di quello. Ci dimenticavamo sempre un sacco di cose quando andavamo a fare la spesa.
Il campanello suonò un’altra volta, irritato. Sbuffai, mi stiracchiai un po’ e, molto lentamente, mi alzai dal divano. In quella breve frazione di tempo, Susan era già scesa da camera sua di tutta fretta e aveva spento Elvis.
“Che cazzo fai?” le urlai, come se mi avesse preso a schiaffi.
“Eh?” fece lei, senza capire.
“Scusa, riformulo la domanda in un linguaggio piccolo borghese in modo che tu possa capire: Perché diavolo hai spento il grammofono quando c’era Jailhouse Rock?” formulai, la faccia rossa completamente indignata. Non si può interrompere una canzone del Re sul più bello. E’ sacrilego. La gente va all’inferno per questo tipo di peccati.
“Sono arrivati i vicini della casa affianco, non possiamo certo accoglierli in casa nostra con questa musica di sottofondo!”
“Ma è ELVIS! Se non lo amano non possono certo entrare in casa nostra e…” replicai disperata.
“Jo, sta’ zitta e va’ a cambiarti. Perbacco, sembri una senzatetto! Chiama anche papà, intanto io accolgo gli ospiti” mi ordinò lei, aggirando le mie proteste.
Sospirando mi diressi al piano superiore, dove papà si stava già preparando a scendere per poter salutare i vicini. Che poi, bravi i vicini a presentarsi per la prima volta dopo quasi un mese dal nostro arrivo!
Con la testa piena di bestemmie rivolte a Sue e ai vicini, andai in camera a cambiarmi. Mi soffermai prima davanti allo specchio. Cosa avevano di sbagliato i miei jeans pieni di toppe colorate , la mia maglietta grigia stropicciata e il mio chignon spettinato? Proprio non capivo. I vicini sapevano che andavano a trovare una famiglia nel pieno della siesta pomeridiana, mica potevano pretendere che girassimo per casa vestiti da festa! Infastidita da questi pensieri, andai davanti all’armadio e ne tirai fuori una camicetta azzurrina a maniche corte e una gonna color caffè lunga fino al ginocchio. Ai piedi mi misi un paio di ballerine scure senza tacco e, per quanto riguarda i capelli, me li legai con un nastro azzurro in una coda alta. Mi diedi un altro fugace sguardo allo specchio e, decidendo che più di così non sarei riuscita a fare, scesi velocemente dalle scale. Girai a destra e, entrata in salotto, mi accolse la seguente scena: papà si era accomodato sulla poltrona di pelle del soggiorno, mentre Susan era seduta tutta impettita su una sedie presa dalla cucina; i tre ospiti invece si erano posizionati sul divano. In tutto gli intrusi erano tre: una donna e due uomini. Appena mi addentrai in salotto, gli sguardi di tutti furono rivolti alla sottoscritta, provocandomi un grande imbarazzo.
Odiavo essere scrutata.
“Jo, sei arrivata finalmente!” esclamò papà con un sorriso.
“Mah, in realtà sono stata via solo per cinque minuti” borbottai a voce troppo bassa per essere udita.
“Ma su, presentati ai nostri ospiti Joanna, non fare la timida!” continuò Susan, gridando.
Le avrei tirato volentieri un pugno. Prima di tutto ci sento, tesoro; secondo non ti condannano se mi chiami Jo invece di Joanna; terzo e ultimo, non farmi fare la figura della cretina dicendomi di non fare la timida!
Tutto questo però non lo potevo dire, quindi sfoderai il mio miglior sorriso (forzato, naturalmente) e mi presentai tutta carina ed educata, stringendo cortesemente la mano agli ospiti senza però spappolargliela, come ero solita fare (la mia stretta era decisamente vigorosa).
“Salve, sono Joanna, come avrà di certo capito. Piacere di conoscerla!” feci, dando la mano alla donna, che era la più anziana di tutta la combriccola di vicini. I capelli scuri erano arricciati secondo la moda del tempo ed era vestita con una certa eleganza, ma la cosa che più mi colpì furono i suoi occhi: scuri ed estremamente severi. Mettevano paura.
“Mary Smith, piacere” disse lei, porgendomi la mano e facendo una strana smorfia, forse in un disperato tentativo di fare un sorriso austero.
“Ma tutti la chiamano Mimi, quindi potete farlo anche voi” disse il ragazzo che sedeva alla destra della donna beccandosi un’occhiata di fuoco da parte della suddetta Mimi.  Non riuscii a vederlo bene poiché la sua figura era parzialmente coperta da quella di Mrs. Smith. Inoltre, prima che potessi osservarlo meglio, si fece avanti l’altro giovane, che, essendo seduto a sinistra di Mimi, era più vicino a me. Questi avrà avuto poco più di vent’anni, anche lui era vestito di tutto punto e i suoi capelli erano perfettamente pettinati. Non mi suscitò nessuna curiosità, la sua faccia era uguale a migliaia di altre.
“Michael Fishwick” si presentò, porgendomi impacciato la mano “Sono un affittuario di Mrs. Smith. Piacere di conoscerla Miss Page”
“Il piacere è tutto mio!” dissi più per formalità che altro.
Rivolsi poi il mio sguardo all’altro ragazzo. Mimi si era un po’ scostata, così potevo vederlo meglio. Si rivelò essere il più giovane del gruppo. Avrà avuto appena due anni più di me. Indossava una tenuta da Teddy Boy e capelli castani erano acconciati con il ciuffo a banana stile Elvis. Finora piuttosto banale: tutti i giovani avevano quella pettinatura e quel tipo di vestiario. Beh, almeno sembrava che gli piacesse Mr. Presley e questo era un punto a suo favore. Sul viso era visibile un’espressione decisamente infastidita (probabilmente, proprio come me, odiava le visite di cortesia), che albeggiava dai suoi occhi scuri dalla forma affusolata e terminava nella piega contratta che prendeva la sua bocca dalle labbra sottili, smorfia che faceva arricciare anche il naso aquilino. Non era un gran che di bellezza. Avevo sperato di meglio.
“E ultimo, ma non ultimo, John Lennon. Sono il nipote di questa qua” fece porgendomi annoiato la mano e facendo un cenno nella direzione di Mimi. Che galanteria da tricheco!
“Joanna Page. Piacere di conoscerti”
Mi squadrò un attimo con lo sguardo, soffermandosi sul petto, ma, capendo che c’era poco o niente da osservare, tornò a pensare agli affari suoi. Maschi!
“Su sorellina, prendi una siediti e accomodati con noi!” fece Susan con la sua voce più odiosa.
- Sue, se non la smetti giuro su Chuck Berry che ti ammazzo - pensai rabbiosamente.
“Va bene Susan Barbara, vado e torno” dissi calcando innocentemente il suo secondo nome, Barbara, che lei odiava con tutto il cuore. A me non dispiaceva. Certamente era meglio del mio: Marie. Lo odiavo, era così… insulso. Insulso e un po’ troppo francese per i miei gusti.
Dopo essermi beccata uno sguardo omicida da parte di mia sorella, mi diressi in cucina, presi una sedia e mi sedetti  accanto a papà, in modo da stare il più lontano possibile da Sue la Perfida. Gli altri si erano già rimessi a chiacchierare.
“Davvero studi biochimica? Deve essere così interessante!” stava dicendo Susan, rivolta a Michael. Naturalmente stava cogliendo l’occasione per fare la gatta morta con quel noioso di Fishwick.
“Lo è” rispose il giovane biochimico arrossendo e guardandosi le mani, che teneva in grembo. Loquace il ragazzo!
“Lei invece di cosa si occupa, signorina Page?” chiese Mimi a Susan.
“Oh, io faccio l’infermiera. In questi giorni sto cercando un impiego in uno degli ospedali di Liverpool”
“Anche io ho fatto l’infermiera” ammise la donna con un sorriso “Lavoravo al Woolton Convalescent Hospital”
“Davvero?”
No, per finta, Sue.
“Sì. Mi piaceva davvero tanto come lavoro…” rispose Mimi con uno sguardo sognante.
“Lei invece Joanna, che scuola frequenta?” chiese Fishwick, stanco di osservare le sue mani.
“St.Julie’s Catholic High School” rispose papà al posto mio.
Ebbene sì, il mio caro paparino, pur essendo alla conoscenza del mio ateismo e pur avendolo accettato da tempo, mi aveva iscritto ad una scuola cattolica. Alle mie proteste aveva risposto che le migliori grammar school* di Liverpool erano tutte in mano al clero. Maledetto! Purtroppo era troppo tardi per iscrivermi ad un altro istituto, quindi per quell’anno avrei dovuto fare buon viso a cattivo gioco e frequentare quella cazzo di scuola.
“Ah” fece Mimi la Strega, gelida “Siete cattolici?”
“A quanto pare!” rispose papà, bonario.
“Ma non mettiamo a parlarci di religione, se è un argomento che crea così tanta tensione” continuò poi mio padre, sempre con un sorriso, facendo arrossire Mrs. Smith che borbottò un ‘Io non ho nulla contro i cattolici’ poco convinto.
“Tu John, che scuola frequenti?” domandai allora io, per cambiare argomento.
Silenzio in aula. Tutti ci mettemmo a guardare John, che mi rivolse di rimando un’occhiata interrogativa, come per chiedere quale domanda gli avessi posto.
“Cosa?” fece infatti, infastidito che qualcuno avesse interrotto il flusso dei suoi pensieri.
“Che scuola frequenti?” chiesi nuovamente, seccata di dover ripetere la domanda.
“Quarry Bank” rispose, tornando poi a pensare ai fatti suoi. Ecco, lui era forse ancor meno loquace di Fishwick. Chissà su cosa rifletteva, sembrava così assorto!
“Oddio, mi sono appena accorta che non vi abbiamo offerto niente! Vi andrebbe un tè? Sarebbe ottimo da gustare con questa splendida torta di mele. Guarda Joanna, Mrs. Smith è stata così gentile da portarci questo dolce. L’ha fatto lei con le sue mani!” disse mia sorella, riprendendo il controllo sulla situazione.
Certo, un ottimo dolce. Di mele. Preparato da Mimi la Perfida. Con le sue mani.
 - Questa ci vuole ammazzare, come ha quasi fatto la strega con Biancaneve, altro che! L’ho già inquadrata, io! – pensai, decidendo in quel momento che non avrei mai assaggiato quella torta assassina.
“Sì, del tè va bene” asserirono i nostri ospiti, o perlomeno la maggior parte di questi.
“No zia, anche per il ‘teino’ non ci sto. Avevo appuntamento con gli altri mezz’ora fa!” sbottò infatti il nipote di Mimi.
“John!” sibilò lei cercando di reprimere il desiderio di farlo fuori all’istante.
“Un bicchiere d’acqua, allora?” chiese Sue tentando di rimediare a questa piccola tensione che si era andata a formare.
John le lanciò un sguardo di fuoco.
“Beh, se il ragazzo vuole uscire, lasciamolo libero! A quale giovane interesserebbero le chiacchiere di noi poveri vecchi?” provò papà. Lui si beccò invece uno sguardo di puro odio da parte di Mimi.
“No signor Page, è una questione di principio. John non può fare sempre quello che vuole. Bisogna attenersi a delle regole” si irritò infatti Mrs. Smith.
 “E quali sarebbero queste regole?” si sentì dire.
Tutti si girarono verso di me.  No, non era possibile. L’avevo detto davvero a voce alta. Cazzo!
- Merda, ora la vicina mi ammazza! - pensai, terrorizzata - Scoppierà il terzo conflitto mondiale e non basterà un giovane Fishwick a fermarlo -
“Come, prego?” chiese Mimi con una voce che faceva paura.
Merda! Merda! MERDA!
“Le ho domandato quali sono le regole a cui bisogna attenersi. Ed in particolar modo sono interessata a sapere a quale regola dobbiamo riferirci in questo caso” risposi con un coraggio non mio.
- Però, che palle, mi tocca sempre ripetere tutto! - pensai tentando di sdrammatizzare la situazione, perlomeno nella mia testa.
Mimi raccolse la sfida e disse infatti, lapidaria:
“John passerebbe da maleducato ad andarsene ora.”
Deglutii.
“Ma noi non lo considereremmo maleducato. In fondo abitiamo a due passi, lo vedremo molte altre volte nel corso del nostro soggiorno qui a Liverpool. Non è necessario che perda l’appuntamento con i suoi amici” risposi con una certa logica. Mi sentii invincibile per un millisecondo, ma poi Mrs. Smith fece una faccia talmente indignata da farmi tremare il midollo nelle ossa.
“Come ti permetti…” iniziò lei, ma prima che potesse scoppiare del tutto, Michael Fishwick agì.
“John potrebbe portare Miss Joanna insieme a lui!” esclamò infatti tutto d’un fiato.
Tutti stupiti, lo guardammo. Questa visita era più un viaggio di sguardi che altro.
“Cioè…” fece lui, tutto rosso, tentando di formulare una frase decente “Potrebbe portare Miss Page a fare un giro e a conoscere un po’ di ragazzi di Liverpool… In fondo è appena arrivata, sarà contenta di fare nuove conoscenze e… John potrebbe uscire e nel frattempo farebbe un gesto galante nei confronti della vicina”
Prima che Mimi potesse ribattere qualcosa, intervenni.
“Per me va bene!” e poi dissi, rivolta a John “Ci stai?”
“Sì, sì” rispose John in modo sbrigativo, contento di potersi levare da quella situazione imbarazzante.
“Allora andiamo!” esclamai, e prima che qualcuno potesse dire qualcosa, presi la mia borsa di cuoio e mi diressi con il giovane Lennon fuori di casa.
 
Appena giunti all’aperto, John si accese una sigaretta. Inspirò a fondo e poi buttò fuori tutto il fumo, senza dire niente. Poi, senza guardarmi, disse: “Bene, allora ci vediamo!” e si diresse per la sua strada.
Ma che cazz…
“Come ‘ci vediamo’? Che significa?” chiesi, contrariata, iniziando a seguirlo.
“Ehm, come dire…” fece lui fermandosi un attimo e fingendosi pensoso.  “ ‘Per ora addio, ci vedremo nel futuro’?” fece poi, sarcastico.
“Non vengo con te?”
“No” disse e ricominciò a camminare.
“Ma avevi detto che potevo venire con te e i tuoi amici” replicai, tornando alle sue calcagna.
“L’ho detto perché così mi liberavo di Mimi. Con lei bisogna sempre scendere a compromessi, in questi casi” mi spiegò senza badarmi troppo attenzione.
“Perché non posso venire con te?”
“Perché ho da fare”
“E io che fine faccio, scusa?” chiesi piccata.
“Mah, non saprei, vai a fare quello che fai di solito, preghi, vai in chiesa…”
“Non sono quel tipo di ragazza!” protestai, rossa in viso per la rabbia. Che ragazzo ottuso! Solo perché frequentavo una scuola cattolica (contro il mio volere, fra l’altro) non voleva dire che ero una bigotta!
“Ah, se sei una di quelle che alimentano il detto ‘le figlie di Maria sono le prime a darla via’, allora…” e fece un sorrisetto allusivo, fermandosi un attimo per lanciarmi uno sguardo malizioso.
Quel pezzo di…
“Vorrei tanto prenderti a badilate nei genitali” sibilai, disgustata.
“Cosa?” chiese curioso, pensando probabilmente che avessi proposto una porcata da fare insieme a lui.
“Non è una tecnica sessuale. Parafrasando quello che ho detto, il concetto è che sei una testa di cazzo”
Alzò scettico un sopracciglio. Poi ridacchiando disse: “Fa’ come ti pare nanetta. Ti perdi molto, comunque”.
E ricominciò a camminare, ma stavolta non lo seguii.
“Stronzo!”
 
Lista nera di Joanna M. Page:
1 – Topi,
2 – Susan B. Page,
3 – John Lennon.











*le grammar school inglesi corrispondono all'incirca ai nostri licei



*Angolo dell'autrice*,
Salve popolo! E' con grande piacere che vi annuncio la pubblicazione del terzo capitolo della mia ff, anche se è arrivato con un ritardo tremendo :S  Spero di poter pubblicare il prossimo capitolo in un tempo decente, ma con la scuola che inizia a fare già le prime pressioni è un po' difficile. Ma non sarà certamente questo a fermarmi! :D (okay, ora la smetto...)
 
E ora i ringraziamenti:
Ringrazio il mio fratellone Belfagor per la revisione di questo capitolo, daddaphoenix, malandrini_xs, Gnufoletta, itsanowl, NimTheNimrod, StreetsOfLove, I_me_mine e Val_ per aver recensito la storia, nuovamente daddaphoenix, Gnufoletta, I_me_mine e StreetsOfLove per averla messa fra le preferite, CheccaWeasley, Val_, Elejjkk, itasanowl e malandrini_xs per averla posta fra le seguite e infine ringrazio tutti coloro che leggono silenziosamente.
*'che ringraziamenti di merda' dice il mio Lennon interiore. Mi sa che ha proprio ragione T.T*
A presto,
la vostra BohemianScaramouche :D

  
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