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Autore: Angy_Valentine    21/09/2012    8 recensioni
«Ah, a proposito, io mi chiamo Lavi Bookman. Piacere di conoscerti!».
Non sembrava esserci modo di metter freno alla sua lingua, decisamente. Accennando un sorriso, allungò la mano verso quella che il giovane le stava tendendo, stringendola e lasciandosi avvolgere il palmo dalle sue dita.
«Rukia Kuchiki. Il piacere è tutto mio.».
[...]
Cominciava a covare il dubbio che i problemi di Lavi fossero, probabilmente, più grandi di quel che temeva. In cuor suo sperava davvero che il ragazzo non si offendesse per i suoi tentativi di aiutarlo. Perché dietro a quelle negazioni, quel nervoso, quegli sguardi frustrati e stizziti, sembrava scorgere solo una muta e disperata richiesta d’aiuto.

**
[Crossover Bleach/D.Gray-man][Crosspairing][LaviRuki][Byakuya x Hisana][Het][!Linguaggio][Angst]
[Sospesa in via definitiva]
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Byakuya Kuchiki, Hichigo, Hisana Kuchiki, Kuchiki Rukia
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
Capitoli:
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Sono sempre più in ritardo, trallallerò trallallà 8’D no, dai, stavolta è record, non ho mai aggiornato ad orari così umani! Di solito punto verso le 3-4 del mattino, stavolta è da poco passata la mezzanotte! *balla la hula*
Davvero davvero, non so come scusarmi per i mastodontici ritardi per gli aggiornamenti. Sono una cosa vergognosa ;A;” ad ogni modo, stavolta faccio le cose per bene, piuttosto che darmi ai ringraziamenti generici faccio la brava, tempo ne ho!
Dunque, iniziamo con Giuu, HaChiElriC, I r i s, jeanny991, KayeJ, Kuchiki Chan, LadyWolf_, M e g a m i,  matechan, S h a i l a, Sky_Writer, Tiamath, Ucha,  Xyle,  Yami N e zombiecch per averla inserita tra le seguite;
Ale_Victory_chan, Giuu, I r i s, M e g a m i, matechan, N e m e, Ookami san, Sky_Writer, tofuavariato, viola97, Yami N
e _Haily_  per averla inserita tra le preferite;
e ovviamente ringrazio di cuore tutti coloro che lasciano una traccia della loro lettura con le recensioni! Mi fa sempre un piacere immenso leggere cosa ne pensate, grazie davvero! Ma un ringraziamento tutto speciale voglio dedicarlo a M e g a m i e N e m e che, nonostante tutto, incertezze, pare mentali e quant'altro, mi sostengono sempre. Grazie davvero, tesore mie! çwç
Per quanto concerne il capitolo, dico solo... ByaSana çwç o almeno, facciamo qualche passo in quella direzione! Tanto sapete tutti quanto li amo insieme e che inevitabilmente finiranno insieme, neh, è forse lo spoiler più scontato di tutta la storia xD (e a proposito di ByaSana, un veloce ringraziamento va anche a chi ha letto e apprezzato When the Snow falls e When the Snow falls - After the Snow, just the Silence, grazie di cuore! <3)
Bene, direi che è tutto… vi lascio al capitolo! ;D


 

 

Capitolo 9 – Nessuno per me






Una settimana, due, tre, forse un mese. Da quella sera di Capodanno, Rukia aveva notato un sottile cambiamento nel comportamento di Lavi. Certo, in quanto a sorrisi e battute non si risparmiava, ma quella punta di nervosismo si ripresentava ogni qual volta lo trovava solo a pensare, sebbene tentasse di non darlo a vedere. Anche durante le preparazioni agli esami, che avevano deciso di fare in gruppo, parlava poco e niente e, se interrogato, sobbalzava come se l’avessero colto in flagrante e tentasse di giustificarsi per chissà cosa. Ricordava che, dopo il ritorno di Deak in sala, aveva visto quest’ultimo avvicinarsi al fratello e mormorargli qualcosa all’orecchio – e non aveva potuto fare a meno di notare come la schiena di Lavi si fosse improvvisamente irrigidita. Però il resto della sera l’aveva passato tranquillo… almeno, così le era parso. Anche Deak sembrava decisamente più nervoso di prima, da quando aveva visto quelle carte che Byakuya aveva lasciato sopra la cassettiera. Sì, lo conosceva da poco, ma le era parso comunque strano. Dal canto suo Rukia non sapeva esattamente cosa pensare – le pareva un po’ improbabile che Lavi e Deak potessero avere a che fare con quell’individuo finito sotto processo e a cui Byakuya aveva promesso un’accusa spietata come poche altre. Sperava si trattasse di nervoso pre-sessione d’esame, lei stessa ripassava dozzine di volte le stesse cose per timore di dimenticarsele – ma sì, di sicuro doveva essere così. O forse si erano trovati a disagio sapendo che suo fratello aveva a che fare con cani grandi di quella risma.
Accarezzò soprappensiero il morbido pelo di Chappy, il coniglietto dal manto beige che le era stato regalato da suo padre per il suo compleanno – e l’animaletto ricambiò il suo sguardo con le belle iridi scure, pulendosi poi il musetto con le zampe e facendola sorridere. Sojun e Ginrei erano venuti a trovarli il pomeriggio precedente al loro compleanno, fermandosi anche per la notte per poter così passare tutta la giornata insieme. Oltre a quell’animaletto che ora sonnecchiava beato sopra il suo piumone a fiori, aveva ricevuto un caldo cappotto nero contornato in pelo e con il cappuccio decorato con due lunghe orecchie da coniglio, più una lauta mancetta.
Stesso dicasi per Darukia, che a propria volta aveva ricevuto un cappotto grigio e bianco, insieme alla mancia da parte di Ginrei e una scatola finemente decorata con uno di quei carillon per cui lei andava letteralmente matta. Aveva la camera piena di quei gingilli dalle dolci melodie, tutti camuffati in portagioie o scatoline più piccole, ed ogni tanto le piaceva caricarli e ascoltarli per rilassarsi – o, perché no, anche mentre leggeva stesa a letto. Hichigo aveva riso non poco quando l’aveva scoperto, definendola una sdolcinatezza che mal le si addiceva, eppure al suo compleanno le aveva sbattuto in mano un pacchetto goffamente incartato e infiocchettato, dentro il quale aveva trovato nientemeno che una di quelle scatoline che lui tanto derideva. E rise tra sé ad immaginarselo mentre la sceglieva in negozio, magari tentando di non dare troppo nell’occhio. Per scherzo aveva registrato quella melodia nel cellulare, mettendola come suoneria delle sue chiamate, cosa che lo aveva fatto imbestialire quando l’aveva scoperto.
«Non osare mettere questa suoneria da fighetta per me, sai!».
Decisamente, non l’aveva presa bene… e meno male che nessun altro era venuto a saperlo! Non ci aveva pensato un istante a sequestrarle il telefono e cambiarle la suoneria, optando per qualcosa di più adatto a sé – anche a costo di passarle la canzone stessa col proprio cellulare.
«Ecco, questa va già meglio.» aveva commentato, restituendole l’apparecchio con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
Le era venuto un mezzo colpo a sentire che razza di canzone aveva scelto, ma in fondo si addiceva bene al suo modo di fare. “Number one”, come ritmo e testo, in fondo non gli stava poi così male.

«Ohi, Darkie, mi stai ascoltando?».
La voce dell’albino la riportò bruscamente alla realtà. Al di là della chiamata per gli auguri di compleanno, in quei giorni si sentivano di quando in quando anche per semplici chiacchierate, se non avevano il tempo di andare l’uno a casa dell’altro. Certo, chat o facebook sarebbero stati decisamente più economici, ma preferivano entrambi le chiacchierate a voce alle sterili chattate su uno schermo.
«Ah? Sì, sì, scusa, stavo pensando.» rispose in fretta la ragazza, scuotendo appena la testa e grattandosi distrattamente la nuca. Si lasciò cadere sul letto, fissando il soffitto bianco, mentre Hichigo riprendeva a parlare.
«Ti dicevo, hai più sentito la barbabietola? Manco più per studio ci fila, eh.».
«Ne sembri quasi dispiaciuto, Hichi.».
«Vorrai scherzare!» esclamò lui, piccato «È solo che ha ancora a casa il mio libro, quello che avevamo usato per antropologia. Altrimenti meno scassa e meglio sto, lo sai.».
«Stavo scherzando, tranquillo.» ridacchiò lei, accennando un sorrisetto che Hichigo non poteva vedere «Ora che mi ci fai pensare, ha ancora un quaderno che gli avevo prestato per alcuni appunti. Magari un giorno di questi gli chiedo se posso passare a prenderli.».
«Non si uccide se schioda il culo da casa e te li porta.» fu l’acida risposta «E sa dove abiti, visto che ci ha fatto l’onore di venire per Capodanno.».
«Vero anche questo. Ma potrebbe dirti che, visto che il libro è tuo, puoi andare tu a prendertelo.».
«Si faccia un giro! Visto che gliel’ho prestato è obbligo suo riportarmelo! Anche se in realtà se se lo tiene non mi fa né caldo né freddo, ma è il principio, capisci?».
«Sì, tranquillo, capisco.» replicò accondiscendente, giocherellando distrattamente con lo smalto del pollice «Però non so… sai, ne parlavo con Rukia l’altra sera. L’aveva incrociato in corridoio dopo la vostra sfida alla Play, e sembrava parecchio nervoso. Anche dopo aver parlottato con suo fratello, mi son parsi entrambi strani. Ma magari è solo una nostra impressione.».
«Se devo essere schietto, quand’è tornato dal bagno era più bianco del muro e con la faccia di uno che sta per sboccare da un momento all’altro. Ma che diavolo ha combinato in corridoio? Dubito che sia stata colpa mia e della batosta che gli ho tirato a Soul Calibur. Tra le righe non è mica una pippa coi videogiochi, eh!».
«Rukia l’ha trovato con i documenti di mio fratello sul caso a cui sta lavorando, magari è rimasto impressionato dal tipo con cui ha a che fare.».
«Ma dai? Non mi pare che sia il tipo che si fa impressionare tanto facilmente. Nemmeno quando gli ho gentilmente proposto una plastica facciale a suon di cazzotti ha fatto una piega.».
Darukia rimase in silenzio, rigirandosi tra le dita una ciocca di capelli. Non capiva nemmeno lei, in effetti, quell’improvviso isolamento da parte di Deak. Certo, si conoscevano da pochi mesi, erano partiti con il piede sbagliatissimo, ma tutto sommato non era un ragazzo da schifare a priori, tanto più che anche durante l’interrogazione era andato in soccorso di Hichigo suggerendogli alcune risposte sottovoce, per non farsi sgamare dal professore. Lei l’aveva fissato stupita, così come l’albino, che alla fine dell’ora gli aveva borbottato un impacciato “grazie per l’aiuto” prima di mettersi a sedere. Anche alla festa di Capodanno si erano comportati bene, non era accaduto nulla che facesse presagire quel rifiuto totale ad avere qualsivoglia rapporto con loro. Avrebbe potuto provare a chiamarlo, in effetti, ma avrebbe corso il rischio di vedersi liquidata dopo poche parole, costretta a sentire il telefono che suonava a vuoto. Piombargli in casa era fuori discussione, lei per prima non era il tipo da fare scenate del genere… era sicura al mille per cento che gli avrebbe dato ancora più fastidio e che la cosa l’avrebbe portato a tagliare definitivamente i ponti con loro. Da una parte si diceva di fregarsene, che un musone del genere era meglio perderlo che trovarlo, che aveva ben altro a cui pensare – tipo gli esami, ecco –, che in fondo non poteva pretendere niente da lui, visto che non avevano chissà che rapporto d’amicizia o altro. Si erano solo trovati a lavorare insieme e lei l’aveva invitato ad una festa per farlo integrare. D’altro canto, però, il sottile sospetto che la causa del suo isolamento fosse proprio qualcosa che riguardava ciò che aveva visto in casa loro si faceva strada sempre più impietoso, complice il fatto che anche Lavi stava prendendo lo stesso andazzo comportamentale del fratello, anche se non a livelli così estremi.
«Daaaaaaaaaaaaaarkie! Ohi, ma sei diventata muta a furia di pensare troppo?».
«Scusa!» farfugliò lei, sobbalzando leggermente.
«Quel rosso ti sta impensierendo troppo.» borbottò l’albino, tirando indietro la sedia della scrivania e poggiando i piedi sopra il tavolo, schivando la tastiera di poco.
«Ma non è vero! È solo che… oh, Hichi, ma sei geloso?».
Lo sentì soffocarsi con la saliva, tossendo rumorosamente per riuscire a riprendersi e tirare fiato, rischiando nel mentre di cadere dalla sedia.
«Ma non dire idiozie!» esclamò, schiarendosi la voce da quel fastidioso blocco di saliva che gli si era incastrato in gola «Cioè, Darkie, parliamoci chiaro. Se dici gelosia pseudo-fraterna ti posso anche dire di sì, accidenti, sai che ti voglio bene e per me sei come una sorellina a cui star dietro.» ignorò quel mormorato “ehi!” da parte di lei, continuando in un borbottio «Ma gelosia amorosa no, eh. Per te rompo il culo a chi ti scoccia e se hai bisogno di una spalla su cui smoccolare le tue pene di cuore non sono forse la persona più indicata, ma ci sono, lo sai meglio di me, ma dirmi innamorato mi pare un po’ troppo.».
«… quindi sei geloso?».
«Fraternamente parlando sì. Che tipo, non vorrei che tu andassi ad ossessionarti per quel guercio del cazzo e poi quello vada a deluderti e fartici star male, e che diavolo.» borbottò tra i denti, grattandosi la testa.
«Non mi ci ossessiono, Hichi, vai tranquillo… ma grazie comunque per la premura, davvero.» replicò lei, sorridendo verso il soffitto «È solo che mi pare strano, capisci? Voglio dire, trova qualcosa in casa nostra che all’improvviso lo fa sparire dalla circolazione… Uno può essere una specie di sociopatico, ma è stata una cosa troppo repentina, non ti pare?».
«Mh, in effetti… hai qualche idea?».
«Potremmo provare a parlarci se lo becchiamo in facoltà durante gli esami, che ne pensi?».
«Penso che tutto sommato non sono così ansioso di rivedere il suo muso da scazzato cronico. Però mi rode che ci abbia solo usati per quel lavoro del piffero e basta.».
«Hichi, non dire scemenze, non ti avrebbe aiutato durante l’interrogazione se ci avesse solo “usati”. Okay, già di per suo ha parecchi problemi relazionali, ma non mi sembra un tipo che usa la gente, quanto piuttosto uno che tenta di tenersene a distanza.».
«Beh, è un fetente. Ti ha fatto gli auguri, per esempio?».
«No, ma del resto non sapeva nemmeno che fosse il mio compleanno.».
Hichigo incassò il colpo, alzandosi con uno sbuffo e andando a stravaccarsi sul letto, facendo cigolare le molle della rete. Tirò un paio di pugni al cuscino per sistemarlo meglio, portandosi un braccio piegato dietro la testa mentre si distendeva.
«E se semplicemente non gli interessasse stare con noi?».
«Possiamo dire di averci provato.» lei scrollò le spalle, massaggiandosi il collo «Se poi ci dirà chiaro e tondo che gli scocciamo e non vuole stare con noi pace, non insisteremo oltre.».
«Uhm, ok. Mettendo da parte quel piffero di guercio, non è che domani pomeriggio saresti libera?».
Lei aggrottò la fronte, sporgendosi verso la cartella per afferrare la propria agendina.
«Aspetta che controllo…» si sistemò il telefono contro la spalla per poter sfogliare meglio le pagine «Oh, ecco. Non ho niente da fare, caro Hichi, sono libera come l’aria… almeno per ora.».
«Meglio così.» replicò lui, lanciando un’occhiata malevola ai libri sopra la scrivania «Per caso potresti passare per darmi una mano con psicometria? Ci sono degli esercizi dove ho perso… boh, un’ora e mezza in tentativi, forse? Sono impossibili!».
Lei ridacchiò, portandosi un piede al ginocchio opposto e tormentando distrattamente gli orsetti ricamati sui calzettoni di lana con le gommine – gentilmente definiti da Hichigo come “l’apoteosi dell’abbigliamento casalingo anti-sesso”.
«Un’ora e mezza senza smadonnare? Stai migliorando!».
«Solo perché non mi hai sentito, dannazione. A parte questo, potresti passare verso… boh, le tre e mezza?».
Lei annuì, segnandosi “Hichi – psicometria” nell’agenda, prendendo gli ultimi accordi. Era un po’ insolito che lui per primo le chiedesse così esplicitamente aiuto, solitamente era assai più restio a mettere in mostra il proprio bisogno di suggerimenti.
Anche se non voleva darlo a vedere, Hichigo temeva ancora i giudizi altrui. Il più delle volte metteva a tacere tutti con una sola occhiataccia, facendo abbassare gli sguardi di chiunque avesse la vaga idea di prenderlo per i fondelli – eppure sapeva che lei non l’avrebbe comunque giudicato, se si fosse “abbassato” a chiederle aiuto. Magari c’era chi lo riteneva quasi ridicolo a farsi dare una mano da una ragazza che in confronto a lui sembrava una pulce, ma nessuno si azzardava a dirgli “bah”. Non era nemmeno una questione di ingoiare il boccone amaro dell’orgoglio, né di sfruttare Darkie per avere la “pappa pronta” per i compiti. Sapeva già di suo di non poter contare su di lei ogni volta, anche se l’indolenza era dannatamente difficile da battere voleva dimostrarle di non essere proprio una testa di legno, di essere in grado di farcela. Specie prima di quell’interrogazione di antropologia culturale si era impegnato, per quanto glielo permettesse la febbre, dicendole che si sarebbe arrangiato per non rischiare di passarle l’influenza. Aveva già rischiato quand’era andato a lavorare dal guercio, meno male che almeno lì aveva ingoiato una pastiglia per farsi abbassare un po’ la febbre. Certo, un paio di domande l’avevano un po’ colto impreparato, ma a grandi linee se l’era cavata abbastanza bene. Lo aveva sinceramente reso contento il fatto che, una volta a posto, Darkie gli avesse sorriso e, con una pacca sulla spalla, si fosse complimentata per quel che era riuscito a fare. Se poi durante l’esame di psicometria se la fosse cavata da solo, riducendo la quantità di suggerimenti da chiederle, quel moto di fastidio all’idea di essere quello che si fa perennemente aiutare se ne sarebbe andato - e magari, così, sarebbe stata davvero orgogliosa di lui – idea che, sottilmente o meno, gli faceva assai piacere. Tanto più che a detta della ragazza non era nemmeno uno stupido, dietro le battute afferrava velocemente i concetti che Darukia gli spiegava. Il suo unico, fetente scoglio era praticamente una mastodontica, decennale pigrizia, da quel momento in cura per una pronta (o quasi) guarigione.
Forse.



** ** **

Senza saperlo, Rukia aveva avuto la medesima idea della sorella. Parlando con Kaien, aveva saputo che avrebbero avuto l’esame di storia dell’arte contemporanea lo stesso giorno in cui lei avrebbe tenuto quello di Paletnologia. Un pizzico di buona sorte aveva fatto sì che lei dovesse tenere l’esame in mattinata, i ragazzi nel pomeriggio, così non se lo sarebbe fatto scappare. Kaien, stando a quanto le aveva detto, non era riuscito a chiedergli niente di più di quanto fosse successo a Capodanno. Lavi sembrava un maestro ad eludere le domande scottanti e, per carità, non era sua intenzione farsi raccontare vita, morte e miracoli. Solo, sperava che il ragazzo se ne uscisse con qualcosa di convincente, rispetto all’evasivo “Niente, non preoccuparti, ho solo discusso con Deak.”.


Uscì dall’aula sospirando pesantemente, sistemandosi la borsa su una spalla. L’esame era stato più duro di quel che pensava, il professore era stato parecchio  severo con le domande. Fortunatamente alcuni collegamenti li aveva ricordati senza problemi, riuscendo così a completare il compito senza particolari intoppi – c’era da dire, però, che aveva dovuto usare tutto il tempo a disposizione, cosa che di rado le succedeva. Declinò gentilmente l’invito di alcune compagne che le avevano chiesto di unirsi a loro per andare a mangiare in un bar poco distante – al di là che, se proprio doveva, preferiva andare al Black Moon – e si diresse al quinto piano, dove c’era la biblioteca. In quel periodo era quasi deserta, molti preferivano stare a casa a studiare, piuttosto che fare a guerra per un posto. Si diresse verso le vetrate, sedendosi sull’ultima sedia del lungo bancone, e attaccò la spina del pc portatile alla presa della corrente. Pure i suoi nervi necessitavano di un po’ di svago, dopo quelle pesantissime tre ore di esame. Navigò un po’ in Internet, dedicandosi poi a qualche partita a Mahjong mentre consumava il bento che si era portata da casa. Il tempo passò lento, stando alla tabella di marcia passatale da Kaien il loro esame sarebbe cominciato di lì a mezz’ora. Aveva quindi un’ora abbondante prima di andare ad appostarsi davanti all’aula C del secondo piano. In quel lasso di tempo, mentre accoppiava distrattamente le tessere colorate, pensava a qualcosa, qualsiasi cosa da poter dire a Lavi senza risultare invadente. Lei per prima non tollerava chi si faceva gli affari degli altri, ma le dispiaceva vederlo allontanarsi così, all’improvviso e senza una valida spiegazione. Se era un torto che gli aveva fatto si sarebbe scusata, ovviamente, ma prima voleva capire qual era stata la causa scatenante di quella repentina volubilità da parte sua. In fondo non credeva che la sua affabilità fosse stata una facciata per ingraziarseli, non avrebbe avuto nemmeno un tornaconto. Più ci pensava e meno ne veniva a capo, per cui preferì concentrarsi sul proprio pasto e sulle combinazioni per terminare la partita.
L’improvviso vibrare del cellulare, nella tasca, la fece sobbalzare. Era il segnale concordato con Kaien, per avvisarla del momento in cui Lavi si sarebbe alzato dal posto per consegnare il compito e uscire. Richiuse il portatile rimettendolo nella borsa e, raccogliendo le proprie cose, uscì velocemente dalla grande sala, strisciando il badge elettronico per aprire il cancelletto. Scese le scale di corsa, sperando che il ragazzo fosse tipo da preparare la borsa con comodo prima di andarsene, magari lanciando un’occhiata a chi invece doveva ancora finire di scrivere. Sperò anche che si fermasse ad aspettare Kaien, magari sarebbero scesi a prendere qualcosa al distributore, e…
«Lavi!».
Lo vide sbucare dalla porta antincendio che conduceva all’atrio del piano, pensieroso, tanto che trasalì quando si sentì chiamare. Non si aspettava di certo di vedergli spuntare un gran sorriso sulle labbra, però.
«Ah, Rukia! Com’è andato l’esame?» chiese, osservandola incuriosito mentre lo raggiungeva e riprendeva fiato.
Lei lo scrutò seria, piantando lo sguardo in quell’unico occhio smeraldino che le era concesso di vedere attirandosi, se possibile, ancora più perplessità da parte del ragazzo, incerto su cosa dire.
«Ehm… è andato male?».
Rukia scosse la testa un paio di volte, stropicciando tra le mani la sciarpa beige di lana. Possibile che fosse così tranquillo? Che tutto quel nervoso fosse dovuto veramente ad una discussione con Deak? Temendo che, se avesse scoperto subito le proprie carte non avrebbe cavato un ragno dal buco, decise di girarci un po’ attorno, giusto per sondare il terreno.
«Non era facilissimo, ma per fortuna erano cose che avevo ripassato abbastanza.» disse, massaggiandosi il collo «Tu, invece? Andata bene?».
Il ragazzo spalancò le braccia, lasciando andare un sospiro e annuendo appena.
«Già. Però da noi c’era qualche disperato che ha rischiato di farsi sgamare con i bigliettini. Pensa che uno si era perfino scritto appunti sulla caviglia, io non ci avrei mai pensato!».
Rukia continuava a guardarlo, ascoltando giusto il necessario per non perdere totalmente il discorso. Non pretendeva di conoscerlo come le proprie tasche, ma c’era qualcosa che le faceva capire che tutta quella spensieratezza era una colossale balla. Forse era troppo abituata all’occhio critico di Darukia, alla sua strana inclinazione a voler scavare nella psiche di chi aveva davanti, quasi come se non si fidasse della superficie, optando per ciò che stava sotto la facciata. Con Lavi era la stessa cosa, più che altro perché trovava paradossale pensare che si fosse dimenticato all’improvviso di ciò che era successo a Capodanno.
«La sbronza a Black Jack e a poker, alla festa, non ti ha annebbiato completamente i circuiti mentali, per fortuna.» commentò con un sorriso accondiscendente, incrociando le braccia al petto.
Gli era stato dettagliatamente raccontato come i ragazzi, ad eccezione di Ichigo e Deak, fossero cascati sui materassi come pere cotte, sfatti dal sonno, il liquore e l’euforia. Grimmjow aveva pure teso le labbra verso Tatsuki in cerca del “bacio della buonanotte, buona mattina, buon inizio anno” e di qualcos’altro che il ragazzo non era riuscito a dire, addormentatosi in pochi istanti.
Rukia e la sorella avevano scavalcato Hichigo che russava rumorosamente, Kaien che mormorava qualcosa a Kukaku circa il fatto che beveva troppo, Renji che sbavava sul cuscino dormendo con la bocca spalancata e altre povere anime profondamente in coma per raggiungere il corridoio per le camere quando, voltandosi un’ultima volta, avevano scorto Deak guardare il fratello pensieroso, quasi preoccupato. Di quello, però, nessuno gli aveva fatto parola.
«Ah, non me lo ricordare, ho avuto un mal di testa pazzesco tutto il giorno successivo.» fece un gesto con la mano, come a scacciare il pensiero «Almeno non ho preso a gironzolare per la casa, quando dormo fuori divento sonnambulo.».
«Mi avresti fatto prendere un colpo se ti avessi trovato a zonzo per la casa addormentato.» annuì lei, prendendo tempo «Tuo fratello, invece? Tutto bene?».
Lavi scrollò le spalle, assentendo con un altro sorriso. Invitò la ragazza a scendere al pian terreno, visto che voleva prendersi una lattina di limonata. Scesero le scale in silenzio, aspettando pazientemente che l’addetto finisse di ricaricare il distributore prima di servirsi. Rukia declinò l’offerta di qualcosa da bere, poggiandosi al corrimano in ferro mentre il ragazzo si chinava per prendere la lattina dal vano in cui era caduta. Non aveva dato cenni di nervosismo quando l’aveva vista, anzi, le era parso spensierato come al solito… il dubbio di essersi sbagliata continuava a balenarle per la mente. E se avesse fatto veramente cilecca? Se le sue fossero state veramente semplici fantasie condizionate da Darkie e Deak? Lavi continuava a bere tranquillo, deglutendo lunghi sorsi della bibita fredda, per poi leccarsi le labbra e buttare la lattina nel cestino poco distante. Si sentiva addosso quello sguardo attento, quasi insistente, ma si risolse pensando che, probabilmente, stava riflettendo su tutt’altro e s’era incantata a guardare nella sua direzione.
«Avete fatto pace, tu e Deak?» chiese improvvisamente Rukia, poggiando il pugno chiuso contro la guancia.
«Avevamo litigato?».
Le parole gli uscirono di bocca prima che potesse rendersene conto. Che idiota! Aveva giustificato il nervoso di quei giorni dando la colpa ad un litigio col fratello, perché era stato così stupido da parlare prima di pensarci?
«Avevate litigato, no? Eravate entrambi parecchio nervosi, in questi giorni.».
«Oh… sì, sì, tutto a posto. È che io e Deak discutiamo spesso e stavolta abbiamo alzato un po’ i toni, ma non era proprio un litigio serio, tutto qui.».
“Fa’ che ci creda, fa’ che ci creda, fa’ che ci…”

«Riguardo ai documenti di mio fratello che Deak ha trovato?».
Lavi rimase spiazzato per un istante. L’aveva sottovalutata, non pensava che se ne fosse davvero accorta. Che razza di figura ci stava facendo? Sentiva la tensione tendergli ogni singolo muscolo e il sudore freddo colargli lungo il collo. Era stato stupido da parte sua, prenderla così sottogamba era stato un errore. Rukia non era sciocca, e probabilmente anche Darukia se n’era accorta. Nascose velocemente le mani nelle tasche del giubbotto, stropicciando tra i pugni la fodera interna con fare nervoso. Forse era ancora in grado di salvarsi la faccia da quella scomoda situazione, però.
«No, Rukia, credimi. Era rimasto impressionato a vedere che tuo fratello deve andare a dar battaglia in tribunale ad un tizio del genere, ma davvero, non c’entra nulla!» disse, ostentando il sorriso più convincente che gli riuscì «Abbiamo discusso sul regalo per il nonno, aveva sforato con il budget che gli avevo dato da parte mia e mi aveva fatto un po’ incavolare. Una stupidaggine, come puoi vedere. Magari è successo anche a te una cosa simile, con tua sorella.».
Rukia scrollò le spalle tutt’altro che convinta, soppesando le parole per non irritarlo – fino a quel momento non l’aveva mai visto rispondere male a qualcuno, ma…
«Lavi, davvero… non è mia intenzione ficcanasare negli affari tuoi e di tuo fratello. Ma se abbiamo fatto qualcosa di male vorrei saperlo, fosse anche solo per chiedervi scusa.» mormorò, cauta «È dalla sera di Capodanno che siete strani, tutti e due, e di certo non per una questione di soldi che uno deve all’altro. Se fosse quella la vera ragione, non avreste tentato di evitarci così palesemente. Te l’ho detto, non pretendo di sapere cosa vi è successo… solo, vorrei sapere se è colpa nostra.».
Stavolta il ragazzo non rispose. Sviò lo sguardo senza far nulla per nascondere il proprio nervosismo – ma non ce l’aveva con Rukia, in fondo lei non aveva colpe, nemmeno quella, in fondo, di avergli riaperto inconsapevolmente piaghe che da anni tentava di cicatrizzare. Strinse di più i pugni nelle tasche, deglutendo prima di riprendere parola, senza guardarla.
«Te lo ripeto, Rukia, né tu né tua sorella c’entrate.» replicò con un tono più secco di quel in realtà intendeva usare «Non so che idee vi siate fatte, ma davvero, voi due non c’entrate nulla, non dovete farvi perdonare né da me né da Deak. Ora scusa, ma devo andare a prendere dei testi per il vecchio.».
Le rivolse una rapida occhiata e un cenno della mano in segno di saluto, prima di voltarle le spalle e dirigersi a passo spedito verso l’uscita della facoltà, ignorando la ragazza che tentava di richiamarlo indietro, invano.

Una volta nell’autobus, con la fronte premuta contro il finestrino freddo del mezzo, Lavi si diede dell’idiota. Si era lasciato cogliere impreparato dalle parole di Rukia, non si aspettava di essere così poco credibile e, se l’idea era quella di scrollarsi di dosso ogni dubbio da parte di lei, l’unico risultato ottenuto era stato quello di farla insospettire ancora di più, probabilmente. Premette il pugno chiuso contro la benda, digrignando i denti – stupido, stupido, aveva commesso un madornale errore. Fino a quel momento era riuscito a tirare avanti senza farsi problemi di sorta nei confronti degli altri, tenendo le distanze quel che bastava per far sì che nessuno s’interessasse dei fatti suoi. Deak, d’accordo, era un caso a parte: lui le distanze le teneva a prescindere, disilluso e menefreghista com’era. Infatti gli era parso strano che avesse accettato non solo di lavorare con Darukia e Hichigo, ma anche di partecipare alla festa di Capodanno a casa della ragazza, sebbene con parecchia riluttanza. Per lui studiare a casa di qualche compagno di corso era una cosa fuori da ogni schema, abituato com’era alla sua scrivania in legno chiaro, con quel cuscino che non contribuiva a rendere più comoda la permanenza su quella sedia con le ruote che cigolavano in maniera assai preoccupante, o con quel bracciolo sinistro che sembrava sul punto di staccarsi ogni volta che vi si appoggiava. La sua “zona studio” era l’unica parte di mobilio che aveva chiesto al vecchio di poter portare con sé durante il trasloco, quella scrivania all’apparenza così semplice che, per qualche istante, il vecchio Bookman si era chiesto il perché di tanto attaccamento. Ma sapeva anche che Lavi non faceva né chiedeva mai nulla senza un motivo specifico, per cui si era limitato ad acconsentire senza domandargli nulla. Non sapeva, lui, quanti colpi avesse sopportato quel tavolo, quante lacrime avessero bagnato la sua superficie, quanta bava ci avesse versato nelle pennichelle quando studiava troppo, né quanti scarabocchi infantili, rappresentanti i due gemelli sereni, una famiglia, qualsiasi cosa passasse nella testa di Lavi nei momenti in cui pensava, l’avessero decorato.
Lavi sapeva a memoria tutte le macchie e le venature del legno, sorrideva quasi con nostalgia passando le dita sulle rigature prodotte da un taglierino mentre faceva alcuni lavoretti, allora inconsapevole che avrebbe dovuto mettere un ripiano di protezione sotto. Quanto s’era dispiaciuto di averlo rovinato! Eppure, a distanza di anni, gli veniva spontaneo sorridere, ripensandoci. Quando si era trovato con Kaien e Rukia, a casa del primo, gli era parso così strano lavorare su un tavolo scuro, seduto su una sedia con un cuscino veramente morbido e con la luce del grande lampadario che illuminava tutto il piano di lavoro. E le battutine, la bassa musica di sottofondo che Kaien canticchiava tra le labbra di quando in quando, il tintinnare dei bicchieri quando qualcuno si prendeva da bere, le domande che si rivolgevano l’un l’altro alla fine dei ripassi, tutto per lui era strano e nuovo. Ma non era riuscito neanche allora a distogliere la mente dalle parole che gli aveva rivolto suo fratello all’inizio di quell’anno che si prospettava tutt’altro che buono.
Scese svogliatamente dall’autobus per dirigersi verso casa, insaccandosi nelle spalle. Già, alla fine Rukia e la sorella non c’entravano nulla con quell’individuo. Non avevano motivo di temerle, di tenerle così a distanza. Eppure Deak gliel’aveva fatto sottilmente notare – quella era gente con cui non si poteva scherzare, e già le gemelle non sapevano contro chi loro fratello si era messo. Forse avrebbe dovuto avvertirle, si disse. Ma avvisi del genere avrebbero comportato anche domande scottanti che lui preferiva evitare. Se lui e Deak volevano continuare a vivere più o meno in pace, dovevano attenersi ai classici metodi. Conservare, tra quei legami, un blando filo a tenerli uniti.

 

** ** **



Sapeva che l’orario di lavoro era finito da un pezzo. Oh, lo sapeva eccome, il giovane Byakuya, eppure pareva tutt’altro che intenzionato a chiudere i fascicoli per porre fine a quella giornata. Il silenzio nel suo ufficio era rotto solo dal ritmico rumore del pendolo che scandiva il tempo che, talvolta, gli pareva passasse troppo lentamente. Si massaggiò leggermente gli occhi e le tempie, cercando di rilassarsi almeno per qualche secondo. Stava tardando anche troppo, forse. Le impiegate dell’ufficio contabilità erano andate via da un pezzo, com’era nel loro orario usuale, soltanto Hisana era ancora fuori alla sua scrivania, in attesa che uscisse anche lui. Non era certo la prima giornata del nuovo anno in cui lavoravano così a lungo. Quel caso lo stava tenendo più occupato di quel che credeva, c’erano dozzine di fascicoli da esaminare, prove da valutare, rapporti della polizia da leggere. Nel pomeriggio era passata anche Yoruichi, sua vecchia amica e agente incaricata di fornirgli tutto il materiale necessario per quell’udienza. Aveva messo non in poca difficoltà la povera Hisana, che non sapeva nulla di quella sua bizzarra abitudine di andare e venire quando le capitava, anche senza appuntamento. Aveva tentato di fermarla, dicendole che Byakuya era molto occupato e che non poteva riceverla, dal momento che era anche senza appuntamento – ma lei aveva sorriso, assicurandole che a sentire il suo nome “Byakuya-bo” avrebbe di sicuro accettato di farla passare, cosa che era effettivamente avvenuta dopo poche parole scambiate sulla linea interna. Reprimendo un certo fastidio, si ritrovò a pensare che Yoruichi non si sarebbe mai cavata l’abitudine di chiamarlo “piccolo Byakuya” anche mentre lavorava, per di più davanti alla sua segretaria. Accidenti a lui e a quando le aveva dato occasione, da piccolo, di affibbiargli un soprannome tanto stupido.
Lanciò una rapida occhiata ai fascicoli che la poliziotta aveva lasciato sulla sua scrivania, denominati con la sua grafia un po’ tondeggiante, per poi sospirare e comporre il numero che lo collegava a Hisana. Il telefono suonò a vuoto, lo sentiva a stento al di là della porta chiusa, ma la sua segretaria non rispondeva. Soppesò che forse era in bagno, al che preferì uscire direttamente, spegnendo la lampada che illuminava la scrivania e riponendo tutti i rapporti in un cassetto che richiuse a chiave. Quando si ritrovò nella saletta si voltò subito verso il tavolo di Hisana, trovandolo vuoto. Il monitor del pc mostrava alcune schede che stava ultimando, ma di lei nessuna traccia. Era chino a scrutare quanto scritto, quando sentì dei passi incerti avvicinarsi, bloccarsi, e venir sostituiti dalla voce della giovane.
«D-dottore! M-mi dispiace, ero andata un istante in bagno… aveva bisogno di qualcosa?».
Byakuya rialzò lo sguardo su di lei, bloccandosi per un attimo: la ragazza si teneva una mano al ventre e il suo incarnato era tanto pallido che sul momento lo stupì. Osservandola meglio, notò che gli occhi erano vagamente acquosi e che respirava affannosamente.
«… Hisana, sta male?».
Lì per lì si diede dell’idiota, che domanda era?! Si vedeva lontano un miglio che non era il ritratto della salute, se ne rendeva conto da solo, ma…
«Oh, no, è solo un po’ di… indisposizione.» replicò lei arrossendo, superandolo per poter tornare al proprio posto.
«Spenga tutto, Hisana.» disse lapidario, scrutandola.
La sua poteva anche essere indisposizione per via del ciclo, con due sorelle più piccole non era certo nuovo a cose del genere, ma a suo parere era molto di più. In quei giorni avevano lavorato a lungo e a ritmi serrati per poter raccogliere il maggior quantitativo di prove utili per il processo, e Hisana non aveva avuto un attimo di pausa. Aveva accettato e si era detta pronta ad un lavoro del genere, certamente, ma era umana pure lei, non era di sicuro immune a stress e stanchezza, men che meno all’influenza che aleggiava nell’aria da qualche giorno. Zittì con uno sguardo la debole protesta della ragazza, che voleva finire almeno quel foglio di lavoro, assicurandosi che effettivamente spegnesse il pc e si alzasse da quella sedia.
La osservò mentre, con un brivido, si metteva addosso il cappotto e si avvolgeva la sciarpa intorno al collo, acciambellandola per bene per non lasciare spiragli scoperti, e ricambiava il suo sguardo come a dirgli che era pronta. Traditori furono i gradini che per poco non la fecero ruzzolare fino al pianterreno, se lui non fosse stato abbastanza pronto di riflessi da fermarla per un braccio. Sollevandole i ciuffi di capelli posò una mano sulla sua fronte, rendendosi conto che scottava come il fuoco. Da quanto stava così male? Possibile che non se ne fosse minimamente accorto nessuno, nemmeno le altre impiegate? La sorresse fino all’uscita, facendola appoggiare ad una delle colonne dell’ingresso mentre chiudeva a chiave gli uffici.
«Da quanto ha la febbre?».
Hisana rimase in silenzio per diversi istanti. Si era testardamente imposta di non cedere, di non assecondare la fatica e la stanchezza, ma alla fine la sua resistenza aveva avuto la peggio. Ma lei aveva accettato quel lavoro pur sapendo che sarebbe stato stressante, non voleva dargli motivo di credere di essere una incapace di sopportare un po’ di stress fisico e mentale, ne andava un po’ anche del suo orgoglio. Non ebbe nemmeno il coraggio di guardarlo in viso, mentre quel vago senso di nausea le attanagliava la gola e lo stomaco.
«È solo stanchezza, dottore… davvero, non è niente di grave.».
Peccato che lui non fosse dello stesso avviso. La scrutò ancor più gravemente di prima per diversi istanti, prima di tirar fuori dalla tasca le chiavi della macchina parcheggiata poco distante e aprirla, per poi avvicinarsi per riprenderla sottobraccio.
«L’accompagno a casa, venga.».
Hisana lo guardò sconcertata e agitata, assumendo un vago colorito roseo e agitando nervosamente una mano.
«Oh, no, no, dottore! Non serve, posso… posso andare in autobus.».
«Non se ne parla nemmeno. In queste condizioni non lascerei uscire nemmeno le mie sorelle.» borbottò, cercando di ingoiare quel vago senso di colpa per non essersi accorto prima delle condizioni della giovane «Non ho intenzioni losche, ma questo lo sa anche lei. Mi permetta di riaccompagnarla a casa, per favore.».
Lei si lasciò docilmente accompagnare alla macchina, prendendo posto sul sedile in pelle senza riuscire a celare un certo nervosismo: se la nausea si fosse fatta più impellente durante il viaggio, avrebbe seriamente rischiato di rovinare quei sedili… e lei non aveva di certo i soldi per ripagargli i danni! Decise quindi di portare la testa indietro, contro il poggiatesta, e di chiudere gli occhi. Doveva assolutamente evitare di pensare alla possibilità di dar di stomaco proprio in macchina, con tutta probabilità non avrebbe avuto nemmeno più il coraggio di farsi vedere in faccia da lui. Nel mentre, Byakuya aveva preso posto a propria volta, alzando di qualche grado il riscaldamento della macchina. Lanciò uno sguardo dubbioso a Hisana, trovandola con gli occhi chiusi, e mise rapidamente in moto per portarla a casa. Badò bene di tenere una guida abbastanza fluida, onde evitare improvvisi sbalzi che peggiorassero la situazione. Sospirò snervato ad un incolonnamento al semaforo, intoppo che per fortuna non gli portò via troppo tempo. Una volta arrivato sotto casa sua parcheggiò poco distante, scendendo per primo e facendo il giro per andare ad aiutarla.
«Hisana…» aprì la porta e le toccò leggermente la spalla, per farle capire che erano arrivati.
Lei riaprì gli occhi, stordita, volgendo leggermente lo sguardo verso di lui. Si scusò per essersi assopita per quei pochi minuti, cercando di scendere senza inciampare sui propri passi, e accennò un inchino verso Byakuya.
«La ringrazio davvero, dottore. Mi dispiace averla disturbata.» mormorò a testa china, convinta che si sarebbe voltato e se ne sarebbe tornato in macchina dopo un rapido saluto. Quanto si sbagliava!
«Nessun disturbo, Hisana. Ora però saliamo, non è bene star fuori al freddo.» rispose lui, porgendole la mano.
Se possibile, Hisana sentì le mani sudare ancora di più. Voleva evitare di disturbare Byakuya a tal punto, avrebbe preferito di gran lunga arrangiarsi. Scioccamente si vergognava perfino all’idea di rigettare chiusa in bagno, se lui era in casa! Eppure sapeva da sé che sarebbe stato un miracolo arrivare fino al terzo piano senza trascinarsi su per le scale. Accettò quindi, ingoiando l’imbarazzo, l’aiuto che Byakuya le offriva, lasciando che lui l’accompagnasse fino a casa. Non sapeva dirsi se lo facesse per pietà o altro, lui che le era parso sempre così austero e distaccato non sembrava veramente il tipo che si scomodava addirittura ad accompagnare a casa la segretaria malaticcia. O forse era semplicemente lei che l’aveva giudicato fin troppo menefreghista. Tirò un leggero sospiro di sollievo a vedere il pianerottolo di casa e, dopo pochi istanti, il corridoio che portava all’interno dell’abitazione. Byakuya si tolse velocemente le scarpe e l’aiutò a fare altrettanto, accompagnandola poi in camera. Prese il soprabito che ancora non aveva tolto e glielo posò sopra una sedia poco distante, lasciandola poi sola per darle il tempo di cambiarsi, non prima di essersi fatto dire dove tenesse il termometro.
Hisana scostò svogliatamente le coperte, sedendosi sul morbido materasso che si piegò appena sotto il suo peso. La testa le martellava da morire, dandole la spiacevole sensazione che, a furia di colpi, le esplodesse. Si sporse per prendere da un cassetto un paio di calzettoni pesanti, che indossò a scaldare i piedi gelidi, e tentò di sistemarsi sotto le coperte. Byakuya tornò dopo poco con una tazza fumante in una mano e nell’altra un termometro, che le porse per misurarsi la febbre mentre, di suo, sistemava meglio le coperte per assicurarsi che non restasse fuori nemmeno un piede.
Di per contro nemmeno Byakuya sapeva spiegarsi perché, esattamente, stesse facendo tutto quello. Quante volte si era ritrovato a fare più o meno le stesse cose con Rukia e Darukia, quand’erano più piccole? Talvolta si era ritrovato anche a dormire seduto a terra perché la malata di turno non voleva che andasse via. Ma Hisana non era sua sorella, era solo una segretaria. Eppure aveva un’apparenza così fragile che l’aveva spinto a prendersene cura, e forse quel che sentiva allo stomaco era il leggero e fastidioso senso di colpa per averla sfruttata così senza rendersi conto di quanto la cosa l’avesse portata a star male. Insomma, solo perché aveva accettato di fare ore extra non significava che fosse immunizzata da tutto, e i risultati s’erano visti. C’era da dire, a suo favore, che aveva resistito ad un mese serrato che aveva messo a dura prova anche lui.
Mentre Hisana si misurava la febbre, ne approfittò per guardarsi un po’ attorno: la camera era molto asettica, tinta di un beige molto chiaro e con un arredamento che verteva prettamente sul bianco crema. Non teneva molti ninnoli, giusto qualche quadretto e un carillon del vento attaccato vicino alla finestra, sotto la quale c’era una scrivania con una mensola su cui erano messi in fila alcuni libri e un vasetto decorato a fare da fermo. Poco distante c’era un'altra mensola con alcune fotografie, dei fiori e degli incensi – e no, contrariamente a quel che gli era parso sul momento, non erano ritratti di spensierate passeggiate in montagna o pigre giornate al mare. Ogni portafoto conteneva un singolo ritratto, erano quattro in tutto. Hisana sembrò indovinare dov’era diretto il suo sguardo, e si portò le coperte appena sotto il mento, per lasciare la bocca libera.
«I miei genitori e i miei nonni.» disse semplicemente, stringendo per un attimo il termometro che teneva sotto il braccio.
«… mi dispiace.» replicò aggrottando leggermente le sopracciglia, grato al provvidenziale “bip-bip” del termometro che interruppe quel silenzio imbarazzato che era calato tra loro. Lo prese dalla mano di Hisana e lo guardò attentamente, lasciandosi scappare un sospiro «38,6°. Non so se complimentarmi o meno per aver resistito fino a questo punto.».
Lei arrossì, nascondendo metà del viso sotto le coperte.
«Mi scusi…».
«Non ne vedo il motivo, davvero.» ribatté, poggiando il termometro sul comodino, poco distante dalla tazza «Mi sono permesso di preparare del tè caldo. L’aiuterà a rimettere un po’ a posto lo stomaco.».
Hisana annuì nuovamente, dopo aver lanciato un rapido sguardo alla scodella che ancora fumava. Non sapeva davvero cosa dire o fare, a parte tenere lo sguardo basso per l’imbarazzo. Byakuya non l’aiutava di certo, silenzioso com’era non le dava il minimo spunto per un’eventuale conversazione. Lo vide quasi per caso mandare un messaggio al cellulare, dopo aver controllato l’ora. Probabilmente la fidanzata lo stava aspettando…
«Non so davvero come ringraziarla, dottore… e scusarmi per il disturbo che le ho arrecato.» mormorò, stropicciando un po’ le coperte.
«Hisana, ribadisco, non mi avete causato nessun fastidio. Ho avvisato le mie sorelle che tarderò, quindi nemmeno loro avranno da preoccuparsi per aspettarmi. Piuttosto, c’è qualcuno che può aiutarla? Non so, un… parente, un vicino…?».
Lei scosse lentamente la testa, sfregando la nuca contro la morbida federa del cuscino. Non aveva nessuno, proprio come tempo prima gli aveva detto che, in fondo, non doveva rendere conto a chicchessia di ciò che faceva, o se tardava a tornare a casa. E per un attimo, Byakuya desiderò non averglielo mai chiesto.
«Ma domani starò bene, davvero, non c’è bisogno di…».
«Non se ne parla assolutamente.» la zittì lui, severo «Al di là del rischiare di attaccare l’influenza a qualcun altro, è meglio se in questi giorni pensa solo a riposare. La sua dedizione al lavoro è degna di lode, davvero, ma non per questo deve permettersi di trascurarsi.».
Hisana sprofondò ancora di più nelle coperte. Lei voleva solo fare del proprio meglio per tenersi stretto quel lavoro, anche se Byakuya l’aveva ormai assunta a tempo indeterminato non voleva dargli motivo di scontento del proprio lavoro. Pigolò qualche scusa a tal proposito, ottenendo solo una ferma negazione da parte sua. Tagliando nettamente il discorso, l’uomo si fece dire dove tenesse le medicine, così da poterle portare almeno un’aspirina. Nel corridoio incrociò lo sguardo dorato di Shiro, che lo fissava quasi rabbioso per quell’intrusione. Ma non si sarebbe lasciato fregare una seconda volta, lui, non era tipo da cadere due volte nello stesso errore.
«Bada bene, palla di pelo, c’è la tua padroncina che sta male, evita di farla preoccupare ancora di più.» borbottò tra i denti, sorpassandolo per andare a prendere il blister di medicinali nell’armadietto del bagno e un bicchiere d’acqua.
Quando rientrò in camera trovò il gatto acciambellato sulle coperte, vicino ai piedi di Hisana, e la ragazza con gli occhi chiusi. Prese la sedia dalla scrivania e, tolto il cuscino, vi depositò con cautela il bicchiere con le medicine, mettendo il tutto a portata di mano. Le iridi ambrate del micio lo fissavano ancora, al che gli rivolse una smorfia e uscì, lasciandole un semplice biglietto vicino alla tazza del tè, coperta da un piattino per poterne conservare il calore.

Spero si rimetta presto. Se mai dovesse aver bisogno di qualsiasi cosa, non esiti a chiamarmi. Il numero lo trova sul retro. Passerò domani in serata per vedere come sta.
Con i migliori auguri,

Byakuya Kuchiki


Una volta in strada, Byakuya si fermò per qualche istante ad osservare l’edificio. Non pensava che, quando diceva di non dover render conto a nessuno, intendesse dire che tutta la sua famiglia era morta. Doveva ammetterlo, c’era un po’ rimasto male per lei, così giovane e già senza più nessuno al mondo. Lui, anche se viveva distante, aveva ancora suo padre e il nonno, nonché le gemelle che lo aspettavano a casa, ogni sera. Chissà com’era, per lei, tornare a casa e farsi accogliere sempre dal buio e dal silenzio. Oppure da quel dispettoso ammasso di pelo dagli occhi dorati. Scosse leggermente la testa, prima di rimettersi in macchina e partire verso casa. La giornata e quell’imprevisto stavano cominciando a pesare persino a lui. Aveva sempre dato per scontato il calore delle persone che lo accoglievano con un sorriso, fino a quel momento ignaro di quanto fosse, in realtà, prezioso ed insostituibile.

 

** ** **

 

Rukia, davvero, scusami. Non era mia intenzione trattarti così oggi pomeriggio, ma… mi sono un po’ innervosito, e lo stress di questi giorni non ha contribuito. Mi dispiace, non dovevo sfogarmi così su di te, tanto più che ti eri preoccupata anche di scusarti per qualcosa di cui non hai assolutamente colpa. Come messaggio ti sembrerà un po’ sciocco e vuoto… ma chiamiamolo premessa: mi scuserò come si deve di persona, ammesso che tu voglia parlarmi ancora.
Ti chiedo scusa, di nuovo.
Lavi
.”


Rukia lesse un paio di volte quel messaggio, seduta a gambe incrociate sul letto. Sul momento aveva gettato il cellulare un po’ amareggiata, ma stando alle sue parole sembrava veramente dispiaciuto. Lei per prima c’era rimasta male, quel pomeriggio, quando s’era vista piantare in asso con una scusa palesemente falsa. Cominciava a covare il dubbio che i problemi di Lavi fossero, probabilmente, più grandi di quel che temeva. In cuor suo sperava davvero che il ragazzo non si offendesse per i suoi tentativi di aiutarlo. Perché dietro a quelle negazioni, quel nervoso, quegli sguardi frustrati e stizziti, sembrava scorgere solo una muta e disperata richiesta d’aiuto.

   
 
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