Io non mi ricordo la
prima volta che ho visto lei. È passato troppo tempo.
Eppure vorrei tanto ricordarlo quel momento. Non mi resta che
inventarmi la scena, fidandomi puramente della mia fantasia.
Una piccola bambina paffuta entrò nella sua nuova classe
all’asilo, impaurita e timida. Non sapeva con chi parlare, si
guardava intorno e tutto ciò che vedeva erano bambini che
scorrazzavano di qua e di là, senza alcun pensiero in testa.
Non come lei. Quella bambina ero io.
Non sapevo come poter attirare qualche bambino, non sapevo come
attaccare bottone, così mi sedetti su una seggiolina,
accanto ad un’altra bambina. Anche lei sola, timida, con le
guance rosse, la frangetta sbarazzina e lo sguardo intimorito. Esitai
un po’ prima di provare a dirle qualcosa.
“Perché non giochi con gli altri
bambini?” le chiesi, cercando di recuperare un po’
di coraggio. La mia voce non era decisa, un po’ tremava.
“Sono timida” mi rispose voltandosi verso di me,
accennando un sorriso che mi contagiò subito. Mi
è bastato solo quel suo primo sguardo per nutrire simpatia
verso di lei.
“Sai, anch’io sono timida” le dissi
cercando di rassicurarla. Già dalle nostre prime parole,
notammo che avevamo qualcosa in comune.
Lei annuì riportando lo sguardo per terra, stringendo
leggermente di più i piccoli pugni posati sulle sue
ginocchia chiare, dolcemente rivestite da un paio di calze color carne.
Quelle calze le stavano così bene insieme al vestitino rosso
e alle scarpe dello stesso colore acceso.
“Giochiamo?” mi chiese lei dopo qualche secondo di
silenzio. Quella volta ebbe lei il coraggio di parlare e io ne ero
felice. Probabilmente le avevo dato un po’ di coraggio, un
po’ di energia, un po’ di sicurezza.
L’avevo aiutata ad aprirsi, eppure anch’io ero
timida come lei, ma il mio sorriso le fu di grande aiuto. Come il suo
per me.
“Certo” le risposi sorridendo, poi ci alzammo da
quelle sedie colorate e ci dirigemmo correndo verso la grande scatola
dei giocattoli. Ad entrambe ci piacevano i peluches, in particolare
quelli a forma di cagnolino. Soprattutto a me.
Non penso che il nostro primo incontro sia stato proprio
così, ma mi immagino tutto come se fosse successo davvero.
Ricordo molte cose di me e di lei, tranne la prima volta che
l’ho vista.
Ciò è un peccato, vorrei tanto saperlo come sono
andate realmente le cose.
Forse lei lo sa. Forse lei ricorda.
Il primo giorno delle elementari fu traumatico per me. Avevo
così tanta paura che avrei sicuramente pianto.
Avrei pianto se lei non fosse stata più con me.
Ma con mia sorpresa, la vidi entrare in classe e sedersi vicino al mio
banco. Ero felice di vederla ancora accanto a me, ancora lì
per me. Ormai non potevo fare a meno di lei, dopo tre anni di asilo
trascorsi insieme.
Sono stati cinque bei anni, quelli delle elementari. Belli, ma non
perfetti.
Delle volte mi chiedevo perché lei era mia amica. Mi
chiedevo cosa ci trovasse di bello e interessante in me.
A causa del mio carattere chiuso e
particolare, i miei compagni mi prendevano sempre in giro.
Tutti tranne lei.
Lei stava bene con il resto della classe, lei era ben accetta da tutti,
lei pareva più simpatica di me agli occhi degli altri. Ma io
no.
Io stavo simpatica davvero solo ed esclusivamente a lei. Litigavamo
poco, davvero poco.
Nonostante io avessi una “fama” diversa dalla sua e
nonostante io mi facessi tutte le mie solite domande, io ero felice di
essere sua amica. Ero felice di piacerle.
Il mio tipo ideale di
amicizia è sempre stato quello eccezionale; ho sempre avuto
bisogno di concentrare le mie attenzioni e i miei pensieri solo su una
persona. Non ho mai preteso la compagnia e l’affetto di molte
persone, a me ne basta una sola ed è sempre stato
così.
Tutti però mi hanno sempre detto che sbagliavo. Con lei
sbagliavo.
Ero gelosa, gelosa marcia ogni volta che qualche bambina andava molto
d’accordo con lei. Non sopportavo vedere qualcuno essere
più bravo di me nel farla sorridere, nel renderla felice. Mi
faceva male.
Per un periodo lei non mi ha calcolata perché stava sempre
in compagnia della nuova arrivata.
Vederle insieme ridere e scherzare, per me significava morire. Morire
dentro. Alle elementari ero molto possessiva nei suoi confronti, la
volevo sempre e
solo per me.
Non vederla in mia compagnia mi distruggeva e non ho mai capito bene
perché mi sentissi così esageratamente a disagio.
La mia possessività non conosceva limiti e forse
è anche per questo che io e lei ci eravamo allontanate.
Forse lei non mi sopportava più. E io piangevo.
“La rivoglio con me!” mi dicevo sempre in mente.
“Lei è mia!” aggiungevo, ma non ero
ancora in grado di capire che lei, se fossi andata avanti in quel modo
ancora per molto, sarebbe potuta sparire per sempre dalla mia vita.
Per fortuna, quando quella nuova bambina andò via per
un’altra scuola, tutto si risolse ed ero felice. Lei era
ancora con me.
Lei mi trasmise una sua
grande passione: quella per i cavalli.
Io e lei non parlavamo mai d’altro e ci piaceva. Per noi i
cavalli erano fonte di ispirazione per tutto.
Mi divertivo molto a disegnarli e lei cercava di copiare i miei disegni
dicendomi “Quanto sei brava, anch’io voglio farli
come te!” e io le rispondevo “Ma tu sei
già brava!”. A volte però mi correggeva
quando sbagliavo qualche particolare e io me la prendevo. Ero davvero
permalosa, ma ciò non ci permetteva di litigare. Disegnare
ci piaceva moltissimo. A me ancora adesso.
Quante riviste abbiamo sfogliato di cavalli? Non esiste numero che
possa rendere l’idea.
Mi ricordo quando lei mi parlava delle sue lezioni di equitazione e di
quanto le piacesse partecipare al corso. Quando lei mi diceva tutto
quello che faceva, un po’ la invidiavo: salire su un cavallo
era diventato un mio grande sogno. Quando lei mi raccontava tutto
ciò che faceva ad equitazione, mi brillavano gli occhi.
Un giorno aveva portato a scuola i suoi guanti che usava per cavalcare.
Mi ricordo di averli provati ed erano comodi. Li ho annusati e si
sentiva benissimo l’odore del cuoio, del pelo di cavallo e
del fieno messi insieme. Rendevano davvero l’idea dello sport
che tanto volevo fare insieme alla mia migliore amica.
L’unica cosa che desideravo in quel periodo, era poter
condividere lo sport dei mie sogni con lei.
Prima o poi le
elementari dovevano finire. Lo sapevo, ma non volevo pensarci.
Mi rattristava tantissimo sapere che le medie non le avrei fatte con
miei compagni, con lei. Volevo che il tempo si fermasse, che non
permettesse al destino di dire addio alle persone a cui non volevo
rinunciare, ma quel giorno purtroppo arrivò.
Era l’ultimo giorno di scuola, l’ultimo giorno con
loro, l’ultimo giorno in quel paese a cui tanto mi ero
affezionata e che non vedevo l’ora di girare sola una volta
diventata grande.
Avrei voluto essere felice, dato che era l’ultimo giorno di
scuola e c’era il saggio, ma proprio non ci riuscivo.
Le lacrime erano pronte ad uscire, come atleti in attesa dello sparo
del via. Lo sparo che i miei occhi attendevano era la famosa
campanella: l’ultima dell’anno.
Salutai tutti, compresa lei. Lei non poteva non essere salutata.
Quando uscii da scuola, chinai il capo e cominciai a piangere. Era
più forte di me.
Camminavo veloce verso mia mamma che mi aspettava ai parcheggi per
andare a casa. Lei sapeva che l’avrei raggiunta piangendo, me
lo sentivo. Quando la raggiunsi mi buttai sopra di lei, avvolgendole la
vita con i miei braccini e mi lasciai andare ad un pianto liberatorio.
Mia mamma mi capiva, le dispiaceva. Ma dovevamo per forza traslocare.
Avevo una paura davvero
folle. Una paura che mi tartassava la testa e non mi abbandonava mai:
avevo paura di perdere lei, la mia migliore amica.
Si dice che se un’amicizia è vera, essa
può superare qualsiasi difficoltà e qualsiasi
distanza.
Lo penso anch’io, come penso che l’amicizia tra me
e lei fosse vera. Ma nonostante questo, la distanza ci ha fatto un
brutto scherzo, facendo così avverare il mio timore
più grande: io e lei ci siamo perse.
Inizialmente, anche se i nostri due paesi non erano poi così
lontani, decidemmo di scambiarci delle lettere.
Ci piaceva l’old style.
Qualche volta ci chiamavamo anche al telefono, ci venivamo a trovare a
vicenda.. ma poi, inspiegabilmente, abbiamo smesso di sentirci e
vederci. Ancora adesso mi chiedo come possa essere finita
così. Era davvero destino che un giorno ci saremmo dovute
separare per intraprendere strade diverse?
Era davvero destino che tutte le cose che avevamo in comune dovessero
dissolversi così nel nulla?
Era davvero destino che lei avesse trovato delle nuove amiche pronte a
rimpiazzarmi?
Pensare a queste cose, mi veniva un dolore all’anima. Un
forte dolore.
Ero davvero impaurita all’idea di non avere più
lei come mia migliore amica, così pregai mia mamma per farmi
fare catechismo nel vecchio paese. Per
fortuna lei accettò, ma quando cominciai a frequentare le
prime lezioni dopo la messa, mi ricredetti sulle mie aspettative.
Mi immaginavo ancora insieme a lei a ridere, a scherzare, ad essere
felici come quando andavamo a scuola insieme, e invece non fu
così. Lei stava con le altre, io stavo sola. Parlavamo
qualche volta, ma per me era sempre troppo poco. La sentivo lontana
anni luce da me.
Ricordo che dopo una lezione di catechismo, sentii dentro di me una
sensazione orribile. Sentii che lei non c’era più,
l’avevo ormai persa per sempre, si era rovinato tutto tra noi
e io ci stavo malissimo.
È indelebile nella mia testa la scena di una bambina che
rientra a casa, che corre verso la sua cameretta per raggiungere il
letto su cui poi si rannicchia e piange. Piange incessantemente.
Piange perché ha perso la sua migliore amica. Piange
perché ha perso lei.
Quella bambina sono io, e non scorderò mai quella scena.
Sono passati anni, ma io non riesco ancora a riderci su.
Dopo un po’
di tempo, decisi che non dovevo darmi per vinta. Sentivo che lei non
era ancora del tutto persa e che potevo riaverla, così ho
convinto mia mamma ad iscrivermi nel maneggio dove lei andava a
praticare equitazione. Ero felicissima e non vedevo l’ora di
cominciare subito.
Purtroppo quell’esperienza fu come il catechismo di qualche
anno prima: lei non era più quella di una volta e anche se
si mostrava sorridente e allegra, non la sentivo vicina come gli anni
passati.
Ne rimasi scoraggiata, non potevi crederci. E pensare che alle
elementari avrei pagato oro per poter praticare quello sport insieme a
lei con lo scopo di divertirmi e di condividere finalmente a pieno la
mia grande passione per i cavalli con lei.
Peccato però che il tempo e il mio stupido trasloco abbia
rovinato tutto quanto.
A parte quello, io adoravo stare coi cavalli e occuparmi di loro. La
mia non era una passione copiata tanto per far piacere a lei, no. Io
amavo davvero quegli animali, e anche adesso, ma per colpa dei miei
brutti voti a scuola, non ho più continuato a cavalcare. Mia
mamma mi ha fatto smettere.
Sono passati un bel
po’ di anni da quando ho lasciato il maneggio e io ho
cominciato le superiori.
Ho scelto il liceo artistico perché la passione per il
disegno è nata con me e non mi ha mai lasciato.
E poi, è il liceo che i professori delle medie mi hanno
consigliato, perciò non ho potuto scegliere altri indirizzi.
Io ero curiosa di sapere che scuola avrebbe scelto lei. Si, nonostante
fossero passati altri anni da quando la persi, io la pensavo ancora.
Quando mi iscrissi alla scuola, mi venne in mente una vecchia scena.
“Allora tu da grande farai il liceo artistico?” mi
chiese lei mentre continuava a colorare un delizioso cavallino che
stava realizzando.
“Penso di si, e tu? Farai il liceo artistico con me, vero?
Così potremo disegnare un sacco di cavalli
insieme!” le dissi felice mentre coloravo anch’io
il mio disegno, sperando che lei mi rispondesse affermativamente.
“Ovvio! Faremo la scuola insieme!” mi rispose certa
ed io ero contenta. Mi piaceva pensare che anche da grandi saremmo
state unite.
Poi però il primo giorno di superiori è arrivato:
io ero davanti al liceo artistico, ma lei non c’era.
Lei si era scordata della promessa fatta da bambina. Io invece,
l’ho sempre ricordata.
“Dovresti essere ancora con me ora” mi dissi in
testa mentre mi avviavo verso il portone della scuola, pensando a lei.
“Ti sei scordata della promessa” aggiunsi.
Non potevo rimanerci male per delle parole scambiate da piccole, ma in
qualche modo mi feriva ugualmente. Ci tenevo a quelle parole, anche se
erano ingenue. Lei scelse il liceo linguistico.
La cosa però che mi tirava su il morale era sapere che le
nostre scuole erano e sono entrambe dello stesso gruppo: il gruppo Weil.
Ogni anno, il liceo classico, linguistico e artistico del Weil, si
riuniscono per due giorni per svolgere insieme delle
attività extra. L’idea la trovavo assolutamente
fantastica il primo anno perché per me era un modo per poter vedere
lei ancora delle volte. Infatti la vidi in quei giorni. La vidi con
altre ragazze.
Era normale che lei avesse trovato delle nuove amiche, ma io invece mi
chiedevo come mai ero ancora sola.
Mi chiedevo come mai, dopo molti anni, io aspettassi ancora un suo
ritorno.
Mi chiedevo come mai lei non mi pensasse più come facevo io.
Forse pretendevo troppo. Forse pretendevo l’impossibile.
Per me è sempre stato molto difficile stringere nuove
amicizie e, nonostante potessi andare d’accordo con qualcuno,
io non riuscivo a sentire nessuno vicino a me quanto io sentissi vicina
lei.
Lei era l’unica, lei era speciale, lei era lei.
Nessun’altro è mai riuscito a prendere il suo
posto, anche se non sembrava.
Ci hanno provato, ma hanno fallito. Tutti quanti.
Come stanno adesso le
cose?
Io e lei diventiamo maggiorenni quest’anno.
Io e lei conduciamo vite diverse.
Io e lei non siamo più quelle due bambine sempre attaccate
con la passione per i cavalli e per il disegno.
Io sono solitaria, sto sempre rinchiusa nel mio mondo, sono in continua
lotta con me stessa per la mia poca autostima, ho difficoltà
a relazionarmi con le persone, non ho mai avuto un ragazzo e mi sento
l’aliena della situazione ogni giorno.
Lei è carina, ha un bel fisico, ha molte amiche, ha un bel
fidanzato ed è felice, spensierata. A me non pensa
più. Non conosco più il suo carattere, non
conosco più lei. Siamo come due estranee. Due estranee con
dei ricordi.
Non so se ci sarà quel giorno in cui io smetterò
di rimpiangere i bellissimi giorni passati con lei, ma ciò
che è sicuro è che non la scorderò
mai. Anche se lei forse lo farà. Lei mi
dimenticherà.
Non proverò mai più a rintracciarla, la
lascerò andare via per sempre perché è
questo ciò che io devo fare. Se non ho mai avuto successo
nel riprendermela, significa che tutto è finito davvero e
che io non posso proprio interferire. La decisione del destino
è questa e io la devo accettare. Anche se per me
è ancora dura.
È come se tutto questo fosse un enorme boccone che io non
riesco ad ingoiare; esso mi è
rimasto incastrato in gola e rimane lì, senza farmi
respirare. Solo il tempo farà scivolare giù il
boccone lentamente.
Non è molto lontana l’ultima volta che ho provato
a ricostruire la nostra amicizia.
Una sera presi la scatolina dove dentro conservo cartoline, biglietti
di auguri e lettere. Le lettere di lei.
Le lessi, seduta sul letto a gambe incrociate. Mi intenerii, forse un
po’ troppo e finii per piangere.
Non era un pianto prepotente, no. Era lieve, silenzioso, quasi
trasparente. Le mie guance erano bagnate dalle dolci e fini lacrime, ma
si asciugarono subito. Decisi di trattenermi e di fermarmi. Avevo
un’idea: decisi di scrivere l’ultima lettera.
Ci misi tutta la speranza che avevo in corpo, tutto il cuore che avevo
in petto. Forse mi lasciai troppo andare, esagerai con le frasi
sdolcinate e non ci pensai che avrei potuto probabilmente scrivere cose
troppo “tragiche”. Ma io poi la spedii. Spedii
quella lettera e mi piaceva, nonostante tutto. La trovavo perfetta.
Dopo che lei la trovò nella sua cassetta della posta e la
lesse, mi scrisse un messaggio. Un messaggio che attendevo da giorni.
A giudicare dalle parole che lessi, lei era molto felice e sorpresa.
Voleva vedermi, così uscimmo.
Io ero emozionata, felice. “Sto uscendo con lei! Sto uscendo
con lei!” esultavo nella mia mente mentre raggiungevo il mio
vecchio paese in sella alla mia bici.
Non potevo crederci: io, scrivendole una lettera dove le dicevo che mi
mancava, ero riuscita a realizzare un mio piccolo sogno, ossia quello
di uscire con lei nel mio vecchio paese. Da piccola non vedevo
l’ora di crescere per poter uscire insieme a lei, e quel
giorno lo stavo per fare.
È stato stupendo, mi sentivo bene, a mio agio. Eravamo
sedute al tavolino di un bar a chiacchierare mentre sorseggiavamo una
lattina di estathe al limone. Quel giorno scoprimmo che era il nostro
the preferito e la cosa mi sorprese: nonostante gli anni passati
lontane, io e lei avevamo ancora qualcosa in comune.
Scoprimmo anche che a entrambe ci piace il colore giallo, che adoriamo
i siti di fotografia, che vogliamo farci crescere tantissimo i capelli,
che mangiamo solo pizza margherita e che siamo due emerite ciucche in
matematica. Noi eravamo famose per condividere un miliardo di cose e
ancora lo facevamo! Senza rendercene conto! Ciò per me era
un buon segno.
Un segno che però, col passare del tempo, si
sbiadì fino a scomparire. Dopo quel bellissimo pomeriggio
passato insieme raccontandoci tutto ciò che
c’eravamo perse l’una dell’altra, lei non
si è fatta più sentire.
Io le scrivevo, lei mi rispondeva. Ma poi ho smesso perché
ero sempre io a cercarla.
Lei non mi pensava mai. E ancora non lo fa. Non mi scrive.
Mi sono chiesta un sacco di volte perché. Perché
lei non mi scriveva? Perché lei non mi cercava?
Se era davvero così felice di rivedermi, perché
poi è sparita?
Se aveva accettato di ricostruire l’amicizia che
c’era tra noi, perché ha mollato tutto?
Perché? Perché?
Ancora non capisco per quanto io mi possa sforzare. So solo che ci sto
male, che sono una cogliona e che ho fallito, di nuovo. Ma è
stata e sarà sempre l’ultima volta che io ho
provato a ricercarla. Adesso mi sembra inutile riprovare.
Sono qui davanti
a questo computer mentre scrivo questa storia di me e di lei, purtroppo
finita male.
La scrivo perché ho bisogno di sfogarmi, di buttare fuori
tutto quello che mi passa per la testa perché si, io sto
ancora dannatamente pensando a lei. Mi vorrei punire per questo. So di
essere stupida, ma per me è troppo difficile accettare il
fatto di non riuscire a trovare un’altra persona come lei.
Lei sarebbe dovuta essere la mia compagna d’avventure per la
tutta la vita, io non avrei dovuto traslocare, non avrei dovuto
cambiare casa!
Io e lei dovevamo rimanere sempre insieme.
Io e lei eravamo fatte per essere amiche, per sostenerci a vicenda.
Io e lei eravamo migliori amiche e credevamo di stare insieme fino a
quando non saremmo diventate vecchie. I nostri erano solo ingenui
pensieri da bambine, ma ci piaceva fantasticare sul futuro.
Non immaginavamo però che il nostro futuro sarebbe stato
come il nostro attuale presente.
No, noi sognavamo tutt’altro. E tutto adesso è
diverso da ciò che volevamo fare.
Dovevamo essere amiche. Amiche per sempre.
Io e lei.
thoughts.
allora ragazzi, eccomi ancora qui con questa nuova oneshot che, come l'altra, parla di una mia esperienza.
per chi ancora non lo sapesse, ho fatto questo account EFP per pubblicare testi che parlano di me e della mia vita.
mi piace molto scrivere autobiografici e penso che sia un ottimo metodo per poter riflettere su ciò che faccio e su ciò che sono (?)
ok, la spiegazione è pietosa .-.
comunque, al di fuori di tutto, che ne pensate di questa storia? anche voi vi rivedete in ciò che ho scritto? a qualcuno di voi è successo qualcosa di simile?
raccontatelo in una recensione :)
spero che vi sia piaciuto.. in caso contrario, mi scuso per avervi annoiati.
Baci, Universe_