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Autore: lietome_    25/09/2012    6 recensioni
"L’unica cosa che ricordo di lei è che non si era arresa."
"-Ti viene mai voglia di morire?- le chiedevo –Di lasciare tutti, di andartene. Al diavolo tutto.- le chiedevo –Di avere la certezza che ormai è troppo tardi per essere salvata, finalmente troppo tardi.-"
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Julia.

L’unica cosa che ricordo di lei è che non si era arresa. Ricordo la sua camminata fiera lungo i corridoi dell’ospedale quando tornava-tornava. Ricordo i suoi capelli biondi e opachi, lisci a ciocche che le si disponevano attorno al viso magro.

Mi ha sempre ricordato Cleopatra, anche questo ricordo.
Ricordo i suoi occhi magnetici che mi fissavano le calde mattine di luglio come le notti gelide di dicembre. Quegli occhi color carta dei cioccolatini che mangiavamo di nascosto, sotto le coperte del mio letto. E ricordo anche come la luce della torca che usavamo per proiettare ombre sul muro le definisse gli zigomi alti. Di come le scurisse i solchi delle occhiaie viola.
Ricordo di quanto quelle ombre sui muri somigliassero ai miei incubi. E non sono certa di quale tra i due fosse lei a costruire; se le ombre o i miei incubi.
 
Ero a pezzi. Rotta. Sconnessa.
E ricordo di come le sue dita lunghe riuscissero a rimettermi insieme, di come le sue carezze sapessero plasmarmi. Mi ricordo la sensazione di rinascita che quegli occhi magnetici, sebbene gonfi, mi portassero la sera. Una di quelle caramelle colorate e dure in mano che non voleva chiamassi ‘pastiglie’.
-Le pastiglie sono per le persone malate, Monique.- diceva –E noi non siamo malate, Monique.- diceva –Vero, Monique? Vero?-
Vero, Monique? Vero?
Ricordo la sua voce roca e graffiata che mi faceva fremere la punta delle dita. Ricordo di come poggiava la lingua sui denti mentre aspettava una risposta, ma non mi ricordo il mio regalo dei 18 anni. O il mio primo bacio. O la sigla della pubblicità dei cereali.
E sono sicura che se qualcuno mi aprisse la testa adesso troverebbe la fotografia delle sue labbra graffiate e segnate dai miei denti e dalla sua paura inesplosa. Quella delle sue gambe lunghe e storte, con le ginocchia troppo vicine fra loro, ma che mi piacevano ugualmente.
Ed è questo quello che ricordo: come lei mi facesse sentire, di come nemmeno io avessi paura stando con lei. Le pareti che andavano a fuoco mentre lei mi baciava un’altra volta.
Ed i suoi ringhi, ricordo.
Le sue spalle curve e magre, il pigiama largo che era così facile toglierle. E come nemmeno in quei momenti crollava.
-Vattene, Monique.- diceva e io non mi muovevo –Vattene!- urlava e scattava in piedi, mi guardava con gli occhi improvvisamente vuoti.
Lanciava verso di me l’oggetto più vicino, faceva cadere uno dei tavoli de la-sala-ricreativa, urlava. E io non mi muovevo.
Ricordo il suo smalto rosa carne che non si avvicinava per niente al colore diafano della sua pelle. Scrostato ai lati.
E ricordo come lei si avvicinava pericolosamente a me brandendo un oggetto innocuo che nelle sue mani diventava un’arma. Ricordo come me lo puntasse contro.
Era in quei momenti che mi accorgevo di essere malata. Mi accorgevo che lei era malata. E speravo fino in fondo che mi piantasse la penna che brandiva nella gola, che spegnesse per sempre la luce.
Ricordo di come trattenevo il respiro aspettando che lo facesse, ricordo il tremolio incerto della sua mano e ricordo le corse degli infermieri che la sollevavano di peso portandola lontana da me. E lei urlava, e scalciava, e si dibatteva fino a quando qualcuno non arrivava con la siringa del tranquillante.
-Mi dispiace.- sussurrava ogni volta a denti stretti guardandomi per l’ultima volta prima di addormentarsi ancora stretta forte dai due infermieri.
Ricordo la sua presa forte e le sue labbra sul collo, il suo respiro che mi faceva scendere i brividi lungo la schiena. Ricordo il muro freddo contro cui mi sbatteva quando usciva dall’isolamento, i suoi baci violenti.
Ricordo il profilo delle costole sul suo torace, ma non ricordo il giorno del mio compleanno. O il muso del mio gatto. O la targa della macchina di mio padre.
 
L’unica cosa che ricordo di è lei. Lei che non si è arresa, al contrario di me.
-Ti viene mai voglia di morire?- le chiedevo –Di lasciare tutti, di andartene. Al diavolo tutto.- le chiedevo –Di avere la certezza che ormai è troppo tardi per essere salvata, finalmente troppo tardi.-
Ed era così che mi sentivo, ricordo anche questo. E ricordo il suo sguardo che si opponeva silenziosamente alle sue parole. –Non ci penso mai. A morire, intendo.- e che poi si accendeva quando era la verità che le usciva dalle labbra sottili –Dormirò, quando sarò morta.-
Ed entrambe sapevamo che non era una frase sua mail testo di una qualche canzone che aveva sentito fuori-fuori.
Lei non si era arresa, lo ricordo e mi sento in colpa.
Guardo il sangue uscire dai miei polsi segnati e ricordo il suo Prozac rubato alla farmacia, il barista del bar al quale andavamo il-giorno-della-gita che era innamorato di lei.
Ricordo com’era sentirla gemere e com’era bella arrotolata nelle lenzuola grigie del suo letto.
Aspetto che arrivi il buio, l’eterno buio e non ho paura di andare all’inferno. So che potrei aspettarla e che, presto o tardi, lei tornerebbe a stare con me. E non ci sarà morte che ci potrà separare, allora.
Non ci sarà la depressione, non ci saranno i suoi attacchi d’ira.
Il pavimento sotto di me è freddo e ormai sento di esserlo anche io. Respiro a fatica e non c’è più motivo di tenere gli occhi aperti.
L’unica cosa che ricordo, ora mentre il mio stesso sangue mi macchia la camicia, è che non le ho mai detto che l’amavo.





è la prima volta che pubblico qualcosa di originale. spero vi sia piaciuta e che, in ogni caso, mi facciate sapere il vostro parere.
grazie mille.
xx
  
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