Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Puglio    26/09/2012    1 recensioni
Il capitolo finale del mio seguito di "Nadia: il mistero della pietra azzurra". Nadia è partita alla volta di Atlantide. Jean, in un ultimo disperato tentativo di ritrovarla, decide di rivolgersi all'unica persona che conosce abbastanza la cultura di Atlantide per aiutarlo... ma non è un'impresa facile. Ora è solo, e non può fare affidamento che sulle sue forze. Intanto, Winston scopre che la sua missione si fa sempre più complicata...
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Rebecca si fece largo tra la folla, intrufolandosi a fatica tra quanti continuavano a spingere verso il patibolo e contro le cancellate del Palazzo. Avanzava tra urla e spintoni, stretta fino a soffocare da chi la circondava e urtava da ogni dove, sballottandola senza alcun riguardo. Stava ormai per cadere a terra priva di sensi, quando riuscì a raggiungere i portici che circondavano la piazza, dove si abbandonò rabbrividendo contro la pietra fredda di una colonna immersa nell'ombra. Finalmente, tornava a respirare.

La gente sembrava in preda al delirio. Volavano insulti e grida, e c'era già chi aveva cominciato a fare a pezzi tutto ciò che trovava, brandendo minacciosamente assi di legno e pali spezzati. Alcuni cercavano di forzare il cordone di guardie che si era schierato in formazione davanti all'ingresso all'ala privata del Palazzo, mentre altri, più scaltri, approfittavano della confusione per attaccare i magazzini, seppur con scarso successo. Le guardie faticavano a tenere tutto sotto controllo e svolgevano il loro lavoro come potevano, ma rappresentavano comunque una forza soverchiante. Rebecca cominciava a temere che, se le cose non si fossero in qualche modo calmate, presto la situazione sarebbe degenerata in un massacro indiscriminato.

Basta, devo andarmene da qui. Devo andarmene, prima che sia troppo tardi.

Si guardò attorno, in cerca di una possibile via di fuga. L' ingresso al magazzino era poco più avanti, e sembrava una ghiotta opportunità. Ma Rebecca scartò subito l'idea: impossibile entrarvi, era troppo ben presidiato. Al riparo nel suo cantuccio, Rebecca continuò a spostare lo sguardo intorno, ragionando in fretta sulle alternative possibili. Stava per muoversi, alla ricerca di un'entrata sicura, quando improvvisamente, e molto vicino a lei, esplose un grido a dir poco terribile. Rebecca sbarrò gli occhi, bloccandosi spaventata e accucciandosi a terra dietro la colonna. A qualche metro da lei, un gruppetto di persone si era messo ad attaccare con una sassaiola i soldati ai cancelli. Per un attimo si scatenò una gran confusione, poi le guardie brandirono le lance a torpedine e riuscirono in qualche modo a disperdere la folla. Qualcuno tra i popolani cadde a terra, inerte, mentre gli altri si ritiravano; sgomenta, Rebecca vide la guardie afferrare e trascinare via i corpi immobili, che venivano portati da qualche parte dietro ai cancelli. Rebecca distolse lo sguardo, quindi si avvolse stretta intorno allo scialle che portava sul capo, allontanandosi in fretta e sforzandosi di non tremare.

Era escluso riuscire a entrare da quella parte: troppo pericoloso. Se voleva accedere al palazzo, era meglio allontanarsi e trovare un altro modo. Sempre che esistesse.

Si guardò attorno, lanciando un'ultima occhiata alla piazza. Ormai era completamente gremita, ma le guardie sembravano aver ripreso in mano la situazione. Rebecca si allontanò costeggiando il muro di cinta, facendo attenzione a mantenersi sempre nell'ombra. Non voleva farsi notare: ma allo stesso tempo cercava di non guardare verso il patibolo che si levava alla sua sinistra, ridotto quasi in pezzi, ma da cui ancora pendeva il corpo inerte del condannato e che ora alcuni stavano cercando di raggiungere, per tirarlo giù. Rebecca rabbrividì ripensando alla pena che le aveva fatto vedere il volto di quel giovane sbiancare per la paura, quando il boia gli aveva messo la corda al collo. Già quando era entrata nella piazza, e aveva intravisto il patibolo addossato alle solide mura di pietra bianchissima, era rimasta scioccata. Mai avrebbe creduto di dover assistere a una cosa del genere, in vita sua, e invece era successo. L'esecuzione era avvenuta in fretta, in un silenzio irreale, davanti agli occhi fissi e attoniti di centinaia di persone. Era stato terribile, qualcosa che Rebecca non avrebbe mai dimenticato. Se chiudeva gli occhi, poteva ancora sentire dentro di sé i gemiti strozzati del condannato, che rimbombavano sordi tra le mura mentre soffocava lentamente, accompagnato dal silenzio dei presenti e dai singhiozzi trattenuti della madre.

Poi, a quel punto, era apparsa Nadia. Rebecca non l'aveva più vista da quando avevano lasciato la Terra, e non si aspettava di trovarsela davanti agli occhi così, del tutto all'improvviso. Tanto meno in una situazione come quella. Vederla comparire in quel luogo, e in un momento del genere, fu per Rebecca un evento traumatico: l'immagine di lei che si affacciava dal balcone, avvolta da quel silenzio gravido di rabbia e risentimento che si avvertiva serpeggiare tra la folla, era ancora vivida nella sua memoria, e difficilmente Rebecca avrebbe saputo dimenticarla. Era stato come trovarsi a vivere un incubo, un incubo in cui ogni cosa, anche le certezze che avevano retto la sua vita fino a quel momento, venivano rovesciate completamente.

Non voleva dubitare di Nadia, la sola idea la ripugnava. Ritenerla responsabile di un gesto di tale crudeltà era più che tradire la memoria di una cara amica: era rinnegare un membro della sua stessa famiglia. Tuttavia, era difficile credere che Nadia fosse completamente estranea a quella barbara esecuzione. La sua presenza su quel balcone ne era la prova quasi tangibile.

Era disgustoso da ammettere, ma per Rebecca rivedere Nadia, in quel momento, era stato come ritrovarsi davanti agli occhi lo spettro di Gargoyle. Dopo tanti anni lo stesso terrore, lo stesso senso di angoscia e impotenza di fronte a un potere tanto forte quanto incomprensibile erano tornati a rivivere in lei. E questo dubbio terribile, che Nadia avesse alla fine ceduto alla parte più oscura di lei – e questo anche per colpa sua, perché non c'era stata quando Nadia aveva più bisogno di aiuto – era sorto nel suo cuore senza che lei potesse far nulla per impedirlo. Ed era qualcosa con cui, prima o poi, avrebbe dovuto fare i conti.

Rebecca scacciò via quei pensieri cupi, calandosi lo scialle fin sugli occhi; quindi lasciò il cortile, protetta dall'ombra che i monumentali pilastri e le alte volte del portico gettavano attorno alla piazza. C'era ancora agitazione, ma il cordone di soldati era riuscito a riportare una parvenza di ordine, seppure con con una certa difficoltà. La massa di popolani che gremiva il palazzo era stata costretta lungo le mura, lontano il più possibile dai cancelli; ma dalla gente continuava a levarsi un brontolio sinistro, fatto di parole veloci che correvano a fior di labbra, poi urlate, gridate con rabbia. Rebecca ascoltava, impaurita. Era come trovarsi in balia delle onde, in un mare agitato dal vento in tempesta.

Aggirò svelta una colonna, mantenendosi nell'ombra. Quindi percorse il muro sul fondo, stando attenta a non dare troppo nell'occhio. Tutto quello che doveva fare, adesso, era trovare una porta, un modo come un altro per entrare a palazzo senza farsi scoprire, e lasciare così per sempre quel delirio.

Ma, probabilmente, sarebbe stato molto più facile a dirsi che a farsi.

Con rammarico, notò che tutti gli ingressi più vicini erano sbarrati, o erano presidiati da soldati della milizia reale. Rebecca trattenne un'imprecazione. Era stata un'ingenua, se aveva pensato di poter sfruttare la confusione per introdursi non vista nella Reggia: era inevitabile che la sorveglianza si facesse più dura, in un frangente come quello, avrebbe dovuto pensarci. Colse con disappunto lo sguardo sospettoso che una guardia le fece scivolare addosso, e si rintanò svelta in un angolo nascosto. Temeva la durezza dei miliziani e le loro lance a torpedine più di ogni cosa: aveva visto molta gente cadere fulminata, in passato, a causa di quelle lance. Non desiderava fare la stessa fine.

I cancelli del magazzino restavano sempre i più vicini; entrare di lì sarebbe stata la soluzione, ma finché non trovava un modo per farlo, e per aggirare le guardie, erano destinati a restare un doloroso miraggio. Rebecca si morse le labbra, mandando giù l'amaro di quella delusione. Quindi si rintanò dietro il muro, sospirando. Era meglio pazientare e tenersi a distanza, almeno per un po', aspettando nel caso si muovesse qualcosa.

Ma non crediate che me ne andrò tanto presto. Nossignore, non oggi...

Marie, la sua Marie, si trovava da qualche parte dietro quei cancelli. Lo sentiva, anche se non poteva esserne sicura. La sua era solo una speranza, ma ormai la speranza era l'unica cosa che le rimaneva. Fin da quando si era risvegliata nella cabina dell'astronave che l'aveva condotta ad Atlantide, Rebecca non aveva pensato ad altro che a ritrovarla: e se era ancora viva, dopo mesi trascorsi da sola su un pianeta sconosciuto e tra persone che parlavano una lingua sconosciuta, era stato certo merito suo e della propria intraprendenza; ma anche di quel pensiero costante che non l'aveva abbandonata mai, nemmeno per un secondo.

Per otto, interminabili mesi si era recata ogni giorno al palazzo, attendendo inutilmente davanti alle sue porte nella speranza che queste si aprissero, per farla passare. Quel giorno, incredibilmente, era successo; anche se ciò che aveva trovato, al di là delle porte, era stato qualcosa di inimmaginabile. Perciò, non se ne sarebbe andata da quel posto, non prima di aver trovato il modo per entrare. E questo, a costo di rimetterci la pelle.

Si udirono dei tumulti, vicino al cancello. Rebecca, richiamata dal frastuono, si fece coraggio e lasciò la nicchia in cui stava nascosta; quindi, con disinvoltura, si avvicinò alle persone che occupavano lo spazio tra i portici e la piazza. Si alzò sulle punte, appoggiandosi a chi le stava davanti. Non si vedeva molto, ma sembrava che i soldati avessero cominciato a fendere la folla: evidentemente, stavano cercando di far passare qualcuno.

Si udivano grida, e cominciarono a volare dei fischi. La folla si disperse per un attimo, davanti alle lance a torpedine che i soldati brandivano minacciosi. Quindi si aprì un varco, e una carovana di persone cominciò ad avanzare tra due mura di gente, i volti pallidi e le spalle curve, mentre le guardie le proteggevano da quanti cercavano di aggredirle, o strattonarle. Rebecca capì dai loro abiti semplici ma dignitosi che si trattava del personale di palazzo: molto probabilmente erano servi e domestici che si recavano al lavoro: cuochi, addetti alle cucine e alle camere, garzoni e cameriere. Alcuni portavano della merce con loro: c'erano casse, su un autocarro; e ceste di frutta, tela, tessuti... cibo che con molta probabilità sarebbe stato cucinato e servito alla tavola della Regina o degli alti ufficiali di Reggimento; ornamenti preziosi che sarebbero andati ad adornare le sale del palazzo e le camere private della sovrana.

Rebecca seguì attentamente con gli occhi quelle persone, che si facevano largo a fatica tra la folla che lanciava loro insulti e grida, e che vedeva in loro il simbolo odioso di un potere dispotico. Qualcuno tentò di superare il cordone di protezione e di strappare un cesto di frutta dalle mani di una giovane cameriera. La ragazza resistette per un istante; quindi cadde a terra, lanciando un grido. L'aggressore venne ricacciato a manganellate, ma si creò un po' di trambusto. Era il momento. Rebecca si gettò senza riflettere tra la folla, spintonando fino a raggiungere la ragazza che ancora si trovava a terra. L'aiutò a rialzarsi e a raccogliere la frutta che si era sparpagliata al suolo, ma ebbe la cura di prendere per sé il cesto. «Vieni, appoggiati a me» disse alla ragazza. Questa annuì, senza protestare. Rebecca esultò, in cuor suo, afferrando il cesto e stringendolo stretto. Quando alla fine i soldati riportarono l'ordine, Rebecca, grazie a quel semplice cesto di frutta, era riuscita a trasformarsi in una serva di palazzo.

La processione arrivò ai cancelli del magazzino, sotto le volte del portico. Rebecca attese al suo posto, aiutando a reggersi la ragazza ma senza mai lasciare il cesto, che stringeva così tanto da avere le nocche arrossate. Vide le guardie parlottare tra loro, mentre una di esse estraeva un mazzo di chiavi. Rebecca serrò ancor più le dita attorno all'impugnatura di vimini, con il cuore le batteva forte. Ascoltò con ansia lo scatto della serratura, e il cigolio delle inferriate che si aprivano davanti a loro: quindi, quando le guardie fecero loro cenno di entrare, il cuore quasi le si fermò, mentre muoveva il primo passo verso l'ingresso. Da sotto il cappuccio, con gli occhi bassi, continuava ad avvertire su di sé lo sguardo indagatore delle guardie al cancello: ma quando finalmente si azzardò a risollevare gli occhi, vide in realtà che nessuno la stava guardando e che si trovava già al sicuro dentro al perimetro del Palazzo, lontana dalla folla e dai soldati al cancello.

«Grazie, ma ora posso continuare da sola» le fece la giovane, che la guardava con un sorriso imbarazzato, cercando di sottrarsi alla sua stretta. Ancora immersa nei suoi pensieri, Rebecca le lanciò uno sguardo distratto. Quindi annuì, lasciandole il braccio che si accorse di stare stringendo un po' troppo.

«Sei stata molto gentile» disse la ragazza, ricomponendosi gli abiti. «Quando quel tipo mi ha aggredita, ho avuto una paura tremenda».

Rebecca le rivolse un cenno vago, incerta su come comportarsi. Doveva dirle qualcosa? Faceva ancora fatica a parlare la lingua di quella gente, anche se ormai riusciva a capirla piuttosto bene... Tuttavia, avrebbe preferito non destare troppa curiosità.

«Tu devi essere nuova» le fece la ragazza, riprendendosi il cesto, che Rebecca le consegnò con un certo rammarico. «Non ti ho mai visto, prima. E anche ai cancelli, non mi ero accorta che fossi insieme a noi».

Rebecca sorrise nervosa, guardandosi intorno.

«Sì, ero... lontana».

«Aspetta, sei straniera?» fece la ragazza, improvvisamente interessata. «L'ho capito dal tuo accento».

Rebecca si maledisse per aver aperto bocca. Se avesse potuto, avrebbe ingoiata la lingua.

«Io... sì, non... non capisco bene... come si dice?... glossa. Lingua».

«Da dove vieni?» insisté la ragazza. Ora guardava Rebecca con viva curiosità, attratta soprattutto dai suoi capelli rosso vivo.

«Nord» fece Rebecca, guardandosi intorno vagamente, e con un sorriso tirato. «Molto nord».

«Nord?» chiese la ragazza, sempre più interessata. «Da un'isola, allora? Magari Scithya... o forse Kalliophes?»

Rebecca annuì, stringendo le labbra. La gente passava, lanciandole sguardi curiosi. Cominciava ad avere fretta di levarsi da lì.

«Tu fai... ponos... qui?» chiese. A quelle parole, la ragazza rise.

«Beh, non sono mica una schiava!» commentò. «Sono una domestica, e lavoro qui... ma vengo pagata» rispose. «Mi chiamo Myra. Ormai, sono quasi cinque anni che ho cominciato a servire a palazzo e... aspetta!» fece, illuminandosi improvvisamente e fissando sul volto attonito di Rebecca i suoi grandi occhi bruni e lucenti come perle. «Non è che stai cercando lavoro?»

Rebecca si irrigidì. Rifletté un istante, quindi «tu puoi darmi lavoro?» chiese.

«Forse» fece Myra. «In effetti, ci sarebbe bisogno di una mano in più. Ora che abbiamo una Regina, a palazzo, non si bada a spese. E poi c'è sempre da lavorare. Forza, vieni con me!» esclamò, prendendole allegra la mano. «Ne parleremo a Santippe. È a capo delle domestiche, ed è lei a decidere tutto. Se le piacerai, ti assumerà».

Rebecca non aveva capito molto, ma si lasciò trascinare fiduciosa dalla giovane domestica lungo i corridoi del palazzo, senza protestare. Mentre percorreva le sale interne della reggia, continuava a guardarsi attorno, gettando un'occhiata dietro ogni porta socchiusa e dentro ogni stanza, nella speranza di intravedere Marie. Ma per quanto cercasse, non riuscì a vederla da nessuna parte.

Nonostante ciò, Rebecca non si preoccupò più di tanto. Era già fin troppo felice che le cose stessero procedendo nel migliore dei modi, almeno per il momento. Se Marie si trovava davvero in quel palazzo, così come lei continuava a sperare, era solo questione di tempo prima che riuscisse a trovarla.

Da qualche parte, nel suo cuore, sentiva già di essere finalmente riuscita a raggiungerla.

 

*

 

«E tu, chi diavolo sei?»

Rebecca sorrise, cercando di sfoggiare una certa disinvoltura di fronte a quel donnone che la scrutava stizzita. Era sempre stata brava ad ammaliare le persone, anche se si rendeva conto che con le donne il suo fascino perdeva gran parte del suo potere. Inoltre, già il fatto di non parlare fluentemente la lingua di quella gente, rappresentava un problema.

Fece l'accenno di un inchino, che fu quanto le venne in mente per cercare di fare buona impressione. Quindi tentò di farfugliare qualcosa, giusto per presentarsi.

«Mi chiamo Rebecca. Cerco lavoro e...»

«Non ti inchinare, non sono mica una nobile» tagliò corto la donna. Si chiamava Santippe, ed era stata presentata a Rebecca come la responsabile delle domestiche. Rebecca la conosceva da pochi secondi, ma già la trovava detestabile. Aveva sperato che Myra potesse introdurla facilmente a palazzo, e che per farlo le sarebbe bastato mettere una buona parola per lei; ma anche in quel caso, la sua si era rivelata un'ingenuità. Era ovvio che Santippe non vedeva di buon occhio chi le si presentava in quel modo, senza referenze né alcun tipo di raccomandazione. Inoltre, sembrava in qualche modo sospettare di lei; anche se almeno in questo aveva ragione.

«E tu, chi ti ha detto di portarla qui?» esclamò Santippe, torva, rivolgendosi a Myra. La giovane, a fianco di Rebecca, impallidì e chinò il capo, imbarazzata.

«Mi dispiace, pensavo che una mano in più avrebbe fatto comodo e...»

«Tu pensi troppo, evidentemente».

Rebecca era in difficoltà. La prospettiva di essere assunta si stava ormai dileguando. Inoltre, cominciava a temere che presto l'avrebbero consegnata alle guardie. E lei non voleva assolutamente destare scalpore, anzi: tutto ciò che doveva fare, era tenersi il più lontano possibile da Faloe, e da chi avrebbe potuto riconoscerla in qualche modo. Se Faloe fosse venuta a conoscenza della presenza di Rebecca su Atlantide o, peggio ancora, del fatto che si trovava nella sua stessa città, non ci avrebbe messo un secondo a sparire con Marie. E questo, per Rebecca, avrebbe significato perdere ogni speranza di ritrovarla.

Santippe sbuffò. Scosse la testa, togliendosi gli occhiali che le pendevano sulla punta del naso e gettando sulla scrivania i fogli che teneva tra le mani.

«Non ho davvero tempo, per questo» lamentò. «Siamo nel bel mezzo della preparazione del ricevimento. Ho tra le mani i turni del personale, ancora da completare, e tu mi porti questa... questa sciattona? Per giunta pretendendo che l'assuma senza dire una parola!»

Rebecca arrossì. In un altro frangente avrebbe assestato un bel pugno alla faccia grinzosa di quella vecchia scorbutica, e questo per aver anche solo osato darle della sciattona. Ma in quell'occasione abbassò la testa, umilmente.

«Ti chiedo scusa, Santippe» farfugliò Myra, profondendosi in un inchino. La donna le impose di tacere con un gesto brusco.

«E poi guardati» commentò, fissando Rebecca con una smorfia. «Ma da dove salti fuori?»

«Viene da nord» intervenne imprudentemente Myra. Santippe la fulminò con lo sguardo. Lei tacque, immediatamente.

«Nord, eh? Al massimo viene da dietro l'angolo della strada».

«Io... mi sono sbagliata» disse Rebecca, che voleva finirla al più presto con quella donna. Doveva andarsene da lì, prima che la situazione degenerasse. Magari, allontanandosi, avrebbe trovato comunque il modo per dare un'occhiata in giro, se la fortuna fosse stata almeno in quello dalla sua parte.

«Non voglio disturbare, chiedo scuse».

«Si dice ''chiedo scusa''» latrò Santippe. Rebecca ammutolì per la vergogna. Fremeva di rabbia. Quella dannata vecchiaccia... cosa accidenti voleva, ancora, da lei? Si era scusata, non era già abbastanza? Evidentemente, godeva nel metterla in difficoltà.

«Va bene, basta discutere» fece Santippe, dura. «Tu, mettiti al lavoro» ordinò a Myra, che si dileguò in silenzio, lanciando a Rebecca uno sguardo colpevole, di scuse. «E tu, vieni con me».

Rebecca sentì il cuore mancarle un battito. Dov'è che doveva seguirla? Aveva per caso intenzione di consegnarla alle guardie?

«Io non voglio problemi! Io vado via, se lei non vuole che...»

Santippe squadrò Rebecca con durezza. «Lo vuoi un lavoro, o no?»

Il volto di Rebecca si colorò all'improvviso. Sorrise, sollevata.

«Sì, sì... grazie!»

Santippe brontolò qualcosa, quindi uscì dalla stanza, seguita a ruota da Rebecca.

«Per prima cosa» le disse, guidandola tra i corridoi riservati alla servitù «tieni a freno la lingua. E vedi di non andartene troppo in giro, con quei tuoi capelli rossi. Qua non abbiamo bisogno di esibizionisti».

Rebecca avvampò di collera. Non capiva perché quella donna ce l'avesse tanto con lei, né perché il fatto di avere i capelli rossi fosse un problema. Comunque ingoiò anche quelle offese, cercando di pensare solo al fatto che, rimanendo nel palazzo, avrebbe finalmente avuto occasione di cercare Marie.

«Di gente come te, ne ho vista parecchia» continuò Santippe. «Spostate che credono di venire qui per fare la bella vita, magari per avvicinare qualche nobile o qualche ufficiale sfruttando il loro bel faccino e farsi poi mettere incinta...»

Era troppo. Rebecca fece per protestare, ma Santippe la bloccò. «So quello che vuoi dire: tu non sei così, a te interessa solo lavorare. Ho già sentito anche questo. Ma ti avverto, con me non funziona. Fatti trovare solo una volta con le mani in mano, a fare qualcosa che non dovresti fare o in un posto in cui non dovresti essere, e ti assicuro che ti pentirai di aver messo piede qui dentro. Sono stata chiara?»

Rebecca sospirò, trattenendo la rabbia. Quindi, annuì.

«Sì» disse, sforzandosi di apparire umile. «Grazie».

«Smettila di ringraziare».

Santippe aprì bruscamente la porta di quello che sembrava un deposito. Frugò in un armadio, estraendo dal suo interno alcuni abiti piegati e impacchettati, che posò sgarbatamente su un mobile.

«Provati questi, dovrebbero essere della tua taglia» fece, lanciando a Rebecca uno sguardo severo. «Quando hai finito, vai alle cucine. Là ti diranno cosa fare».

Rebecca fece per ringraziare, ma si zittì all'ultimo istante notando lo sguardo severo di Santippe. Si limitò a chinò il capo con un sorriso. Cosa che Santippe parve apprezzare.

«Muoviti» disse la donna a Rebecca, allontanandosi con una smorfia. «Non hai tutta la giornata».

Rebecca aspettò che Santippe se ne fosse andata, quindi prese i vestiti e chiuse la porta del ripostiglio. Era buio e la tappezzeria alle pareti odorava di polvere. Rebecca annusò i vestiti, con una smorfia. Sapevano di polvere anch'essi, ed erano di pessima fattura. Ma c'era poco da fare. E rispetto a ciò a cui si era abituata, in quegli ultimi otto mesi, restava comunque un deciso passo in avanti.

Con un sospiro rassegnato, cominciò a sfilarsi le vesti, e a indossare la sua nuova divisa. Stava andando tutto bene, pensò, allacciandosi il grembiule di cotone bianco dietro la schiena. Ancora un po', solo un po', e finalmente avrebbe riabbracciato Marie.

 

 

*

 

 

«Allora ce l'hai fatta!»

Myra afferrò Rebecca per un braccio, trascinandola in un angolo dell'immensa cucina. Uno sguattero passò loro accanto quasi correndo, mentre reggeva una pila di piatti bianchissimi.

«Ti hanno detto di venire qui?» fece la ragazza. Rebecca annuì vagamente, guardandosi intorno stupita. Le cucine erano immense, e letteralmente prese d'assalto da un esercito di cuochi, domestici, sguatteri e semplici inservienti. Dalle pentole si levava ogni genere di aroma, che andava a mischiarsi in un tutto confuso e che all'olfatto assumeva un'infinità di sfumature, dalla più agre alla più dolce. A fianco a dove si trovavano, una porta scorrevole si aprì senza preavviso e un garzone uscì reggendo tra le mani imbiancate di farina un vassoio ricolmo di pagnotte appena sfornate, che diffusero tutt'intorno una dolce fragranza di pane.

«Qui il pane è sempre fresco» commentò Myra davanti alla faccia stupita di Rebecca. «Alla Regina non si serve il pane duro».

La ragazza agguantò al volo una pagnotta calda, pescandola direttamente dal vassoio. La spezzò in due e ne addentò svelta una metà. L'altra la porse a Rebecca. Il giovane garzone le rivolse uno sguardo corrucciato, ma al tempo stesso divertito.

«Per questo sei in debito, Myra» fece lui, voltandosi a guardarle entrambe, senza smettere di camminare. «Metterò in conto». Quindi ammiccò a Rebecca, sorridendo.

«È nuova?»

Myra annuì, portandosi una mano a coprire la bocca ancora piena.

«Appena assunta» biascicò. «Avanti, Jori... non vorrai rifiutare una misera pagnotta a due belle ragazze come noi? Consideralo un omaggio. Ti ringrazierò, in qualche modo».

Il ragazzo arrossì, quindi quasi inciampò, suscitando la risata allegra di Myra. Anche Rebecca sorrise, addentando la pagnotta.

«I maschi sono tutti degli stupidi» rise Myra. «Ma sono divertenti. Allora, sai già cosa devi fare?»

Rebecca ingollò l'ultimo boccone. Quella pagnotta era talmente buona che le aveva fatto venire le lacrime agli occhi.

«No, mi hanno detto che dovevo venire qui... per sapere...»

«Va bene, d'accordo» fece Myra, notando che Rebecca faceva fatica ad esprimersi. «Non c'è problema. Vieni con me, farò in modo di farti assegnare qualcosa di facile».

Piena di speranza, Rebecca seguì Myra tra le file di fornelli, scansando i cuochi che correvano da una parte all'altra, gridando ordini a volte quasi incomprensibili. Si udivano rincorrersi parole in lingue diverse, che Rebecca non aveva mai udito prima. Persone che provenivano da paesi diversi, e che parlavano tra loro in fretta, mischiavano tra loro la voce e il risultato era come il brontolio di un enorme calderone messo a bollire. Rebecca per un attimo fu sopraffatta da quella confusione di profumi, suoni e colori, tanto che ne uscì stordita.

«Qui è sempre così, ci farai l'abitudine» commentò Myra, notando l'espressione smarrita di Rebecca. «Agarthi è sempre stata al centro dell'Impero, almeno finché non è stata costretta a concedere l'indipendenza agli stati satellite, quindici anni fa. Fino ad allora, a palazzo si riversava gente che proveniva da tutte le parti del mondo. Questo è un po' quello che ne resta».

«Ora non più?» chiese Rebecca. Myra nicchiò, scostando una porta e cedendole il passo.

«Non proprio. Ultimamente le cose non vanno molto bene, in questo paese. Forse tu non sei informata, perché vieni da nord, ma...»

Myra tacque. Rivolse un'occhiata sospettosa a Rebecca, quindi arrossì.

«Niente, lascia stare. Eccoci qui. Siamo arrivati».

Rebecca entrò in una stanza in cui il silenzio che vi regnava era pari solo alla confusione delle cucine. Alcune domestiche si affaccendavano intorno a carrelli ricolmi di piatti e stoviglie, ma si muovevano con gesti eleganti e parsimoniosi. Le poche che parlavano tra loro, lo facevano bisbigliando.

«Qui starai tranquilla, e non dovrai parlare molto con nessuno. Tutto quello che dovrai fare, sarà portare uno di quei carrelli dove ti diranno... lasci la cena, ti inchini e te ne vai. Facile, semplice, nessun problema. Pensi di farcela?»

Rebecca annuì, grata.

«Bene, allora io vado» fece Myra. «Se hai bisogno, mi trovi in cucina».

«Aspetta!»

Myra si voltò, sorpresa. «Qualcosa non va?» chiese. Rebecca si morse il labbro, titubante.

«Chiedevo... ci sono bambini qui?»

«Bambini?»

Rebecca annuì. «Bambini. Hai visto bambini?»

Myra si voltò, facendosi pensierosa. «Ci sono diversi bambini, qui, sì. Ma perché me lo chiedi?»

Rebecca si rese conto di non avere una scusa pronta per quella domanda. Aveva parlato così, senza pensare.

«Io...»

Myra la fissò accigliandosi. Per un istante i suoi profondi occhi scuri si velarono di un'ombra e Rebecca impallidì. Non sapeva cosa fare. Doveva fidarsi, e dire tutto? Oppure confessare a quella sconosciuta la verità l'avrebbe condannata?

Alla fine, trasse un sospiro.

«Sto cercando bambina» ammise. «Figlia».

Myra impallidì.

«Tu... stai cercando tua... figlia?»

Rebecca fissò il volto sconvolto di Myra. Quindi fece un lieve cenno di assenso col capo.

«E... si trova qui?»

«Sì» disse Rebecca. «Credo...»

Myra spalancò la bocca. Si guardò attorno, incredula. Quindi «perché non me l'hai detto subito?» fece. «Hai idea del perché l'abbiano portata qui?»

«Io so che lei è con...» Rebecca esitò. Myra la incoraggiò a continuare. «...con Faloe Anuri. Lei ha preso mia figlia».

Myra lasciò cadere le braccia lungo il corpo, appoggiandosi al muro alle sue spalle.

«Tu... tu scherzi, non è vero?»

Rebecca negò con un cenno deciso. Myra si portò una mano alla bocca.

«Senti, dimenticatela. Se davvero si trova con Faloe Anuri, non puoi fare nulla».

«No, io...»

«Mi caccerai nei guai!» esalò Myra, tirandola in disparte. «Quella donna è terribile. Tu non la conosci, non ha emozioni. È più fredda del ghiaccio».

«Non mi interessa».

«Ma interessa a me!»

Myra si spazientì. Strinse le labbra, continuando a scuotere la testa.

«Come fai a dire che è stata lei?» sibilò, tesa. «Intendo... a rapire tua figlia».

«Ero lì» rispose Rebecca, decisa. «L'ha presa, io ero lì».

A quelle parole, Myra tacque. Rifletté un attimo, poi «sei decisa a trovarla...» chiese. Rebecca aggrondò.

«Lei è mia figlia!»

«... anche se questo significa morire?» concluse Myra, fissandola negli occhi. Rebecca non ebbe bisogno di rispondere. Myra scosse il capo, sorridendo.

«Ho capito» sospirò. «Ascolta, forse posso aiutarti, ma non sarà facile. Anuri alloggia nell'ala nobiliare del palazzo, negli alloggi degli ufficiali di stato maggiore. Per noi è impossibile andarci, hanno la loro servitù privata. Perciò, dovremo trovare un altro modo.

«Mi aiuterai?»

Myra si mordicchiò il labbro. Quindi «certo» fece. «Come potrei non farlo?»

Rebecca si sentì vicina alle lacrime.

«Grazie» fece, stringendole entrambe le mani. Myra sorrise.

«Aspetta a ringraziare, prima dobbiamo riuscire a trovare tua figlia senza rimetterci la pelle. Poi troverai il modo per ripagarmi. Ma adesso vai, e mi raccomando: aspetta che sia io a dirti qualcosa. Non fare nulla di testa tua, perché se ti trovano io sarò costretta a far finta di non sapere nulla del nostro piano. Nel frattempo, cercherò di scoprire qualcosa, va bene?»

«Sì» rispose Rebecca. Myra la salutò, carezzandole il braccio.

«Cerca solo di non metterti nei guai» fece. «Promesso?»

Rebecca annuì. Quando Myra se ne fu andata, si voltò, dirigendosi verso uno dei carrelli che attendeva di essere consegnato ai piani superiori. Mentre finivano di riempirlo per lei, Rebecca continuava a pensare alla promessa che aveva appena fatto a Myra.

Si trattava di una promessa che non era affatto sicura di riuscire a mantenere.

 

 

*

 

 

Rebecca contò le porte che aveva già passato: tre, quattro, cinque. Alla sesta, bussò. Le avevano detto di portare il vassoio con gli infusi e i dolci nello ''studio azzurro''. Rebecca non sapeva dove si trovasse lo studio azzurro, quindi aveva chiesto a Jori, il garzone del fornaio.

«Primo piano, sempre dritto, sesta porta. Consegna importante, eh?»

Rebecca non aveva capito cosa intendesse Jori con quel ''consegna importante'', né aveva colto l'allusione della sua smorfia sorniona. Però lo ringraziò di cuore e il ragazzo sembrò particolarmente contento di ricevere quel suo sorriso. Aveva ragione Myra, pensò Rebecca. Gli uomini sono spesso molto stupidi.

Rebecca attese, ma nessuno le aprì. Si avvicinò alla porta, posandovi un orecchio. Sentiva parlare distintamente, perciò era evidente che qualcuno si trovasse nella stanza.

A quel punto, si sentiva in difficoltà. Cosa avrebbe dovuto fare? Doveva bussare di nuovo? O forse piuttosto entrare? Nessuno le aveva detto cosa prevedeva l'etichetta di corte, in casi come quello: e lei era così tesa all'idea di non voler creare problemi già dal primo giorno, che se ne restò impalata, senza saper cosa fare.

Alla fine, prese coraggio e bussò una seconda volta, più forte. Che andasse pure come doveva andare, se veniva ripresa avrebbe trovato il modo di giustificare la sua inesperienza. O almeno sperava.

Questa volta non dovette attendere molto. Udì la voce di qualcuno farsi più chiara, insieme al suono di passi sempre più vicini. Quindi la porta si aprì.

«... comunque sia, io aspetterei a venderla. Non si sa mai che ti venga il desiderio di ritirarti in campagna, prima o poi».

Rebecca si inchinò, aspettando sulla soglia. Quando alzò gli occhi, vide il volto sorridente di un uomo sui sessant'anni, alto e distinto, dai capelli spruzzati di grigio e perfettamente pettinati con una scriminatura laterale. L'uomo si fece da parte, invitandola a entrare.

«Non stia sulla porta, la prego».

Rebecca arrossì. L'uomo indossava un'uniforme nera, con galloni dorati intorno al colletto rigido e mostrine di color rosso rubino alle spalle. La mancanza di onorificenze e la semplicità ed eleganza della sua uniforme dimostravano un rango elevato, di quelli che non necessitano particolari segni di riconoscimento esteriori.

Rebecca sistemò il carrello accanto al tavolo, in silenzio; quindi cominciò a sistemare le tazze e i piattini. Intanto, si guardava intorno. Lo studio era una piccola e graziosa stanza dalle pareti tinteggiate di un azzurro glauco, arredata a biblioteca e con un tavolo di velluto a lato, per il gioco delle carte. Al centro, vi si trovava un tavolino contornato da poltroncine in tinta con le pareti, dallo schienale in legno intarsiato, particolarmente graziose ed eleganti. Rebecca posò gli occhi sul profilo leggermente in ombra e distante dell'altro uomo che occupava la stanza. Le dava le spalle, mentre osservava qualcosa fuori dalla finestra, tenendo scostata con una mano la tenda di raso. Con l'altra reggeva un bicchiere colmo a metà di liquore ambrato, che lui agitava lentamente lasciando che si illuminasse ai raggi obliqui del sole. Rebecca era perplessa. Quell'uomo le ricordava qualcuno, ma non sapeva chi.

«Lei dev'essere nuova» fece l'uomo che le aveva aperto, accomodandosi in poltrona e fissando il volto teso di Rebecca. «Non credo di ricordarmi di lei...»

Rebecca fece per rispondere qualcosa, ma l'uomo che le dava le spalle la precedette.

«Dovresti smetterla con questa tua mania di intrattenerti con i domestici, Plutarco. La trovo volgare».

Rebecca alzò gli occhi, smarrita. Quella voce, l'aveva già sentita.

«Mio carissimo Atys, a volte riesci a renderti quasi odioso. Non so da chi tu abbia preso questa tua spocchia, ma di certo io non te l'ho insegnata».

L'uomo alla finestra scrollò le spalle, quindi tracannò l'ultimo sorso dal bicchiere che teneva in mano. Si voltò, e per la prima volta Rebecca riuscì a vederne distintamente il volto.

Si trattava di Atys Gorall, l'uomo che aveva rapito Nadia e l'aveva portata su Atlantide. Rebecca abbassò prontamente gli occhi, cominciando a tremare.

«Il fatto che siano domestici, non comporta il fatto che debbano essere trattati senza riguardo. Sono pur sempre uomini come noi» commentò Plutarco. Atys sbuffò.

«Sono esseri umani, non uomini. Questa gente è nata per servirci, e non ho tempo da perdere con loro. Parlare con loro sarebbe come mettersi a parlare con un animale».

Plutarco sospirò. Accavallò le gambe, portandosi le mani giunte alle labbra.

«E cosa diresti» fece, meditabondo «se ti dicessi che anche io sono uno di quegli animali

Rebecca sollevò un poco gli occhi. Poteva sentire la tensione presente nella stanza, mentre posava delicatamente i piattini sul tavolo. Per quanto cercasse di non far rumore, ogni suono che emetteva sembrava propagarsi come l'eco di uno sparo.

Alla fine, Atys scoppiò in una sonora risata.

«Già» fece, «davvero divertente».

«Poteri esserlo» insistette Plutarco, che sembrava divertito. «Magari lo sono. Sono un essere umano».

«Ammesso che tu lo sia» fece Atys, che dal tono di voce che aveva assunto sembrava voler concedere a Plutarco di stare al suo gioco, sebbene lo trovasse stupido «sei anche il mio patrigno. E servi Atlantide da tutta la vita. Questo ti renderebbe comunque diverso da ogni altra...»

«Ogni altra?»

«Feccia».

Rebecca si lasciò sfuggire un piattino, che cadde con un certo fragore sul tavolo. Plutarco le andò in soccorso, aiutandola a raccogliere le briciole di dolce che si erano rovesciate.

«Mi dispiace, io...» mormorò. Plutarco sorrise.

«Non deve preoccuparsi, non è successo nulla».

«Ora ti metti anche a fare il suo lavoro! Lascia che se ne occupi lei, no?»

Plutarco non prestò attenzione a quanto Atys stava dicendo. Finì di pulire il tavolo, quindi piegò il fazzoletto e lo posò di lato.

«Lascia che ti dica una cosa, figliolo» disse. «Il fatto che io sia il tuo patrigno, e che serva nell'esercito imperiale da più di quarant'anni, non mi rende di fatto migliore di chiunque altro. E anche se a te capita di dimenticarlo, io non posso dimenticarlo».

Atys fissò l'uomo senza dire una parola.

«E io non posso dimenticare quello che gli esseri umani hanno fatto alla mia famiglia» esalò. «Perciò, ti prego di non insistere con questa discussione, perché io non cambierò idea sugli esseri umani».

«In tutti questi anni non sono mai riuscito a mettere un freno a questo tuo odio sconsiderato» mormorò Plutarco, contrito. «Mi dispiace. Avrei dovuto fare di più».

«Tu hai fatto anche troppo. Ti sei preso cura di me quando non avevo più nessuno, e questo proprio a causa di quella feccia che tu continui a difendere. Quegli schifosi ribelli che rubano, bruciano, uccidono e stuprano, devastando tutto quello che incontrano. Tu non sai...»

«Io non so?»

«Tu non sai cosa ho visto!» ringhiò Atys. «Mentre tu sei qui a proteggere la nostra Regina da qualche... chiacchiera di palazzo, io sono là fuori, a proteggerla da chi la vorrebbe morta. La guerra è qualcosa di diverso dal fare da autista tra il Palazzo e la Camera di Consiglio!»

Plutarco tacque. Rebecca avrebbe voluto fare in modo di andarsene, ma non trovava il coraggio di muoversi. Continuò ad armeggiare sul vassoio, compiendo azioni senza senso, come ordinare le stoviglie sul carrello.

«Mi spiace che la pensi così» fece Plutarco, rassegnato. «La guerra va così male?»

Atys sospirò, contento che il suo patrigno avesse cambiato improvvisamente argomento.

«Sono passati mesi, ormai, da quando mi hanno messo a capo delle operazioni. Eppure, non sono riuscito a cavare un ragno dal buco».

«Nessuna notizia sui ribelli?»

Rebecca allungò sollevata a Plutarco una tazza di tè. Lui la ringraziò con un cenno.

«So che esiste un campo, ma non sono ancora riuscito a scovarlo. Il capo dei ribelli si nasconde ancora, e sembra che si sposti da villaggio in villaggio periodicamente. Ma trovare qualcuno disposto a tradirlo è praticamente impossibile. Quella dannata plebaglia sta tutta dalla sua parte».

«Sta portando loro una speranza» fece Plutarco, sorseggiando il tè. «A volte, la speranza è la cosa più importante di tutte».

«Dobbiamo fermarli, prima che cose come quelle che sono successe oggi dilaghino in tutto il paese». Atys fissò il patrigno. «La Regina si è finalmente convinta ad usare le Pietre?»

Rebecca ammutolì. Plutarco posò la tazza sul piatto.

«Dovresti chiederlo a lei» fece. «Onestamente, trovo che sarebbe un'ipotesi da scongiurare».

«Quindi preferiresti continuare così?»

«Se si tratta di scegliere tra distruggere in un secondo mezza civiltà di questo pianeta o continuare a lottare per ottenere la pace per via diplomatica, sì. Credo che non avrei dubbi».

Atys si rabbuiò. Rebecca lo fissò incuriosita, quindi incrociò casualmente il suo sguardo. Per un attimo i loro occhi si sfiorarono e lei si accorse troppo tardi che lui si era messo a fissarla. Pur nella penombra, sembrava che lui avesse colto nel suo volto qualcosa di familiare.

«Tu» mormorò «ho come l'impressione di averti già visto...»

Rebecca si irrigidì. Fece per indietreggiare, ma Atys si avvicinò deciso e la trascinò alla luce. Quindi le afferrò il mento e la costrinse a guardarlo negli occhi.

«Dimmi, dov'è che ti ho già visto?» sussurrò. Rebecca fissò in silenzio i suoi occhi gelidi, che vagavano incerti sul suo volto, scrutandola avidi come alla ricerca di un particolare a cui appigliarsi. Poi, Plutarco mise fine all'angoscia di Rebecca, liberandola dalla presa di Gorall.

«Atys, ora basta» intervenne Plutarco. «Stai diventando paranoico».

Atys parve come risvegliarsi. Fissò il suo patrigno, che gli teneva la mano sulla spalla e lo guardava preoccupato. Quindi lasciò andare Rebecca, che per poco non si sentì svenire.

«Hai ragione» fece Atys. «Non so cosa mi stia prendendo. Ormai vedo nemici ovunque».

Plutarco ammiccò a Rebecca, che si allontanò.

«Manda via questa serva» fece Atys brusco, rivolgendosi al suo patrigno e versandosi dell'altro liquore, che trangugiò d'un fiato. «Sono stanco, e voglio parlare un po' con te da solo».

Plutarco, in piedi a poca distanza da lei, le indicò la porta con un cenno torvo del capo.

Rebecca si sollevò silenziosamente, quindi agguantò il carrello e inforcò l'uscita, gettando un'ultima occhiata di sfuggita ai due. Li vide avvolti dalla penombra, mentre le davano entrambi le spalle. Erano vicini, ma sembravano per qualche ragione incredibilmente lontani tra loro. Poi la porta si chiuse, e Rebecca si ritrovò di nuovo sola, nel corridoio, lontana da tutti. Era stata davvero a un passo dalla morte, ed era riuscita in qualche modo a scamparla. Ma ancora faceva fatica a rendersene conto.

 

 

*

 

 

Rebecca riconsegnò il carrello, carico di stoviglie sporche. Ancora provata, si diresse verso le cucine, slacciandosi il grembiule e la cuffia. Qualcuno le lanciò un'occhiata malevola, così lei si allontanò in fretta, sgusciando via lungo la parete. Quando finalmente fu all'esterno, e la fresca aria della sera che si respirava nel piccolo cortile interno del magazzino l'avvolse facendola rabbrividire piacevolmente, lei realizzò per la prima volta quanto fosse stanca. Non era tanto per il lavoro, che non le era certo mancato; quanto piuttosto per le emozioni che aveva dovuto provare. Incontrare Atys, correre il pericolo di essere riconosciuta e imprigionata e di non poter più ritrovare Marie... Tutto questo l'aveva letteralmente prosciugata, tanto da lasciarla con l'energia appena sufficiente a reggersi in piedi.

Era stata fortunata. Per qualche ragione, Atys sembrava non ricordarsi di lei. Erano passati mesi, è vero; e non avevano mai avuto un vero e proprio confronto diretto. Tuttavia, Rebecca sentiva che era stata davvero fortunata. Non ci teneva a ripetere una simile esperienza, e da quel giorno in avanti avrebbe fatto bene a stare molto attenta.

Era stato anche merito di quell'uomo, Plutarco, se l'aveva scampata. Se non fosse intervenuto a distrarre Atys, questi con ogni probabilità sarebbe riuscito a ricordarsi di lei. E allora le cose sarebbero andate in modo molto diverso.

«Sei qui! Ti ho cercato dappertutto!»

Rebecca si volse. Myra era sulla soglia, ferma, che la fissava sorridente; quindi la ragazza varcò l'uscio e la raggiunse, mettendosi al suo fianco e stirandosi, traendo un profondo respiro. Rebecca la vide frugare nelle tasche del grembiule, da dove tirò fuori due pesche. Ne offrì una a Rebecca, che la addentò avida. Era dolce e succosa. Rebecca sentì la polpa che le si scioglieva in bocca e mugolò di piacere.

«Dovevi avere fame, vero?» chiese Myra, mordendo la pesca. Rebecca sorrise.

«Un po'».

Tacquero entrambe. Quindi Myra rivolse a Rebecca un'occhiata interlocutoria.

«Ho provato a cercare in giro» fece. Rebecca drizzò le orecchie. «Mi spiace, ma per il momento non sono riuscita a trovare niente. Sto ancora pensando a un modo per farti entrare negli alloggi degli ufficiali, ma ci vorrà del tempo. Spero che tu non abbia fretta».

«Vorrei fare presto» commentò Rebecca. Myra inarcò un sopracciglio.

«Pure? Ho capito, come non detto...»

Rebecca succhiò il nocciolo, quindi lo gettò nell'erba. Myra fece altrettanto, pulendosi le mani nel grembiule.

«Domani vedrò cosa posso fare. Per il momento, però, tu continua a non farti notare. Se vogliamo che il piano funzioni, bisogna portare pazienza. Lo capisci?»

Rebecca annuì, sebbene poco convinta.

«Vieni» sorrise Myra, ammiccandole. «È avanzata della roba che ci possiamo dividere».

Rebecca seguì Myra in cucina, dove prima di smontare dal turno i domestici e gli inservienti si divisero tra loro quanto avanzato quel giorno. Ognuno aveva diritto a una parte in base al suo rango, ma sorprendentemente a Rebecca capitò molto più di quanto avesse immaginato. In un fagotto riuscì infatti a infilare mezza dozzina di mele e altrettante pagnotte, più una mezza forma di formaggio.

Myra e Rebecca si allontanarono insieme, dandosi appuntamento a palazzo per il giorno seguente. Myra consegnò a Rebecca il passi da mostrare alle guardie; poi, una volta fuori dai cancelli, si allontanò salutandola. Rebecca fece altrettanto, voltando le spalle e immergendosi nei luminosi viali che si aprivano di fronte alla Reggia.

Dopo qualche centinaio di metri, Rebecca lasciò i viali del centro, diretta al mercato. La strada verso quella che Rebecca poteva chiamare ''casa'' era come sempre buia, e completamente deserta. Il quartiere del mercato la notte era tranquillo, perché pattugliato da cima a fondo dalla gendarmeria, che teneva d'occhio i vari negozi e agenzie commerciali che si trovavano lungo gli ampi viali ombreggiati, che di giorno suscitavano sempre una certa emozione caratteristica. Rebecca sbadigliò, infilando una stradina che si dipartiva dalla strada principale, e che costeggiava l'edificio dell'arena. Delle scale ripide e consumate conducevano ad un anfratto sotto il livello della strada. Rebecca vi si infilò, raggiungendo una porta sudicia. Busso due volte, attese, quindi bussò una terza. A quel punto, la porta si apri.

«Fatto tardi, oggi» le disse una voce pungente. Rebecca annuì, svogliata.

«Sono stata a palazzo» mormorò. «Sono riuscita a entrare».

La porta si richiuse con un cigolio, e l'uomo che l'aveva aperta, un tipo massiccio e dalla testa completamente rasata, poco più basso di Rebecca, le trotterellò dietro.

«Quindi hai avuto fortuna?»

Rebecca sorrise. Vide che l'uomo fissava curioso il fagotto che lei teneva tra le braccia e lei glielo porse.

«Cibo dalla cucina» fece. «Possiamo dividere».

«Fantastico!»

L'uomo strinse il fagotto e galoppò via avanti a lei, voltandosi a sorriderle. Dalle labbra fuoriuscirono dei denti sghembi e sbeccati, ma stranamente bianchissimi.

«Speriamo sia roba buona» gridò, allegro. Rebecca ammiccò.

«Tutta buona, Hatto».

Rebecca udì i passi di Hatto e le sue risate risuonare lungo le scale che conducevano agli alloggi degli ''atleti''. Ufficialmente, le gare di lotta erano state bandite dalla nuova Regina, che aveva chiuso l'arena perché considerava quegli spettacoli troppo violenti; ma la lotta nelle arene era una tradizione, ad Agarthi, e nonostante il divieto continuava a vivere in clandestinità. Hatto era il responsabile degli atleti. Un gruppo di mercanti senza scrupoli gli affidava schiavi acquistati al mercato di superficie, che lui doveva allenare e preparare ai giochi, in segreto. Spesso le gare si tenevano all'esterno, per evitare guai con la gendarmeria, oppure in qualche locale segreto nei bassifondi della città. Anche Hatto continuava a vivere nell'arena in clandestinità, allenando gli atleti che gli venivano inviati sotto la protezione discreta dei potenti della città.

Rebecca aveva conosciuto Hatto e sua moglie per caso, otto mesi prima. Li aveva incontrati mentre vagava al mercato, smarrita: e quando loro avevano capito di trovarsi di fronte a una straniera senza un soldo, affamata e sola, le avevano offerto il loro aiuto. Rebecca non sapeva se fidarsi di quell'uomo strano, basso, tarchiato e pieno di muscoli, dall'aspetto simile a quello di un orso e dal muso di un porcospino. Ma non aveva scelta. Era sola, e se non avesse accettato il suo aiuto, probabilmente avrebbe rischiato di morire di fame, o di essere imprigionata o aggredita. E poi, qualcosa nei modi inaspettatamente gentili di Hatto e della sua consorte l'aveva convinta che non aveva nulla da temere. Loro le avevano offerto un luogo dove stare, e in cambio lei doveva pulire e preoccuparsi dei pasti per ''gli atleti''. Un'occupazione che, nonostante tutto, a Rebecca riusciva piuttosto bene.

La cucina di Rebecca era famosa per non essere gradevole agli occhi, ma gustosa al palato. C'era di buono che quella gente buttava giù di tutto, senza stare troppo a soffermarsi sull'aspetto. Affamati com'erano, avrebbero divorato qualsiasi cosa, purché commestibile.

Rebecca raggiunse le stanze di allenamento, dove sui pagliericci stavano distesi cinque o sei robusti giovanotti. Erano tutti allegri e quando videro Rebecca la salutarono con grida di esultanza. Rebecca rispose al loro saluto sorridendo. Evidentemente erano molto contenti di quello spuntino inaspettato.

«Tieni, danne un po' a quelli nuovi» fece Hatto, mettendole tra le mani due pagnotte e due mele e indicandole un angolo della stanza. Rebecca fissò le due sagome che si intravedevano al buio.

«Nuovi?» chiese. «Quando sono arrivati?»

«Li hanno portati oggi» rispose Hatto. «Sono forestieri, come te. Non so da dove vengono, ma non sono messi bene».

Rebecca si avvicinò ai due. Li sentì tossire e vide che erano troppo stanchi persino per alzare la testa. A vederli così, provò una fitta di compassione.

«Tenete» mormorò, chinandosi e porgendo loro il pane e le mele. «Sono per voi».

Uno dei due alzò lentamente la testa, mentre l'altro continuava a dormire. Quindi, dopo un istante, allungò la mano e afferrò la pagnotta.

«Thanks, sister».

Rebecca impallidì. Per poco non lanciò un grido, portandosi le mani alle labbra.

«Non può essere» fece. «Tu...»

L'uomo nell'ombra si riscosse. Tossì, agitandosi, quindi si fece largo fino alla luce.

«Rebecca?»

Rebecca fissò incredula il volto di quell'uomo, quindi scoppiò in lacrime. Hatto, richiamato dal quel suo pianto improvviso, accorse immediatamente, preoccupato che le fosse successo qualcosa. Quando vide che Rebecca piangeva tra le braccia del nuovo arrivato, stringendosi a lui, li fissò entrambi perplesso.

«Lo conosci?» chiese.

«Sì, lo conosco» rispose Rebecca, tra i singhiozzi. «Lui è Sanson! Ho ritrovato il mio Sanson!»

  
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