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Autore: Sumi_    29/09/2012    0 recensioni
Questa è la storia di come non ci si renda mai conto di essere un personaggio secondario finché non si arriva all'ultima pagina della propria vita.
Genere: Slice of life, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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And the sun will set for you.

Non fu una carezza, nè un lieve bacio sul volto a svegliarmi.
Fu il freddo che mi penetrava nelle ossa, la solitudine che mi restringeva i capillari, una strana umidità che mi faceva raggrinzire i polpastrelli. In breve tempo, come un'orchestra di strumenti perfettamente coordinati, lenzuola e coperte si congelarono, un raggio di luce accecante penetrò dalle tapparelle e il cuscino si irrigidì quasi come se tutte le piume al suo interno si fossero improvvisamente tramutate in piombo. Una velata traccia di ostinazione, residuo delle antiche battaglie infantili per il sonno mattutino, mi istigò a girarmi su un fianco, poi sull'altro. Infine, grazie anche all'incessante trillo della sveglia, recepii il messaggio e alzai bandiera bianca. Era ora di svegliarmi.
Mi sollevai stiracchiandomi. Altro giorno, altri impegni.
Stizzita, non riuscii ad evitare di chiedermi anche oggi il perché.
Perché svegliarsi presto, perché mangiare sano, perché essere gentili e simpatici, perché studiare?
Un mondo senza orari da rispettare, ecco cosa avrebbe fatto al caso mio!
«Ah, basta utopie! Chi vuol muovere il mondo prima muova se stesso(*)!» esclamai con decisione, piegando ordinatamente le lenzuola e sistemandole in un angolo del letto assieme al cuscino.
Mi vestii in fretta e andai a lavarmi i denti nel bagno vicino alla cucina. Ormai conoscevo quella casa come le mie tasche. Un po' più sveglia di prima, mi diressi in cucina, dove accesi distrattamente la televisione e cercai tra i cassetti qualcosa da mangiare. Come al solito c'erano merendine ovunque, ma ben pochi biscotti. Ne presi un paio e andai a sedermi sul divano, ascoltando il telegiornale soltanto a metà mentre cancellavo i messaggi vecchi dal cellulare.
Torniamo a parlare dell'omicidio della povera Sarah Scazzi. Le indagini proseguono e numerosi indizi portano a sospettare dello zio. La cugina della giovane vittima piange disperata di fronte alla duplice tragedia. La madre di Sara chiede giustizia, ma ancora non vi è nulla di certo.” Breve pausa. “...Ma parliamo ora di quel che è successo nel Safari di Ottawa, in Canada, dove un tenero cucciolo di leone ha fatto amicizia con la piccola scimmietta Sally. Prego, signor Oldàni, ci racconti di questo caso più unico che raro...”
«Perché non vai su Mtv? È molto più coerente di queste porcherie.»
«Giusto.» annuii, bloccando i tasti del cellulare. Poi, cambiando canale, mi voltai verso Flynn, feci un sonoro sbadiglio e salutai con un pacato: « Good morning, darling. Dormito bene?»
«Egregiamente guarda.» borbottò sarcasticamente, grattandosi la testa. Aveva i capelli scompigliati e le labbra rosse. «I mostri hanno russato furiosamente per tutta la notte.»
«Rimango sempre profondamente stupita dalla delicatezza con cui parli dei tuoi fratelli, sai?»
«Ah, dici così perché sei figlia unica, Drew, ma se anche tu dovessi fare da babysitter a due adolescenti in calore proprio quando dovresti goderti le gioie della giovinezza, ti assicuro che non avresti di loro un'idea tanto diversa dalla mia.»
Ridacchiai. «Probabile.» ammisi. «Ma quanto faceva schifo il film di ieri sera? Non so quando ti sei addormentata tu, ma io dopo la scena della chitarra non sono riuscita a tenere gli occhi aperti. Ho persino dimenticato di chiudere la finestra!»
«Io ho resistito un po' di più, ma hai ragione, era davvero pessimo! Comunque scusa, non mi sono ricordata di chiudertela neanche io...»
«Ma va. Colpa di Simòn. Ci ha vietato di guardare Harry Potter e poi ci ha anche dato buca, roba da matti!»
«Già... Oh! Ehi, Bruno Mars!» esclamò, mettendo due tazze di latte nel microonde e lanciandosi poi sul divano per alzare il volume della televisione. “Just the way you are” era in onda.
La osservai liquefarsi davanti allo schermo con un sorriso ebete sul volto. Irrecuperabile.
Era ancora in pigiama, spettinata e con una macchia di dentifricio sulla guancia.
Come la maggior parte delle ragazze della nostra età, Flynn alternava momenti di infaticabile autostima a periodi di completo disprezzo per il suo aspetto fisico. Con la noncuranza tipica di chi non ha mai avuto seri problemi di peso, Flynn divorava qualsiasi cosa inneggiando il suo metabolismo rapido. Non faceva sport, non mangiava sano, non usava particolari prodotti contro l'acne, eppure aveva la pelle liscia come quella di un bambino e non un rotolo di ciccia sull'addome. E continuava a non piacersi, nonostante tutto. Non la capivo.
Ai miei occhi era bella come poche, con quelle sue guance paffute e le sue ciglia lunghe. Ma si sa, la bellezza delle cose esiste nella mente di chi le osserva(**). E infatti non pretendevo di essere obiettiva nel giudicare il suo aspetto, ero piuttosto conscia che probabilmente la mia ammirazione non si limitava alla parte esteriore di Flynn ma anche al suo carattere, alle sue abitudini, ai suoi difetti. La ammiravo nel suo complesso, per tutti quei dettagli che l'avevano resa un'amica insostituibile. Ma al tempo stesso non potevo fare a meno di domandarmi come tutte quelle cose non avessero ripercussioni sull'apparenza fisica. Com'è possibile che ciò che induce un sorriso non caratterizzi il sorriso stesso?
Flynn si voltò verso di me, emettendo un suono nasale per domandarmi cosa avessi.
«Dimmi» dissi allora, distrattamente, finendo di comporre il messaggio di buon giorno per Simòn. «Io come sono?»
«Che domanda è “come sono”? Sei come sei, no?» rispose senza pensare, scuotendo il capo.
«No, sul serio, come sono agli occhi di chi non mi conosce? Come mi vede chi non può interpretare i miei pensieri come fate tu e Simòn?»
Flynn si alzò e si incamminò verso il microonde. Girata di spalle, mi chiese il perché della domanda.
«Così. Ogni tanto quando sono all'Opera mi viene da chiedermelo, tutto qui.»
«Per Eprail? Vuoi sapere come ti vede lui?»
Sbuffai. «Ma anche no. Te l'ho detto, non c'è un motivo preciso. Me lo chiedo e basta.»
Mi fece cenno di raggiungerla in cucina e posò le tazze di latte sul ripiano più vicino al cassetto delle pietanze zuccherate. Lo aprì, tirando fuori caffè, zucchero e merendine. Poi si ricordò della mia preferenza nei confronti dei biscotti e tirò fuori anche quelli, senza però rimettere via la merendina che aveva preso per me. Certamente avrebbe mangiato anche quella.
«Dunque.» sospirò, cominciando a preparare il cappuccino. Io attesi: sentivo di pretendere una risposta di un certo tipo, ma non avevo ben chiaro quale fosse esattamente. Forse volevo solo che confermasse la mia opinione. Quando il silenzio cominciava ormai a diventare innaturale, Flynn mi porse la tazza fumante e finalmente rispose.
«Sembri normale, Drew. Non hai niente che non va, all'apparenza. Non sei brutta, non sei antipatica, non hai la puzza sotto al naso. Non credo che chi non ti conosce si ponga ulteriori quesiti, dopo aver appurato tutto questo. Io non mi chiedo altro, di solito. Mi basta avere un'idea generale di chi ho di fronte, il resto viene dopo, no?»
«Tu dici? Io quando conosco una persona voglio sapere tutto, di questa. Voglio cogliere le sue paure da come cammina, i suoi interessi da come parla, la sua spontaneità da come mi guarda.» asserii, convinta. «Non potrei accontentarmi di niente di meno, credo.»
Flynn ridacchiò, poggiando la tazza sul ripiano. «Tu sei strana, ecco perché.»
Sgranai gli occhi, fingendomi offesa. «Ma se hai appena detto che sono normale!»
«Ho detto che sembri normale, non che lo sei. Ed è vero: finché tieni la bocca chiusa, non c'è niente che non vada in te. È appena dai aria alle corde vocali che si scatena l'inferno.»
«Stai dicendo che sono una chiacchierona? Io? Questa la dico a Simòn, giuro.»
«Sto dicendo che ragioni come una che non ha proprio tutte le rotelle a posto.»
Scoppiai a ridere, non sapendo se sentirmi lusingata o insultata. Per sicurezza sbottai: «Che stronza!»
«Senti chi parla.» redarguì Fynn. «Ci vai all'Opera, oggi? Ho bisogno che mi presenti quella tua amica, quella che ora è bionda. Com'è che si chiama?»
«Alba dici? Perché?»
«Voglio chiederle di farmi da modella per il concorso di fotografia di cui ti parlavo.»
«Di cui ti parlavo io, vorrai dire.» la corressi, sventolandole l'indice davanti al naso. «Senti, ma hai una bella gnoccona con “non proprio tutte le rotella a posto” come me a tua disposizione, perché non ne approfitti?»
«Perché la mia psicopatica preferita non ha due metri e mezzo di gambe, Alba sì.»
Finsi di essere stata trafitta da una freccia letale e mi accasciai sul divano. «Colpita e affondata.»
«Vado a cambiarmi e a svegliare quei due mostri. Mi dai una mano a sistemare poi?»
«Tu mi accompagni all'Opera? Non credo di poter chiedere ad Alba il suo numero senza immaginarmela con le gambe che le scendono direttamente dal collo.»
«Accordato.» disse ridacchiando. «Ora aiutami.»
 
Scolata la pasta e aggiunto del pesto, chiamai i fratelli di Flynn per dire loro che il pranzo era pronto.
Dopo altri dieci richiami sullo stesso tono, questi finalmente si presentarono con ancora i joystick in mano. Giovanni e Alessandro, rispettivamente 13 e 14 anni. Irresponsabili, capricciosi e biondissimi. Niente di più diverso da Flynn, che era tutta suo padre.
Mentre i due marmocchi pranzavano, raccolsi le mie cose e annunciai a Flynn che sarei andata a casa per cambiarmi e che ci saremmo viste più tardi.
«Va bene, vengo a citofonarti tra un'oretta?»
«Ci sta. A dopo! Ciao ragazzi!» salutai, e senza attendere risposta sgusciai fuori chiudendomi la porta d'ingresso alle spalle.
Mentre ero in attesa dell'ascensore, sentii un rumore insistente di chiavi alle mie spalle e mi voltai per vedere un ragazzo alle prese con la serratura della porta di fianco a quella di Flynn. Lo osservai per qualche istante, per vedere se ce l'avrebbe fatta. Poi, proprio quando il campanello dell'ascensore segnalò il suo arrivo, chiesi al ragazzo se avesse bisogno di una mano.
Preso alla sprovvista, sussultò leggermente per poi sorridere imbarazzato, le sopracciglia folte incurvate verso l'alto, la fronte aggrottata.
«Grazie» disse porgendomi le chiavi.
«Figurati» risposi gentilmente, facendo un passo avanti e infilando la chiave nella toppa. «Allora, nuova serratura o nuovo inquilino?»
Esitò, poi sembrò sciogliersi.
«Nuovo inquilino, più o meno. Qui ci abita mio papà.»
«Genitori divorziati?»
«Già.»
Sospirai. «Ho presente.»
La chiave girò nella serratura fino ad un certo punto, dove si arrestò. Allora, come mi aveva insegnato a fare Flynn con la porta di casa sua, tirai la maniglia verso di me con forza e premetti una lieve pressione sulla chiave, che concluse fluidamente il suo percorso. Uno schiocco sonoro e il cigolio tipico del ferro arrugginito, poi lo schiudersi del varco. Con un sorriso soddisfatto, restituii le chiavi al ragazzo, guardando distrattamente la sua espressione sorpresa e al tempo stesso riconoscente. Doveva essere più giovane di me di un paio d'anni, ad occhio e croce.
Ricordandomi di avere poco tempo per prepararmi prima dell'incontro con Flynn, mi riscossi e agitando la mano in segno di saluto entrai nell'ascensore.
«Ehi. Lieta di esserti stata utile!»
Come ricordandosi all'improvviso di qualcosa di importante, il ragazzo sobbalzò ed escalmò: «Grazie mille dell'aiuto!»
«Non c'è di chè!» risposi mentre le porte della cabina si chiudevano sul mio volto, separandomi dal fortunato beneficiario della mia buona azione giornaliera.
Adagiandomi contro la parete di fronte alla pulsantiera, sospirai senza pensieri ed infilai le cuffie del walkman per accogliere le note possenti di “Shadow of the Day” dei Linkin Park.
 
In casa c'era soltanto la mamma.
Entrai senza togliere le cuffie, cantando a squarciagola pur sapendo che mi avrebbe ripreso. Certe volte, non proprio raramente, mi piaceva scambiare qualche battibecco con lei, soprattutto quando era serena ed in vena di chiacchiere.  
«And the shaaadow of the daaaaayy! Will embraaaace the world in gree-eeey!! And the suuuuuuun will set for youuuuuu!» 
 
«Cielo, Chandra! Ho sempre più l'impressione di aver partorito una radio invece che una bambina.»
Ridacchiai. «Ringrazia che non hai avuto altri figli, allora, perché secondo il quadro di Punnet le possibilità di partorire anche un impianto acustico erano considerevoli!»
«Fai poco la spiritosa.» mi redarguì con un sorriso.
«Oh, no, se non sperimento le mie nuove battute con te, con chi vuoi che lo faccia, mammina?»
Lei scosse il capo ridendo, poi si tolse il grembiule e si slegò la coda.
«Vai già via?» domandai dopo qualche istante, le spalle che scattavano già verso il basso, un leggero tremore al labbro inferiore.
«Ho dei documenti da stampare a lavoro e tuo padre mi ha appena chiamata per dirmi che ha trovato un volo in anticipo di due ore rispetto a quello che progettavamo di prendere. Bella sfiga eh?»
Tacqui.
Lei cominciò a raccattare scarpe, giacca, borsa e altre cose che aveva lasciato in giro.
«Ad ogni modo ti ho preparato la cena per stasera e il pranzo e la cena per domani, quindi almeno per questi due giorni sei a posto. Per il resto chiederò a Giulietta di darti una mano, okay?»
«Mamma, so cucinare.»
«Giusto. Allora non la chiamo, meglio così.» annuì, sorridendo e passandomi accanto.
«Mamma..»
«Ah, giusto!» mi interruppe, tornando indietro e prendendomi il volto tra le mani. «Tuo padre mi ha detto di darti due grossi...» mi schiccò due baci sulle guance «...bacioni e di dirti che ci teneva tantissimo a vederti ma non..»
«Sì, sì, non c'è tempo, lo so. Va bene, okay, lo capisco.» la rassicurai sorridendo.
Mia madre mi guardò negli occhi accarezzandomi i capelli, poi piegò un angolo della bocca verso l'alto con uno sguardo intenerito e dispiaciuto e capii al volo cosa stesse facendo. Lo faceva sempre.
Mi guardava negli occhi, mi accarezzava e mi faceva sentire come se capisse ogni mio pensiero. Come se volesse consolarmi, ma non le fosse concesso. Come se non potesse nulla contro ciò che stava succedendo alla nostra famiglia. Ma poteva.
Ero io l'adolescente che non veniva presa sul serio, lei invece era una donna con una carriera lavorativa straordinaria che aveva sudato per arrivare dove era adesso. Cosa c'era di difficile nell'affrontare faccia a faccia un problema come il nostro, che richiedeva soltanto un po' di tempo e sincerità? Cosa sarebbe successo, nel peggiore dei casi? Per come la vedevo io sarebbe bastato sedersi e chiarirsi, tutto lì. Papà era una persona ragionevole, infondo, per quanto immerso nella sua bolla di autocommiserazione.
E invece il meglio che era riuscita a concludere era stato tenerlo impegnato incessantemente, occupando ogni suo attimo libero con questioni lavorative, incitandolo a conseguire affannosamente successi su successi, in un'interminabile corsa verso un'appagamento che sembrava irraggiungibile.
Forse era perché avevo solo diciotto anni che pensavo fosse tutto semplice da risolvere, ma non riuscivo proprio a vedere tutte le barriere che mia mamma sembrava non saper superare. Io vedevo solo lei e papà, più uniti che mai nel tentare di dimenticare qualcosa che oramai doveva soltanto essere accettato, ben decisi a continuare su quella strada che li allontanava sempre più da me. Preferivano fuggire piuttosto che affrontare la questione e chiudere definitivamente quel capitolo doloroso, e questo mi portava ad interrogarmi su che tipo di esempio intendessero trasmettermi con le loro scelte.
Erano quattro anni che ormai i miei genitori portavano avanti questa farsa del non nominare, ignorare e dimenticare e non riuscivo ad impedirmi di osservare che le conseguenze che le loro scelte avevano avuto sul nostro nucleo familiare erano state innegabilmente disastrose. Forse guardare in faccia la verità sarebbe stato molto meno doloroso.
Ma, come spesso avevo sentito dire da adulti specializzati in materia, vi sono cose che, per quanto si sforzino, i giovani non possono comprendere. Ecco, preferivo credere che fosse così, che qualcosa in quel gigantesco ingranaggio che regolava le scelte dei miei genitori continuasse a sfuggirmi.
Così sorrisi con più convinzione, incitandomi ancora una volta a credere che il problema fosse ben più grande di quanto potesse sembrare ai miei occhi, che mio padre avesse più diritto di mia madre di abbandonarsi in quel modo alla disperazione, che certe persone fossero più sensibili di altre e che lui fosse una di queste.
Il lavoro è l'unica soluzione, mi ripetevo, non pensare è l'unica soluzione.
Incoraggiata dalla mia tacita comprensione, mia madre mi abbracciò ed io accolsi le sue silenziose richieste di perdono.
«Stammi bene, tesoro.»
«Anche tu, mamma.»
 
C'erano giorni in cui invidiavo molto Alba e il suo modo di ragionare.
“Affronta un problema alla volta e ti accorgerai di poterli risolvere tutti” diceva sempre. Era una regola fin troppo pratica per una come lei, che onestamente consideravo eccessivamente civetta, eppure mi ero accorta che la applicava sistematicamente. Se era il momento di studiare, studiava. Se era il momento di flirtare, flirtava. Se era il momento di crogiolarsi nei propri sentimenti contrastanti, non si faceva alcun problema a mandare tutti al diavolo e a dedicarsi esclusivamente a quello. Alla fine ne usciva raggiante e spensierata.
Erano poche le persone che conoscevo e che avevano una simile padronanza di sé.
Non potevo vantarmi di essere tra quelle. Neanche Flynn e Simòn lo erano, in effetti.
Avevamo tutti un po' la tendenza a far prevalere una cosa sulle altre senza dedicarci completamente a nessuna di queste, in una compresenza conflittuale che raramente aveva esiti rassicuranti.
Ad esempio, in quel momento, studiare e basta era praticamente impossibile.
Un po' perché pensavo a mio padre, un po' perché c'era Eprail in fondo alla sala studio, un po' perché nella mia mente riecheggiavano ancora le parole di Horas della sera precedente. Ecco, c'erano troppe questioni in sospeso per poter decidere da quale inziare, e nonostante vi fosse una certa differenza di priorità il mio cervello non voleva saperne di ordinarle di consequenza.
Così ad un certo punto lanciai un'occhiata al cielo che cominciava a tingersi di rosso e conclusi che ormai non valeva più la pena di restare lì seduta quando la mia concentrazione era pari a zero.
Dunque presi un mocaccino alla macchinetta e uscii fuori a prendere una boccata d'aria. Mi sedetti sul solito gradino, le gambe vicine al petto e il bicchiere fumante che mi riscaldava il viso.
Ironia della sorte, la mia mente si svuotò non appena lasciai l'ambiente silenzioso e per quanto tentassi di intavolare una conversazione ragionata con essa questa si rifiutò categoricamente di giungere a patti con la sua proprietaria. Era davvero paradossale come mi ostinassi a definire 'mio' ciò che si scatenava al mio interno quando era palese che non avessi il minimo controllo su di esso.
«Ennesima crisi esistenziale, fratella?»
Non alzai neanche gli occhi per guardarla. Dovevo ammetterlo, Alba aveva una capacità micidiale per farsi riconoscere immediatamente.
«Anche stasera i tuoi si sono dimenticati di venirti a prendere per la cena di famiglia?» domandò con il solito tatto che la contraddistingueva e si sedette accanto a me tirando fuori cartina, tabacco e filtro per rollarsi una sigaretta.
Per niente propensa ad aprirmi con lei, annuii semplicemente. Che pensasse quello che voleva.
«Ah, non prenderla tanto a cuore. Anche loro hanno bisogno di tempo per sé stessi, cerca di capirli.»
Se gli avvenimenti degli ultimi anni non avessero già fatto traboccare il vaso della mia pazienza fino a ridurlo ad una fontana di dubbia correttezza architettonica, il saggio consiglio che Alba tentò di rifilarmi gli avrebbe certamente dato il colpo di grazia. Ma era una battaglia persa in partenza, quella.
Tuttavia, per qualche motivo, mi venne voglia di darle corda.
«E io?»
«Vengono prima loro, non credi? Insomma, si sono sposati, loro due. Hanno deciso di spendere il resto della loro vita insieme, e solo dopo hanno avuto te, quindi tecnicamente sei tu che togli del tempo al loro rapporto, no? Non dico che sei una spina nel fianco per i tuoi..» precisò, ed io pensai che invece era proprio quello che intendeva dire, poi proseguì: «Non dico questo, ma se una volta tanto si prendono del tempo da soli non prenderla troppo a cuore.»
Annuii, appurando per l'ennesima volta che Alba non dava peso neanche a metà delle parole che uscivano dalla sua bocca. Infatti, neanche un attimo dopo cambiò argomento, cominciando a parlare di quanto Eprail mi avesse fissata oggi.
Per qualche motivo mi infastidì sentirla parlare di lui e inconsciamente desiderai chiederle come mai lo tenesse d'occhio per me quando non gliel'avevo nemmeno chiesto, ma mi trattenni. Sorrisi ed annuii ripetutamente, rigirandole la frittata e facendole parlare di un ragazzo che le interessava.
Non la ascoltai neanche un minuto, notando Eprail uscire dalla sala studio con lo zaino in spalla. Si guardò intorno, poi mi vide.
Ci fu uno scambio di sguardi che mi sembrò interminabile, poi lui si voltò verso un gruppo di amici e si incamminò nella loro direzione.
Spinta da una qualche forza sconosciuta, interruppi Alba e le dissi che dovevo andare. Le lasciai il numero di Flynn, che invece si era dimenticata di darglielo, e mi fiondai dentro la sala studio per raccattare le mie cose e uscirne a testa bassa.
Mi diressi alla fermata dell'autobus che mi avrebbe portata molto vicina a casa, e rimasi in attesa che arrivasse. Attesi un minuto, due minuti, e più il tempo passava più speravo che tardasse, perché di Eprail non c'era ancora traccia. Speravo mi raggiungesse, speravo mi parlasse, speravo di interessargli.
Ma evidentemente mi sbagliavo.
L'autobus arrivò dopo nove minuti esatti. Di Eprail nemmeno l'ombra.
Salii sul mezzo e mi sedetti vicino alla postazione dell'autista, ben decisa a non voltarmi indietro. Riconoscevo una sconfitta, quando ne subivo una. Infilai le cuffie del vecchio walkman e lo accesi.
L'ultima canzone che avevo ascoltato quella mattina iniziò ed inconsciamente iniziai a mimarla.
«And the shadow of the day,
will embrace the world in grey,
and the sun will set for you..»





 





(*) Cit. di Socrate
(**) Cit. di David Hume

 


Salve gente!
Ci ho messo tantissimo tempo per scrivere questo capitolo, l'ho sudato davvero, eppure non c'è nessun colpo di scena particolare. Lo so che sto introducendo troppo, che sono lenta e tutto, ma non riesco a farne a meno, mi piace crogiolarm nei pensieri di Drew e sostare tra i ricordi dello scorso anno. Se penso che sono solo all'inizio e che c'è ancora molto da scrivere mi viene quasi voglia di smettere! (Non lo farò: non posso concedervi una simile gioia, giusto? xD)
Comunque vi annuncio che dal prossimo capitolo le cose si movimenteranno, arriveranno spiegazioni (poche poche, non intendo smentirmi troppo) e qualche flash-back, giusto per confondervi ed incuriosirvi. Ebbene sì: questo era l'ultimo capitolo introduttivo: due così lunghi bastano e avanzano, vero? Scusatemi se mi sono dilungata troppo, era necessario però (?).
Ho l'impulso di dirvi cosa mi ha trattenuto dall'aggiornare prima, ma preferisco non assecondarlo (è una storia lunga e strappalacrime xD). La inserirò in questa storia verso la fine, invece, ehehe. Ehi, non smettete di leggermi e se non avete cominciato approfittatene per farlo: mi fareste molto piacere, soprattutto se mi deste qualche consiglio!
A presto,
Sumi

   
 
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