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Autore: sheishardtohold    08/10/2012    5 recensioni
Innanzi tutto il titolo è tratto da un film, Imagine me and you. Secondo, dato che ho visto che alcune ragazze hanno postato una raccolta di storie Calzona, ho deciso di crearne una anch'io senza un determinato filo conduttore tra una one shot e l'altra. Infatti, tratto di temi svariati, scrivo di storie con finali felici, ma anche tristi, situate in luoghi diversi e momenti diversi che hanno come unico tratto in comune i personaggi di Callie e Arizona.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Arizona Robbins, Callie Torres
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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N.A. Ci terrei a precisare che, se state cercando una one shot allegra, questo non è quello di cui avete bisogno. Poi, vorrei dire che per questa one shot mi sono ispirata alle nuove puntate della nuova stagione di Grey's anatomy (cambiandone ovviamente il corso della storia Calzona) e ad una canzone di Ellie Goulding - anche se, a dirla tutta, vorrei scrivere tutte le storie di questa raccolta ispirandomi alle sue canzoni. Dunque, le parti in corsivo sono dei flash back, mentre le frasi in grassetto sono alcune frasi tratte dalla caznone "I know you care". Buona lettura!

I've never known a winter so cold.

Ferma, immobile, ho speso gli anni a fissare questa porta. Ne ho studiato ogni dettaglio – ogni scheggiatura, ogni variante di colore, la superficie liscia che risplende sotto la luce del sole. Ho speso anni a fissare questa porta aspettandomi ogni volta un risultato diverso – aspettandomi di trovarti li, triste e offesa avvolta nel piumone rosso, nascosta dal mondo. Nascosta da me. Ed ogni volta mi sono ritrovata a fissare un letto vuoto. Guardavo la tua assenza come uno spettatore guarda un film – mi correggo, guardo la tua assenza ogni volta che le mie dita sfiorano incerte quella porta, fredda come il sangue che ti si congela nelle vene. Fredda come il corpo di un cadavere. Fredda come l’inverno. Non importa quanto tempo mi dia, quanta speranza io ci metta nell’aprire quella porta. A certi tipi di assenza non ci si abitua mai.
“Mamma?” è la voce di Sofia che mi richiama, mentre io scuoto la testa come a scrollare via il pensiero di te che mi sorridi e chiudo la finestra. Il freddo dell’inverno mi entra nelle viscere – il freddo della tua assenza mi entra nelle ossa. Il freddo e l’assenza sono le uniche cose che riesco a vivere di te. Il freddo, come il tuo corpo inerme, l’assenza come i tuoi occhi persi in ciò che ti rispecchia meglio – il vuoto.
 
Chiedevo permesso, urlavo di farmi passare tentavo di sovrastare il suono della sirena con quello della mia voce. “Sono un dottore, fatemi passare” ecco le uniche parole che ricordo mentre mi facevo spazio tra la folla e Sofia restava indietro. Mancavano cinque giorni al suo secondo compleanno – cinque, come i minuti che ti restavano di vita quando ancora non lo sapevo. Quando ancora non sapevo che eri tu quella a terra, distesa in una pozza di sangue. Cinque, è diventato il numero che ha segnato la mia vita. “Arizona” ecco cos’altro ricordo – Arizona, mentre tu lasciavi scivolare la tua mano sulla mia. Ricordo la scia sull’asfalto, come un arcobaleno, solo tutto rosso – solo macchiato del tuo sangue. Poi ho iniziato a pregare, quando ormai avevo capito che era troppo tardi. Te l’avevo letto negli occhi il vuoto della tua anima. Te l’avevo letto negli occhi quel tuo modo di fare – o tutto o niente, o bianco o nero. Non c’erano mai sfumature nella tua vita, non c’erano mai seconde chance per te. Se solo l’avessi capito prima che sei umana, se solo l’avessi capito prima che anche tu puoi sbagliare. Invece hai scelto il niente, dopo essere rimasta senza una gamba. Hai scelto il niente ad un corpo mutilato. Ho avuto solo la forza di guardarti con amore, così come ho avuto solo la forza di toccarti con dolcezza. “Riposa amore, riposa in pace” è stata l’unica cosa che ti hanno detto i miei occhi, mentre i tuoi non facevano altro che restituirmi dolore e lacrime. Io ti guardavo con gli occhi dell’amore, con lo sguardo compassionevole di una persona che ama e che si chiede come si fa a diventare così – così vuoti, - mentre i tuoi occhi vacui si perdevano tra la folla e mi restituivano il nulla. Tu eri fredda – il tuo corpo era freddo, la tua anima pure. Ti ho lasciata andare, rassegnata, venendo a patti con me stessa. Ti ho lasciata andare con amore, così come ho provato a proteggerti – a salvarti – con amore. Me lo dicevi sempre tu, l’amore a volte non basta. Ti ho lasciata andare con amore sperando che questo mi avrebbe aiutata a superare la cosa più velocemente – a superarla senza lacrime, senza drammi. C’eri già tu a piangere davanti a nostra figlia, amore, come potevo farle questo anch’io? Ti ho lasciata andare con amore, cercando di passare sopra al fatto che non hai pensato a te, a me, a Sofia e a come ci avresti distrutto andandotene via – andandotene dopo Mark. Ti ho lasciata andare guardandoti come chi perdona quando in realtà ero incazzata nera e avrei voluto prenderti a sberle e piangerti addosso ed urlare e dirti di reagire, perché non si fa così – non si spezzano promesse che si fanno davanti a Dio, non si spezzano cose come “per sempre” o “nel bene e nel male, in salute e in malattia”. Non si spezzano cose del genere, perché io ci credevo davvero a quelle parole.
Non ci sono state parole per noi. Tu non ne avevi bisogno – tu avevi scelto di farla finita proprio perché non ne potevi più di parole. Io invece ne ho dovute usare tante per spiegare a nostra figlia quello che era successo – ne ho dovute usare tante, nonostante la mia voglia di silenzio. Ne ho dovute usare tante più di un giorno. “Va tutto bene” le ho mentito, mentre la stringevo tra le mie braccia e la macchiavo dello stesso sangue di sua madre. “Va tutto bene” ho ripetuto ad alta voce la bugia per convincere me stessa più che Sofia e poi le ho chiuso gli occhi. Certe cose i bambini non dovrebbero vederle.


"Please don't close your eyes
I don't know where to look without them
Outside the cars speed by
I never heard them until now"


“Mamma?” le manine di Sofia si stringono attorno alla maglia del mio pigiama “Non riesco a dormire” bisbiglia piano mia figlia che a sette anni si sveglia ancora di notte sognando chiazze rosse. La mia mano scivola veloce, lasciando la traccia di una carezza sul suo viso. La prendo in braccio, mentre la porto in salotto. La prendo in braccio pur sapendo che quel contatto fisico riuscirà a calmare me più che mia figlia che sembra essere più forte di sua madre – di entrambe le sue madri. Sul grande divano al centro del salotto è già sistemato il caldo maglione di lana, pronto per essere indossato da Sofia. Come ogni notte, Sofia si siede paziente sul divano passandosi fra le mani il maglione giallo. Ne accarezza la superficie, sente le fibre di lana pizzicarle le dita e poi lo indossa immergendoci dentro il viso per respirarne l’odore. Indossa il suo maglione, più grande di almeno cinque taglie. Indossa il maglione di Arizona lasciandosi accarezzare dal profumo di sua madre. Spengo la luce e mi siedo sulla poltrona, accanto a Sofia, mentre il filmino – quello dell’ultimo Natale passato insieme, come una famiglia – parte e la voce di Arizona inonda la stanza. Come ogni notte, resto ferma immobile ad osservare Sofia, lasciando che le voci del filmato restino solo voci in sottofondo. Cerco di ignorare Mark che scherza con Arizona, cerco di non pensare a quanto io sia gelosa del rapporto che mia figlia aveva con loro – a quanto continui a considerare Arizona sua madre più di quanto abbia mai fatto con me. Cerco anche d’ignorare la frase che Arizona cantilena nella mia testa. “Sono l’unica che riesce a farla riaddormentare di notte”. Mi alzo in segno di sfida – sfido me stessa più che Arizona- e provo a prendere in braccio Sofia che, appena avverte la mia presenza, si tira su. Seduta, le gambe incrociate, mi inchioda coi suoi occhi color ghiaccio – con gli occhi di sua madre. Perché sì, per quanto io razionalmente capisca che Sofia non abbia preso nulla da Arizona, geneticamente parlando, più la guardo, più rivedo il lei mia moglie. Sofia assomiglia così tanto ad Arizona per i suoi modi di fare – come sorride, come ti tocca, come ti guarda. Mi sfiora il braccio per fermarmi e mi guarda come a chiedermi di non spezzare quell’angolo di magia che lei, il suo maglione e la voce di Arizona sono riusciti a creare. Faccio per andarmene, rassegnata più che delusa. Faccio per andarmene non perché io sia ferita, semplicemente perché questo è quello che vorrei fare, sempre – andarmene, quando le cose si fanno difficili. Andarmene, proprio come ha fatto Arizona. Andarmene e basta, ma poi la voce di Sofia mi richiama indietro.
“Mamma?” io mi giro a guardarla senza dire parole, perché tanto so che sarà lei ad aggiungerle. “Non andare via anche tu, ti prego”. Accenno un sorriso – accenno un sorriso d’amore per mia figlia. Non come quello fatto ad Arizona prima di morire – non come a dirle che va tutto bene. Accenno un sorriso come a dirle che io le promesse ho smesso di farle molto tempo fa, ma farò del mio meglio per esserci sempre, per lei – per tutto quello che mi è rimasto. Le mie gambe si muovono lente verso la poltrona. Ritorno a sedermi, fredda, impassibile, nella stessa posizione di prima. Resto a fissare la parete bianca davanti ai miei occhi che i colori violenti delle immagini del video tentano di colpire. Ritorno a sedermi, fredda – fredda dentro - e in silenzio, restando a guardare mia figlia che si addormenta al suono della risata di Arizona, che la culla come una ninna nanna. Vanno a ritmo – la risata di Arizona e il respiro di mia figlia.
“Sono l’unica che riesce a farla riaddormentare di notte” mi ripeto nella testa la frase di Arizona, come una cantilena, mentre il filmato finisce e il salotto cala nel completo silenzio. io mi do un paio di minuti per non scoppiare a piangere, per trovare una ragione per cui andare avanti – anche stanotte. Poi guardo Sofia che dorme serena cercando di colmare il vuoto che ho dentro. Mi avvicino a lei, ad ascoltare il battito del suo cuore, ad ascoltare il suo respiro regolare ed inspiro fino a riempirmi i polmoni l’aria che ci sta attorno – a me, a Sofia, al suo maglione. Sa ancora di Arizona.
 
Sofia aveva appoggiato a terra il suo zaino ed era corsa verso la grande penisola della cucina, salendo a fatica su una delle sedie. Mentre le sue gambe a penzoloni dondolavano, spalmava la Nutella sul pane. Con la lingua incastrata fra le labbra, come a gustarsi già la sua merenda, Sofia restava concentrata nelle sue azioni. Io la guardavo – appoggiata allo stipite della porta la guardavo e basta, ancora col giubbotto addosso e le chiavi in mano. Era stata una bella giornata. Avevo lavorato poco, ero andata a prendere mia figlia a scuola e in tutto quel tempo niente – ne a me, ne a lei - ci aveva ricordato la morta e il dolore che da anni non ci lasciava respirare.
“Cos’hai fatto oggi a scuola, amore?” le ero passata dietro, accarezzandole i lunghi capelli neri e poi mi ero seduta accanto a lei. Sofia mi aveva offerto gentilmente un pezzo del suo pane-Nutella. Io avevo finto di mordere accidentalmente anche il suo dito, insieme alla fetta di pane e lei era scoppiata a ridere. “Ahia” aveva detto stampandosi in faccia quel suo finto broncio e poi era scoppiata a ridere illuminando tutto – la stanza, l’inverno, che per un attimo parve primavera. Anche il sole nascosto dalle nuvole sembrò animarsi sotto la risata di mia figlia.
“Oggi la maestra ci ha fatto scrivere un tema!” aveva esordito esaltata, mentre si dimenava sulla sedia.
“Un tema? Che bello” le avevo risposto aggrottando le sopracciglia. Senza spiegarmi come il tono entusiasta che avevo sentito nella mia mente apparve piatto e freddo, quando le parole presero vita. Sofia alzò lo sguardo verso di me. Restò a guardarmi – ci guardammo per un attimo infinito. Non volevo sembrare menefreghista, non volevo sembrare una di quelle madri che alla domanda “ti piace il mio disegno?” risponde sì, senza neanche averlo guardato. Così avevo provato ancora, con un’altra frase. “Su cos’era il tema, amore?”
“Sulla mamma” pausa “Vuoi leggerlo?”
Era successo tutto così velocemente. Lo so, avrei potuto pensare che quel tema fosse per me, su di me, non per mancanza di modestia o un eccessivo egocentrismo. Avrei potuto pensare che descrivesse me e il colore dei miei capelli o di quando le faccio una sorpresa e la vado a prendere a scuola, invece lo sapevo che quel tema sarebbe stato su Arizona. L’avevo capito dal tono di voce di Sofia, l’avevo capito dai suoi gesti – da com’era rimasta immobile a respirare piano, per paura di fare rumore.
Annuì in silenzio - era l’unica cosa che sapevo fare in quei momenti. Non avevo il coraggio di muovermi o di dire qualcosa. Sarebbe sembrata sbagliata qualsiasi cosa, anche un sì titubante -  il di quando il tono di voce ti tradisce e mostra la tua debolezza agli occhi di chi puoi apparire solo come un forte gigante. Mentre la testa si affollava di pensieri restavo a guardare Sofia che si leccava le dita per pulirle dalla Nutella e correva verso la cartella rosa, rovistando dentro. Ci si immerse completamente con la faccia, fino a ritrovarsi dentro. Mi fece tenerezza e paura, allo stesso tempo. Ero io che dovevo prendermi cura di quell’essere così piccolo e fragile. Ero io – sola, a prendermi cura di un piccolo umano.
Quando il foglio protocollo scivolò dalle sue mani alle mie, cominciai a leggere nella mia mente immaginando l’attenzione che Sofia aveva messo nello scrivere quel tema – immaginando la sua concentrazione nello scriverlo, come quando mangia pane e Nutella; immaginando il suo amore nello scegliere le parole più adatte.
“La mia mamma è bella. La maestra ci dice sempre che non possiamo scrivere solo bella come aggettivo, però la mia mamma è bella. In realtà io non me lo ricordo perché l’ho vista tanto tempo fa, però l’altra mia mamma mi dice sempre che è bella quando me ne parla.”
Leggo solo le prime tre righe, poi resto un paio di minuti a fissare la prima pagina, a sfogliare le altre e poi lo appoggio sul tavolo esordendo con “E’ molto bello, amore. Sei stata brava” senza aggiungere altre parole. Sofia sorride felice per il mio commento positivo, mentre io tento di ricambiare con gli occhi pieni di lacrime. Fingo che siano lacrime di orgoglio per mia figlia, la mia piccola scrittrice, quando in realtà vorrei piangere per le menzogne e per il dolore che sento – che Sofia stessa sente. Le stampo un bacio sulla fronte, stringendola a me così forte da farle mancare il respiro.
“Sono qui amore, la tua mamma è qui. Ci sarò sempre”. Ecco cosa avrei voluto dirle, invece del silenzio. Avrei voluto tenerla stretta a me per sempre, invece che lasciarla sgattaiolare in cortile a giocare con gli altri bambini.

 
Quando prendo in braccio Sofia per riportarla in camera sua, mi porta le mani al collo. Tranquilla nel suo sonno ormai sereno, mi stringe al suo piccolo corpo caldo e mi tiene con lei, anche quando tento di staccarla da me per lasciarla scivolare tra le coperte. Bisbiglia qualcosa di incomprensibile cercandomi con una mano – gli occhi chiusi. “Sht, sono qui amore, sono qui” le dico piano, sedendomi accanto a lei che si rannicchia attorno al mio corpo, circondandomi con le braccia e le gambe. Le passo una mano tra i capelli, fino a quando il suo corpo non si rilassa completamente sotto al mio tocco e si lascia andare nuovamente al sonno profondo. Lascio accesa la luce e la porta socchiusa prima di tornare in camera. L’ondata di gelo che mi travolge puntualmente ogni volta che metto piede qua dentro è sconvolgente quasi quanto il fatto che è una cosa che esiste solo nella mia testa – la tua assenza. Mi sdraio. A pancia in su, allungo una mano verso l’altro lato del letto cercando Arizona e poi mi immergo sotto alle coperte nel tentativo di trovare almeno un briciolo della sua essenza. Niente, solo freddo – il freddo delle lenzuola e della sua assenza. Vuoto, freddo, assenza, sono le parole che ricorrono più frequentemente nella mia testa quando sono sola – quando è notte ed io sono sola nel nostro letto a fissare il grande specchio dell’armadio, mentre do le spalle al tuo posto senza te.
 
Sentivo il suo respiro flebile accanto al mio. La sua presenza, la percepivo appena, come quando guardi la fiamma di una candela spegnersi piano tra la cera stessa, fino a  morire.
“Io non ce la faccio, Arizona” avevo detto piano, mentre la voce mi tremava. Stesa accanto a lei, restavo a sentire il suo corpo lontano dal mio e fissavo il buio. “Io ho bisogno che tu mi stringa, che tu mi dica che mi ami”.
“Ma lo sai, Callie” era sempre questa la sua risposta – lo sai, come se io potessi leggerle nella mente. Come se io fossi ancora in grado di leggere i suoi occhi cupi e tristi.
“No che non lo so” le avevo risposto per la prima volta. “E anche se lo sapessi vorrei che tu me lo dicessi comunque. Magari non oggi o domani, ma vorrei che me lo dicessi - ancora”.
Silenzio. Arizona si era affezionata così tanto al silenzio e al buio e alla tristezza. Non la vedevo, inghiottita dalle ombre della notte – non ne avevo bisogno. Sapevo la sua espressione – la conoscevo a memoria. Lo vedevo sempre, lo vedevo ovunque, il suo volto imbronciato e quella rabbia che si mischiava all’essere stata ferita dalla vita – da me.
Un sospiro. Avevo accesso la luce costringendola ad alzarsi dal letto e a mettersi davanti allo specchio insieme a me.
“Che stai facendo?” mi aveva chiesto mentre mi levavo la maglietta lasciandola scivolare a terra.
“La vedi questa?” e avevo indicato la cicatrice che attraversava gran parte del mio petto. “Questa me l’hanno fatta dopo l’incidente in macchina. Lo sai bene, c’eri anche tu.”
Arizona restava a fissare la mia e la sua immagine riflessa senza capire. Un sospiro – ancora.
“Sto solo cercando di dirti che quando mi è successo, quando sono stata traumatizzata tu c’eri – a ripetermi quanto ero bella, a ripetermi quanto tutto sarebbe andato bene, a tenermi per mano. Tu c’eri” mi era morta in gola la frase dopo – io ci sono, per te. Io voglio esserci. Mi era morta in gola nell’esatto istante in cui, guardandola negli occhi, l’avevo riconosciuta. “Tu sei.. Arizona, tu sei perfetta così e..” e niente, e lei mia aveva baciato, come non faceva da tempo. Lei mi aveva baciato, facendomi sdraiare nuovamente sul letto. Le sue mani restavano ferme sul mio viso, come per assicurarsi che non sarei scappata, le mie invece correvano lungo il suo corpo a sfiorarle il ventre e i fianchi. Quando si era stesa sotto di me, quando avevamo invertito le posizioni e mi ero ritrovata a guardarla ancora negli occhi era di nuovo tutto sparito. Il suo amore, la sua passione, la sua voglia di lottare – tutto. Era stata completamente inghiottita dal nulla. Mi era bastata un’occhiata per capirlo. Cinque secondi per pentirsi – pentirsi di quel bacio, di quello slancio d’amore. Cinque minuti per voltarsi – voltarsi e darmi le spalle, abbracciata al suo cuscino. Cinque giorni per addormentarsi – questa volta addormentarsi per sempre. Io non lo sapevo che quello sarebbe stato il nostro ultimo bacio – che quella sarebbe stata la nostra fine. Non lo sapevo, altrimenti avrei fatto di più – avrei lottato, l’avrei tenuta con me. Per sempre.

 

"I know you care, I know it is always been there
But there is trouble ahead I can feel it
You are just saving yourself when you hide it"

 
  
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