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Autore: BlueSkied    10/10/2012    2 recensioni
Emily Rochester, giovane addestratrice di cavalli dal passato difficile, è assunta nelle prestigiose scuderie LaMosse, dove, tra adolescenti teneri e stravaganti e padroni senz'anima, il suo cuore si dividerà tra due modi diversi, ma complementari, di amare qualcosa e qualcuno.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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LaMosse Manor


Attraversiamo lentamente due ali di recinti immensi e ferventi di attività.
Nonostante i sobbalzi e il fracasso del furgoncino non mi permettano di distinguere una sola parola, non ho bisogno di ascoltare per capire cosa sto guardando. Vedo campi per l’allenamento al salto, piste da corsa e da trotto e spazi per il dressage, nessuno dei quali è vuoto. Nel tondino più vicino a me, un addestratore sta facendo lavorare alla corda un baio piuttosto schizzinoso, che si rifiuta, evidentemente, di eseguire gli ordini, perché continua a rinculare e a tirare indietro la testa di scatto. Mi acciglio, cercando di capire quale sia il problema e pensando a cosa farei al posto del tizio, ma l’allontanarsi del furgoncino me li fa perdere di vista.
Torno a guardare davanti a me, senza niente di preciso da dire, e Juno mi scocca un’occhiata: - Ti ci abituerai presto – mi assicura –All’inizio, fa sempre lo stesso effetto a tutti, ma secondo me è il posto più bello del mondo – dichiara, senza esitazione. Le restituisco lo sguardo e lei mi sorride, fiduciosa. Molto prima di quanto mi aspettassi arriviamo di fronte al cancello della casa padronale, sul quale spicca la scritta “LaMosse Manor” e oltre il quale si estende un giardino piuttosto piccolo, ma molto curato, un po’ in contrasto con gli spazi privi di alberi che lo circondano, sembra una specie di oasi verde. Juno spegne il motore e scende, per prendere i miei pochi averi, e io la imito.
Rimango accanto alla portiera chiusa, le mani nelle tasche del parka, senza far trasparire nessuna emozione in particolare. La ragazza mi porge borsone e zaino, con l’ennesimo sorriso su quel volto da bambina: -Buona fortuna! Ci vediamo in giro, Emily – mi saluta, e io ricambio con un gesto della mano. La osservo ripartire alla volta di un angolo remoto di quell’enorme luogo ancora sconosciuto, poi mi avvio al cancello, per avvisare che sono arrivata.

Ad accompagnarmi fino allo studio del signor LaMosse ci pensa un tipo alto e robusto, in stivali e camicia arrotolata alle maniche, che mi si presenta come “ Roman ” e capo stalliere. Senza ulteriori commenti, mi scorta attraverso un elegante salone in stile Anni Venti, su per uno scalone che non sfigurerebbe in un palazzo reale e tra diversi corridoi riccamente arredati, ma un po’ opprimenti, a mio parere.
Questa villa doveva essere in origine una grande casa colonica, a cui via via sono state apportate modifiche sostanziali, probabilmente secondo il gusto dei vari proprietari. L’effetto finale è maestoso, ma assai poco accogliente. Tutto questo bianco e oro fanno più pensare a un cofanetto che a una casa. Mi sto quasi per chiedere quanto ci metteremo ancora, quando Roman si ferma di fronte a una doppia porta immacolata come il resto e bussa energicamente. La risposta arriva abbastanza flebile, attraverso il legno massiccio, e Roman apre e mi spinge davanti a sé, facendomi entrare.

La mia prima, stupida impressione è di trovarmi sul set di una soap opera. L’ampia stanza è occupata da una grossa scrivania d’ebano lucido ingombra di statuette, trofei, pile di documenti e cornici d’argento. Intorno, ci sono alcune poltrone di chintz e un divano in pelle, mentre le pareti accolgono una libreria e svariate fotografie incorniciate. La finestra di fondo si apre sulla quasi totalità dei possedimenti, come un balcone.
Al nostro ingresso, le quattro persone presenti si voltano pigramente, senza smettere di parlare fra loro. Le due donne mi lanciano uno sguardo disinteressato, poi tornano a fare come se non ci fossi, i due uomini invece mi vengono incontro, con atteggiamenti e aspetto diametralmente opposti.
Non ho bisogno di chiedere quale sia Ashton LaMosse, il proprietario. Si fa avanti con decisione, stringendomi brevemente la mano e accogliendomi con un secco: - Signorina Rochester, benvenuta. – Ricambio la stretta, senza comunicare niente della sorpresa che provo. Dalle chiacchiere sentite in tutti questi anni, fra gare e scuderie, mi sono sempre immaginata LaMosse come un texano da caricatura, col cappello da cowboy, gli speroni e uno stelo di sterpaglia in bocca. Niente di tutto questo.
La sua figura alta e imponente, ma decisamente in forma, è avvolta in un completo nero dal bavero alto, con un foulard grigio perla e stivali a punta, lustri come se fossero nuovi. Il suo volto ha lineamenti aguzzi, bocca sottile, naso dritto e occhi piccoli e scuri, come i capelli lisciati indietro e la barba corta e curatissima. L’insieme lo fa apparire come un bizzarro incrocio fra un dandy vittoriano e un boss della mafia. Con un cilindro, una rendigote e le occhiaie, l’illusione sarebbe perfetta. Si appoggia perfino a un bastone intarsiato, e tra le dita stringe un sigaro indubbiamente di pregio.
Ne tira una lunga boccata, scrutandomi, prima di continuare a parlare: - Spero il suo viaggio sia andato bene. Mi permetta di presentarle queste persone. Mio fratello, Arthur LaMosse e socio della scuderia – e lo indica, con gesto vagamente lezioso. Lui mi sorride e fa un cenno col capo. Sembra molto più giovane del fratello, anche se mi pare di ricordare che li dividano pochi anni, e condivide con lui gli stessi occhi e capelli, solo che i suoi sono ricci e ribelli, e i suoi abiti sono molto più semplici, camicia, jeans e stivali da equitazione.
Mi sento molto meno a disagio con lui che con l’altro a dire il vero, tanto che sorrido a mia volta. – Le signore – prosegue LaMosse – Sono mia moglie Elizabeth e mia cognata Florence – Mi volto a guardarle e do loro il buongiorno: la prima è una mora dagli occhi verdi e scintillanti, molto bella, la seconda è un tipo alto e magro, con capelli biondo platino e l’aria di chi considera gli altri esseri umani complete nullità. Chissà cosa sta pensando di me, con i jeans consumati e il parka sbiadito. Ashton LaMosse si rivolge di nuovo a me, distogliendomi da quel pensiero: - Dunque, ho letto le sue referenze e le ho trovate adeguate – Estrae un foglio da una pila sulla scrivania e la scorre con gli occhi: - Un maneggio e tre scuderie piuttosto rilevanti, in tre diversi stati. Si è spostata parecchio – osserva.
Io non dico nulla, perché vedo che non si aspetta una replica, e prosegue – Ho visto anche che è nata in Inghilterra. I suoi genitori lavoravano là, nell’ambito dell’equitazione?- mi chiede. Annuisco: - Mio padre – specifico. - E che cosa faceva, l’addestratore come lei?- vuole sapere ancora. Scuoto la testa, un po’ a malincuore : - Era un fantino – rispondo. Ora mi chiederà di lui, e devo essere molto abile. LaMosse guarda il fratello, con aria perplessa: - Rochester…Rochester…mai sentito – dichiara. L’altro alza le spalle. Mi affretto a spiegare: - Non era nella lega agonistica – Dietro di me, sento uno sbuffo di scherno e mi giro. È stata la bionda, che non fa nulla per nascondere il suo evidente disprezzo. La ignoro e torno a guardare i miei interlocutori, lo stomaco che mi si stringe per l’umiliazione.

Detesto parlare di mio padre o anche solo pensarci, perché è stato un disastro,  come genitore, come uomo e come sportivo. Non aveva talento e non capiva i cavalli, ma finché siamo rimasti in Inghilterra, ci provava, senza risultati. Quando avevo sette anni, decise di trasferirci in America dove, pensava, il pubblico aveva un palato meno esigente. Si sbagliava, naturalmente.
Così, invece di correre, cominciò a scommettere e a perdere, fino a diventare depresso e violento.
Ancora adesso non riesco a dimenticare gli occhi pestati di mia madre. Lei, comprensibilmente, si stancò di lui e lo lasciò, ma non mi portò con sé. Rimasi con i cavalli come unica, vera compagnia, fino a quando mio padre morì, cadendo di sella, e lei decise di riprendermi con sé, per mia disgrazia. Ho sempre imputato a lui la colpa delle mie sfortune successive, magari ingiustamente, ma la gente è sempre stata convinta che io fossi una perdente come lui. Per questo devo convincere i LaMosse che valgo qualcosa. A qualunque costo.

 Forse, parte dei miei pensieri mi si legge in faccia, perché Ashton LaMosse non insiste sull’argomento: - Direi che è sufficiente così. Adesso, Arthur le illustrerà i suoi compiti e le mostrerà il suo alloggio. Di nuovo, benvenuta fra noi, Emily – conclude, voltandosi verso Roman e iniziando a dargli istruzioni. Arthur LaMosse mi si avvicina, con un sorriso conciliante: - Coraggio, sarà una giornata lunga e voglio metterti al lavoro al più presto – mi invita, facendomi passare avanti per uscire. Non guardo nessun altro, ma sento lo sguardo di uno dei presenti addosso, qualcuno che fino a quel momento mi ha praticamente ignorato. Ma forse, è solo una sensazione, decido, avviandomi dietro al più giovane dei fratelli LaMosse, lungo il corridoio.
  
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