II
CAPITOLO
Il
sole era già alto quando la sveglia suonò nel piccolo loft milanese affacciato
sui Navigli.
Francesca
rotolò fino all’oggetto infernale e lo spense con un sonoro pugno.
“Cazzo...credo
che la nostra sveglia sia l’unica che suona a quest’ora della domenica”. Si
schermò gli occhi dalla luce che entrava prepotentemente dalle alte finestre in
stile vittoriano, restaurate da poco.
Un
braccio inerte di Claudia penzolò giù dal rialzo mansardato in cui dormiva:
“Che ore sono?” piagnucolò poi.
“Le
dieci...Abbiamo dormito quattro ore- Francesca calciò via le coperte- Comincio
ad odiare questa vita”.
Sì,
perchè una volta spenti i riflettori delle notti in discoteca, quando ad
accendersi era il sole di tutti i giorni, Francis e Claude tornavano a vestire
i panni di Francesca e Claudia, studentesse rispettivamente di giurisprudenza e
marketing internazionale.
“Piantatela
di lamentarvi, qui l’unica che oggi lavora davvero sono io” una voce roca e
impastata le raggiunse da un angolo dell’open space che condividevano in tre:
Claudia, Francesca e Gabriele...o meglio, Eva.
“Senti
senti...è resuscitata Miss Simpatia- la rimbeccò Francesca- Ringrazia di averlo
ancora, un lavoro. E se lo abbiamo tutte...non è di sicuro grazie al tuo
caratteraccio”.
Eva
sbuffò sonoramente, per poi voltare le spalle all’amica e coprirsi la faccia
col piumone: erano ormai anni che le altre cercavano di smussare gli spigoli
taglienti del suo carattere. Le volevano bene così com’era, ma non poteva
aspettarsi lo stesso trattamento dal resto del mondo.
Di
questo la ragazza non sembrava curarsene, e lo dimostrava la frase che aveva
appeso al grosso frigorifero della cucina:
“Non essere triste a causa delle
persone.
Moriranno tutti.”
Decisamente
troppo sociopatico per un’animatrice-vocalist della movida Milanese.
Tra
un mugugno e l’altro la chioma riccia riemerse dalle coperte e lo stesso fecero
i ricordi della nottata. Si era concluso tutto con il vociare concitato delle
altre ragazze, scioccate dalla rivelazione dell’inaspettato ospite
Noncurante
del fatto che si trattasse di un VIP, Francesca aveva ignorato le moine del
caso per rivolgersi al suo capo: “Cosa diavolo significa?!” aveva grugnito
alterata.
Purtroppo
dopo quattro anni di collaborazione il propietario del locale aveva venduto la
sua quota societaria per dedicarsi ad altri progetti lavorativi; guardacaso la
sua liquidazione era stata lautamente coperta dall’ingresso in scena di lui. L’altro. Robert Downey Jr.
Un
VIP d’oltreoceano che avrebbe trattato il destino del loro locale come
l’acquisto di un qualsiasi oggetto in commercio, fosse esso un orologio o un
apribottiglie.
Nel
caos più totale si era limitato a rimanere immobile, gli occhi scuri e
penetranti conficcati in quelli di Eva (Gabriele per lui) che a stento
respirava.
Non
si era mossa dalla sua statuaria posizione, neppure quando l’uomo le si era
avvicinato di un passo, scimmiottando la recita sensuale di lei.
L’alito
di vodka le era entrato nei polmoni e non aveva potuto reagire: l’uomo aveva
bevuto, ma era tutt’altro che ubriaco, lo rivelava l’espressione furente, a un
passo dall’esplodere.
Eva
aveva continuato a fissarlo, dentro quelle iridi di fuoco incastonate sugli
zigomi spigolosi. Si era soffermata un attimo di troppo su quei lineamenti così
magnetici, che era rimasta assordata dai battiti del proprio cuore.
“Sorpresa”.
Fu l’ultimo sussurro, a fior di labbra, del suo carnefice, prima che questi se
ne andasse senza salutare nessuno.
“Quel
borioso egocentrico...Lo odio già”. Le lamentele di Francesca riportarono
l’amica sulla Terra.
“Però
resta incredibilmente sexy”. Claudia si sporse giù dal soppalco, appoggiata ai
gomiti.
Eva
la fulminò con lo sguardo: “No Cloud...lo
sono Sherlock Holmes...o Tony Stark...Questo è solo un fottutissimo uomo reale,
ex-tossicodipendente e come abbiamo visto, amante dell’alcool. Non confondiamo
l’immaginazione con la vita vera”. Pronunciò l’ultima frase con un brivido
lungo la schiena, forse più come monito a se stessa che alla sua Cloud.
Le
aveva dato quel soprannome anni addietro, prima che Daniele lo francesizzasse
in “Claude”.
Con
la pronuncia inglese, Cloud suonava
come l’abbreviazione del nome vero, Claudia, e assumeva il doppio significato
di nuvola. D’altronde era così che
spesso Eva vedeva la sua amica d’infanzia: una nuvola candida e allegra.
Francesca
invece...era soltanto Fra. Breve,
semplice, deciso. Come lei, del resto.
Fu
quest’ultima a uscire per prima dal letto, per afferrare il proprio violino,
appoggiato sul comò; l’attimo successivo sfiorò le corde con l’archetto, in
procinto di accordarlo.
“Diamine,
che mal di testa...” borbottò Eva imitando l’amica e alzandosi dal letto, per
poi puntare dritta al bagno.
L’immagine
riflessa nello specchio le diede solo la conferma di come si sentisse quella
mattina: uno straccio sbattuto con tanto di occhiaie, pelle cinerea e capelli
inguardabili. Con rassegnazione la ragazza li raccolse in uno stretto chignon,
per poi fermare i ciuffi più crespi con un cerchietto grigio.
L’acqua
del lavandino era ormai bollente quando ci tuffò il viso per cercare di
riacquistare un po’ di colore.
Claudia
fece capolino dalla porta: “Dove devi andare?” bofonchiò intenta a lavarsi i
denti.
“Un
cliente importante deve visitare la sua futura casa. O meglio, il suo futuro
attico da cento milioni di euro”. Eva non perse tempo col trucco, non voleva
arrivare tardi.
“Ma
è Domenica!” ribattè l’altra.
“Sì,
ma la Proto Organization non ha giorni di ferie. La Domenica l’ha inventata
Dio, mentre la Proto è...”
“E’
l’inferno, lo so!” completò per lei la biondina.
Eva
sorrise divertita; grazie all’amica e a un buon analgesico la giornata avrebbe
preso una piega migliore. Tutti gli altri casini potevano aspettare.
Il
jet lag era la cosa che odiava di più al mondo. Più dell’emicrania, della
nausea e dello spesamento totale in cui Robert Downey Jr. si era trovato dopo i
bagordi della sera prima.
La
camera d’albergo era un vero schifo; almeno in quello rifletteva il suo stato
d’animo.
Accanto
al retrogusto di vodka e di sigaretta, qualcos’altro rese più amaro il
risveglio dell’attore: erano secoli che non si incazzava così. Tuttavia quella
Gabriele aveva toccato i tasti giusti per farlo esplodere, anche senza toccare nulla
di fisico e tangibile.
Si
era trattato più di qualcosa di impalpabile, qualcosa che sembrava fluttuare
nei pochi centimetri di aria che li separavano; gli era bastato perdersi nel
suo sguardo magnetico per andare su tutte le furie.
Era
abituato a orde di fan urlanti, pronte a strapparsi i vestiti di dosso per lui,
ma non era preparato a quell’aria strafottente, sbattuta su un così bel viso,
come un trucco troppo pesante.
Era
lui di solito lo stronzo maschilista, soprattutto quando non c’era Susan a tirare
le fila del suo carattere irruento.
Come
uno strillo lancinante il suo cellulare prese a suonare; ci volle qualche
ritornello dell’odiosa musichetta prima che Robert si decidesse ad alzarsi. Nel
bel mezzo della ricerca, un groviglio di camicie e pantaloni finì sul suo
percorso come una trappola; Robert cadde con un tonfo sordo, schivando di un
soffio il comò; poco male, il telefono era proprio lì sotto.
L’uomo
rispose farfugliando un confuso: “Hello?”.
Era
l’agenzia immobiliare. Lo contattava per confermare l’appuntamento delle 11 in
punto. E al momento erano le...10 del mattino.
Aveva
meno di un’ora per resuscitare, lavarsi, rendersi presentabile e recarsi al suo
nuovo appartamento; o come lo avrebbe definito sua moglie, al suo “ultimo
capriccio immobiliare”.
Fanculo.
Resuscitare era l’unica cosa fondamentale. Per i restanti punti della lista, la
decenza comune sarebbe andata a farsi fottere.
Più
che un’azienda di marketing e design internazionale, quel gruppo sembrava un
piccolo corteo di servi e governanti alla corte del Re Sole. Fu uno dei tanti
pensieri polemici che Eva era solita tenersi per sè, per poi borbottarlo una
volta rimasta sola.
Quello
dove si trovava era un attico di cui non aveva tuttora individuato l’inizio e
la fine, ancora totalmente privo di mobili e per questo apparentemente più
immenso del reale.
Con
lei vi erano un paio di architetti e progettisti, la curatrice dell’arredamento
con il suo designer personale, l’addetta all’ufficio marketing con rispettivo
assistente e lui: Alessandro Proto.
Già
il fatto che i pesci grossi fossero scesi dall’Olimpo per quell’evento l’aveva
insospettita; ora erano lì, in fila indiana, alcuni concentrati sulla punta
delle proprie scarpe, altri sugli stucchi appena tinteggiati del soffitto,
tutti comunque sull’attenti come al primo giorno di leva obbligatoria, mentre
il “Generale Proto” sciorinava la sua ramanzina.
“Non
sono qui per ripetervi che siamo i numeri uno sul mercato, che da voi esigo la
perfezione e anche qualcosa di più”.
Eva
abbassò lo sguardo sui suoi stivali di pelle grigia, in tinta con la gonna; per
quell’evento aveva scelto una mìse semplice e sobria. Camicia bianca e
longuette a vita alta, in tinta con gli stivali e il cerchietto grigio; aveva
evitato la cravatta perchè insieme agli occhiali e alle lentiggini l’avrebbe
fatta sembrare una scolaretta con la divisa del college.
Il
discorso nel frattempo continuava: “Il cliente che sta per entrare da quella
porta è uno dei più importanti nella storia di quest’azienda. Ora penserete che
non vi ho detto di chi si tratta per motivi di privacy o simili...Beh, non è
del tutto esatto- l’uomo fece una pausa per dare più enfasi a ciò che stava per
dire- Noi siamo l’eccellenza con la “E” maiuscola, indipendentemente dal
cliente, senza se e senza ma”.
Inutile
dire che il suono del campanello fu incredibilmente d’effetto a quel punto del
monologo.
Lo
stesso Alessandro Proto andò ad aprire la porta; contro il briefing tenuto dal
sommo-capo, Eva si allungò curiosa per scorgere il misterioso proprietario di
casa...che poi tanto misterioso non era.
La
ragazza trattenne a stento un grido di sorpresa e nel farsi da parte dietro al
codazzo di ossequiosi dipendenti, si premette una mano sulla bocca. Non poteva
essere!
“Mr
Downey, questo è il mio team di fedelissimi”. Il diretto interessato buttò una
fugace occhiata al gruppo di salme immobile in un angolo, accennando un saluto
svogliato con la mano.
Alla
vista dei ben noti occhiali da sole, con tanto di cappellino da baseball, Eva
ebbe un tuffo al cuore e implorò di diventare improvvisamente invisibile. E
cominciò a pensare di avere un karma molto nero da espiare.
Fortunatamente
la voce civettuola e stridula dell’arredatrice sovrastò qualsiasi altra cosa:
“Se siete d’accordo, potremmo iniziare il tour della casa”.
Un
distratto Robert Downet Jr. fece cenno di assenso col capo, lasciando vagare lo
sguardo tra pavimento e soffitto, ignorando lo sproloquio dell’attempata
signora in tailleur beige.
Alessandro
Proto si accostò al suo cliente dalle uova d’oro mentre i restanti si
accodarono come un corteo religioso, di cui Eva era il terrorizzato fanalino di
coda.
Passarono
così la cucina, l’enorme salone su piani sfalsati che si affacciava sul
terrazzo ancora in ristrutturazione, per poi finire nella zona notte; mentre
l’istrionica curatrice del design illustrava come sarebbe stato con un mobile
lì, il letto laggiù, la cassettiera contro quel muro...Eva scrutava ogni sigola
mossa- o meglio, ogni singolo sbadiglio- di un annoiato Robert Downey Jr.
Sembrava
un bambino in gita scolastica al museo delle scienze; come poteva essere così
menefreghista e noncurante di tutto ciò che gli apparteneva?
La
ragazza scosse la testa: di quel passo ancora un paio di mesi, poi il suo locale
sarebbe andato a farsi benedire e con esso il proprio lavoro. Grandioso!
Con
immenso rammarico dell’arredatrice i “soli” seicento metri quadri di
appartamento- più cento di solarium- erano finiti, così il gruppo si apprestò
ad uscire.
“Prima
di salutarla, ci terrei a presentarle i membri del team che curerà la
realizzazione della casa”. Alessandro Proto si gonfiò nell’elencare nomi che il
blasonato attore si sarebbe dimenticato una volta abbandonata la futura dimora.
Non
posò lo sguardo su nessuno di loro; solo per caso così non fu per Eva.
D’altra
parte, benchè si fosse nascosta fino ad allora le era impossibile non spiccare
sopra quel gruppo di vecchie salme impagliate.
“Lei
è la mia assistente ai progetti di design- spiegò sempre il sommo capo- Curerà
la parte attuativa del progetto. E’ la nostra stagista più giovane ma è molto
esperta- si rivolse direttamente a lei- Eva, dopo lascia il tuo biglietto da
visita al Signor Downey, così ti contatterà direttamente per qualsiasi
evenienza” il cielo volle che il cellulare di Proto squillasse proprio allora.
Dal
canto suo la ragazza era rimasta in silenzio senza accennare neanche un mezzo
sorriso, con gli occhi fissi in un punto indefinito tra il mento brizzolato e
il primo bottone del colletto di...lui.
Il
resto del gruppo cominciò ad avviarsi verso l’uscita, mentre il sommo-capo
discuteva al telefono con un piede già fuori dalla porta.
Erano
rimasti solo loro due. E gli occhi scuri dell’attore cominciarono a farsi
pesanti, anche dietro gli occhiali da sole.
“Ci
conosciamo, per caso?” fu la domanda borbottata svogliatamente dall’uomo. Poi
si tolse berretto e occhiali.
Un
battito, due, tre e a Eva parve che il mondo si fosse capovolto; di nuovo
quello sguardo inquisitore che tanto l’aveva confusa la notte precedente.
Robert
stirò la bocca in un sorriso beffardo: “Sei un’attrice nata, devo dirlo. A
stento ti ho riconosciuta”.
Un
groppo in gola tolse il respiro alla ragazza: la Proto Organization era una
vasca di squali del marketing, della finanza e dell’edilizia. E lei aveva
nuotato nel sangue per avere quel posto, quella semplice, misera opportunità.
Ciò
che il sommo-capo aveva detto con paroloni altisonanti era vero, almeno in
parte.
Avrebbe
curato lei la parte esecutiva dei lavori: per “esecutiva” si intendeva
controllare le consegne dei fornitori, prendere appuntamento con idraulici,
elettricisti e impiantisti, stare attenta che i facchini non smiccassero i
mobili o non segnassero il parquet...in sostanza bassa manovalanza.
Ma
era in dirittura d’arrivo con la laurea
in architettura degli interni e la sua tesi...verteva proprio su quel
fottutissimo loft in Piazza San Babila.
Nessuno
sul posto di lavoro sapeva del suo impiego notturno, un’azienda di tale
prestigio non avrebbe tollerato nulla al di fuori dell’elegante perfezione,
totalmente agli antipodi di locali notturni, minigonne e tacchi a spillo. Una
parola storta a riguardo l’avrebbe sbattuta fuori. E in quel momento aveva di
fronte una montagna di parole storte, che vestivano i panni di Robert Downey Jr.
Così,
con un ultimo disperato colpo di genio, Eva improvvisò la sua migliore faccia
d’angelo: “Non so di cosa stia parlando, Mr. Downey”.
L’uomo
stava già per ribattere, quando un dubbio gli guizzò nella mente: e se i postumi
della sbronza gli avessero dato alla testa? Cercando di concentrarsi, si
avvicinò pericolosamente alla ragazza e focalizzò l’attnzione sui suoi
lineamenti.
Era
certo che fosse lei, senza ombra di dubbio...o quasi.
“Come
hai detto che ti chiami?”.
L’altra
abbassò ulteriormente lo sguardo: “Eva”. Punto. Calò un denso silenzio.
L’attore
esitò qualche istante, scansionandola da capo a piedi: stessi occhi grigi,
stesse labbra carnose, stesso ovale delicato.
Ma
quelle lentiggini c’erano, la notte prima? E i capelli...non erano una massa
riccia e voluminosa? Improvvisamente gli parvero diversi, così stirati sulla
fronte. Anche l’altezza lo insospettiva; la sera prima avrebbe potuto
affondarle il viso nel decolletè, ora lei lo superava di una spanna scarsa.
Improvvisamente
il suo sguardo si illuminò, causando a Eva un improvviso giramento di testa.
Non le restava che subire l’inevitabile sentenza.
“Sorella?”.
Un’unica parola, lapidaria e inattesa la stordì.
Le
parve di non aver capito: “Come scusi?”.
“Sorella!”
ripetè perentorio Robert, con tono più deciso; ancora Eva faticava a stargli
dietro. “Diavolo- l’uomo si innervosì- Hai una sorella?”.
La
ragazza sgranò gli occhi, indecisa se urlare dalla gioia o svenire per la
tensione: “Ehm...s-sì...sì” balbettò poi.
L’attore
si battè una mano sulla fronte: “Ma certo! Gemelle?”.
Eva
abbassò di nuovo lo sguardo; ora tremava e si limitò ad annuire lievemente. Non
voleva rovinare quell’inaspettata piega degli eventi.
L’uomo
si spremette le meningi per un’ultima conferma: “Gabriele, giusto?” l’altra
annuì di nuovo.
Fu
una liberazione: “Cavolo, ora si spiega tutto- Robert rise da solo- Che storia
assurda...Da non crederci: prima la sorella carina ma stronza, poi la gemella
un po’meno carina ma educata e remissiva. Decisamente non potevate essere la
stessa persona- l’uomo parlò ad alta voce, più a se stesso che alla sua
interlocutrice, noncurante di risultare sgarbato o peggio, cafone- Cristo, devo
piantarla con la vodka!”.
Eva
serrò le labbra, deglutendo l’arroganza di quelle parole con un groppo di
saliva. Sempre con lo sguardo basso parlò: “Se ha bisogno di qualsiasi cosa,
questo è il mio numero” il biglietto da visita le fu strappato di mano con
altrettanta noncuranza.
“Sì,
come vuoi tu...- Robert la liquidò con un piede già sulla soglia- Buona
giornata”.
L’attimo
dopo la ragazza era sola nell’infinito appartamento; le gambe le cedettero e
lei si lasciò cadere in ginocchio sui giornali lasciati dagli imbianchini. Con
un respiro profondo si liberò della tensione di poco prima. Per la
frustrazione, la paura e la rabbia non sarebbe stato altrettanto facile.