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Autore: S t r a n g e G i r l    16/10/2012    2 recensioni
Twilight senza mostri e magie.
Jacob, affidabile e onnipresente amico d'infanzia. Edward, dolce e romantica ancora di salvezza. Fin qui niente di strano, no?
E poi c'è Bella, o meglio Beauty, come non l'avete mai vista.
Dal primo capitolo:
“Nella vita che conduco io, maglioncini a collo alto e pantaloni zebrati sono solo decorazioni inutili. Quel che importa davvero è ciò che c’è sotto. Le persone che frequento per lavoro non si preoccupano che io sia ben vestita e abbia accostato in modo decente i colori. Quello che a loro interessa è che, una volta tolto il cappotto, io sia appetibile. Come una caramella avvolta in una bella carta luccicante, per intenderci. Ed ecco un’altra cosa che odio. Anzi, a dirla tutta, è in cima alla mia lista, scritta in rosso e sottolineata tre volte: essere ciò che sono."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Jacob Black, Jessica, Renèe | Coppie: Bella/Edward, Bella/Jacob
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Two. One-way ticket to the world of ordinary people.

Arretro spaventata, cercando a tentoni la borsa senza staccare gli occhi dai suoi.
Edward nota il mio gesto e mi accarezza la guancia, con una espressione tenera e dolce che mai nessuno dei miei clienti mi ha rivolto.
Ma lui ha mai fatto davvero parte di quella cerchia?
Inizio a pensare che abbia soltanto trovato una scusa per potermi parlare.
< Cosa hai detto? > chiedo rauca, faticando a dar voce a quella domanda.
< Io c'ero, Isabella. Non ti ricordi? > domanda e l'intensità del suo sguardo si altera.
Sembra spegnersi, affievolirsi come una stella morente.
E' ferito ed io non so nemmeno perchè.
E' una situazione folle, assurda ed io vorrei trovarmi dovunque tranne che lì.
Sotto le dita sento come decine di punture d'ago che mi invogliano ad alzarmi e a fuggire dalla casa di panna montata.
Voglio andarmene immediatamente, ma le mie gambe non collaborano.
Gli interrogativi che le parole di quel ragazzo hanno sollevato mi turbinano in testa a velocità frenetica.
Chi è davvero Edward Masen Cullen? E a cosa ha assistito?
Scuoto il capo, sotraendomi alla sua carezza.
< Chi diavolo sei tu? Che vuoi da me? Cos'è che dovrei ricordare? > sbraito di colpo, alzandomi in piedi.
Stringo le mani l'una nell'altra, nel tentativo di acquietare il tremore.
Le pareti immacolate di quel salotto impersonale sembrano chiudersi su di me, grandi fauci spalancate di un animale affamato.
< Voglio proteggerti. Voglio sottrarti alla vita ignobile che stai conducendo. Cerca di riportare a galla quel ricordo, Isabella. So che lo tieni nascosto da qualche parte perchè ti fa male. Il giorno in cui è morta tua madre... >
No.
Io non voglio.
Non voglio assolutamente!

Mi schianto sul pavimento, chinando la testa e piangendo prima ancora che le immagini si affaccino nella mia testa.

Piove.
E' la solita ennesima giornata inutile a Forks.
Le riconosco sulla pelle quelle così: mi sveglio con la pelle d'oca e la voglia di stare a casa in pantofole ad oziare, tanto so che se anche mi muovessi dal porto sicuro di quelle quattro mura domestiche succederebbe sicuramente qualcosa di spiacevole.
Ce li ho tutti segnati sul calendario i giorni storti: quelli in cui ti alzi borbottando, ti lavi i denti svogliatamente e ti infili i vestiti del giorno prima al contrario, fregandotene delle risatine dei tuoi insulsi compagni di liceo.
Prendi la cartella pesante con la consapevolezza di aver probabilmente adocchiato male l'orario e aver quindi preso i libri errati; ti dirigi in cucina con passi strasciati e trovi il frigo vuoto perchè, tanto per cambiare, tua madre non ha fatto la spesa.
Frughi, perciò, nella credenza alla disperata ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti e, alla fine, ti accontenti di una misera fetta di pane tostato insipido come colazione.
Una giornata iniziata male, che non si smentisce col passare dei minuti.
Il pick-up tossisce tre volte e poi esala il suo ultimo respiro con uno sbuffo di vapore nero, quindi devi anche andare a scuola a piedi di corsa, per non rischiare di essere chiusa fuori.
A metà tragitto, ovviamente, l'ombrello si squarcia e, di conseguenza, quando arrivi al cancello sei uno straccio da strizzare.
Ti togli di dosso più acqua che puoi e infine ti siedi stancamente su una di quelle sedie scomode, fissando senza interesse la lavagna sommersa di geroglifici dei professori che ti si alternano davanti con sguardo arcigno, cipiglio severo o sorriso compiaciuto.
Quando infine giungi all'ultima ora, vegeti in una specie di coma e i tuoi piedi sono ghiacciati nelle scarpe di tela.
Sbuffi e consegni il foglio protocollo col tema per casa tutto sbavato dalla pioggia e ti risiedi al tuo posto, aspettando paziente la campanella della salvezza.
A metà lezione, però, accade un imprevisto.
La comparsa del vicepreside, con una faccia lugubre, differenzia questa pessima giornata da tutte le altre.
La sua espressione costernata mi si imprime nel cervello e, istintivamente, inizio a tremare prima ancora che i suoi occhi dispiaciuti si posino su di me, dopo aver scandagliato gli altri venti volti dei miei compagni di classe.
< Signorina Swan, può seguirmi in vicepresidenza? > chiede con voce d'oltretomba, avvicinandosi e tenendomi la mano.
Ignorando gli sguardi pungenti e curiosi che mi vengono rivolti, mi alzo rabbrividendo e ficco nella cartella aperta e ancora gocciolante le mie poche cose.
Il corridoio è silenzioso. Tutte le porte sono chiuse e l'unico suono che percepisco è il passo militare del vicepreside Jones, lo stridio delle suole di gomma delle mie Converse e il ticchettare insistente della pioggia contro il tetto dell'edificio.
Incapace di reggere quella tensione ancora molto, pianto i piedi per terra e apostrofo in malo modo il dirigente scolastico.
< Cosa ho fatto, stavolta? Se è per il minestrone che ho buttato in faccia a Tyler, sappia che se l'è meritato. Mi ha palpato il sedere! >
Il signor Jones si volta e mi guarda con degl'occhi che esprimono stupore e anche compassione.
Faccio un passo indietro. Perchè non ha l'aria burbera di quando mi ha punito la scorsa volta, facendomi rimanere ben oltre l'orario delle lezioni per pulire le aule?
Viene verso di me e mi posa le mani sulle spalle, prendendo fiato.
Ho voglia di tapparmi le orecchie, ma so che sentirei comunque ciò che ha da dire.
< Isabella...devo darti una brutta notizia. > esordisce con un tono morbido che non gli ho mai sentito in bocca prima d'ora.
Serro le mani lungo i fianchi e stringo i denti.
< Tua...tua madre ha...avuto un... >
Mi mordo con ferocia le labbra, fino a quando sento il ripugnante sapore di ruggine in bocca.
La nausea che sguscia tra le mie viscere è una cosa concreta a cui posso aggrapparmi, perchè invece le parole del signor Jones dipingono i contorni di un incubo in cui potrei facilmente cadere, senza riuscire più a svegliarmi.
Lo interrompo prima che concluda la frase.
< E' grave? Dove l'hanno ricoverata? > domande brevi e secche le mie, perchè di meglio non riesco a formulare.
< Lei non...non ce l'ha... è... morta. > conclude con un sospiro il vicepreside
Scoppio a ridere, asciugandomi stizzita delle lacrime che non avevo sentito arrivare
Non è vero.
Non è vero!

Fuggo dalle braccia di quell'estraneo che si è divertito a farmi uno scherzo di cattivo gusto e mi precipito all'uscita, spingendo con tutte le mie forze contro le porte con le maniglie antipanico che non riesco a smuovere.
Gridando di frustrazione scendo al piano inferiore e mi butto in cortile, incespicando nei piedi e riacchiappando la cartella che continua a scivolarmi dalla spalla.
L'acqua scorre irrisoria sui miei vestiti, bagnandomi una seconda volta, mentre corro a casa, dove troverò mia madre stravaccata sul divano, con una rivista sul viso in un vano tentativo di rilassarsi dopo una mattinata sfiancante con dei marmocchi iperattivi.
Piango, singhiozzo e cado e terra, finendo carponi in pozzanghere melmose e viscide.
Mi rialzo tremante e riprendo a correre disperata, asciugandomi l'acqua dal viso con una mano sporca di fango.
Arrivo al cancello di scuola con le gambe di piombo e i muscoli atrofizzati, urtando un paio di genitori con gli ombrelli che mi guardano straniti.
Ho gli occhi annacquati di dolore trasparente e liquido, che si confonde con le gocce di pioggia che mi frustano la faccia.
Le parole del vicepreside ronzano nel mio cervello come se mi avessero impiantato nel cranio un vespaio chiassoso.
Scuoto la testa e continuo ad avanzare, finchè non crollo addosso ad un ragazzo.
< Tutto bene? > mi chiede, scostandomi i capelli fradici dal viso.
Il suo ombrello è rotolato a qualche metro da noi, ma lui non si cura della pioggia che lo sta infradiciando.
Continua a chiedermi se sto bene, cosa mi è successo e se mi serve un passaggio fino a casa.
Mi alzo barcollante, raccogliendo la mia borsa che gronda acqua, e lo sorpasso senza dire niente, nemmeno uno smozzicato "scusa."
Attraverso la strada con la testa china e le dita contratte sulla cinghia della cartella, affannandomi per accelerare il passo, incurante dei crampi ai polpacci.
Sui marciapiedi scorrono rigagnoli d'acqua sporca e foglie morte che cozzano contro le mie scarpe, prima di deviare il loro percorso e finire nei tombini.
Arrivata all'angolo di casa mia riprendo la corsa, salendo i gradini del portico tutti insieme.
Frugo nella cartella alla ricerca delle chiavi ed entro disperata, giocciolando tutto attorno, aspettandomi un rimprovero da mia madre.
Il salotto è silenzioso.
La luce è spenta ed il divano sgombro.
< Mamma? > la chiamo, gettando la borsa per terra e slittano sul parquet, nel tentativo di raggiungere le scale.
Probabilmente si è stesa a letto dopo essersi presa un calmante per il mal di testa.
< Mamma? > alzo la voce, reggendomi al corrimano del piano superiore fino ad arrivare alla porta della sua camera.
Inspiro profondamente, asciugandomi di nuovo la faccia, e giro con lentezza la maniglia.
< Mamma? > sussurro, intrufolando la testa nella fessura.
Vuota.
Il letto è sfatto, come l'ha lasciato stamani; il pigiama spiegazzato è buttato sul cuscino e i vestiti del giorno prima sono accasciati sullo schienale della sua poltroncina.
Scivolo lungo il muro, lasciandovi sopra una scia umida, e scorro le pieghe di quelle lenzuola sfatte che sanno di Chanel come se potessi rintracciare particelle di lei tra il cotone.
Non c'è.
Non c'è più.
< Mamma. Mamma. Mamma. > continuo a ripetere in una cantilena dolorosa e bruciante.
Tiro su con il naso, togliendomi ciocche gocciolanti dalla fronte.
Resto ferma in quella posizione finchè non sento i piedi formicolare e le gambe intorpidirsi.
Mi rannicchio, con le ginocchia al petto infossandoci la testa dentro, e tremo per il freddo penetrato sottocute, nel sangue fino ad atrofizzare il cuore.
Poi, di colpo, sento il portone sbattere e sollevo il capo stordita, strusciando verso l’ingresso della stanza.
< Mamma! MAMMA! > urlo, graffiando con le unghie il pavimento mentre i passi si avvicinano e salgono le scale.
< Bells! > due braccia calde mi avvolgono ed una mano grande mi accarezza la testa, spingendomi contro un collo impreziosito di profumo maschile.
Grido di dolore, guardando le mie speranze cadere al suolo e infrangersi come lastre sottili di vetro.
Le schegge taglienti schizzano in ogni direzione, graffiandomi le braccia e mordendo la pelle delle mie dita.
Artiglio la maglia di Jake, singhiozzando sulla sua spalla, e lui mi stringe forte fino a togliermi il fiato residuo in gola.
< Sono qui. Sono qui. > mormora, baciandomi i capelli bagnati.
Mi culla tra le braccia e borbotta frasi incoerenti, su come abbia appreso la notizia da Billy e sia corso da me, marinando la scuola.
< Va tutto bene, Bells. Vedrai che passa. >
< No, va tutto una merda, Jacob! Lei è morta. MORTA! Mi ha lasciato sola. Io non ho più nessuno! > urlo sul suo petto, prendendolo a pugni.
< Ci sono io, Bells. Ci sarò sempre. >
 
< Shhhhh, è tutto finito. E' tutto passato, Isabella. > torno al presente di colpo, ritrovandomi carponi su un pallido pavimento di marmo tra le braccia di Edward.
Lui è inginocchiato alla mia destra e mi stringe al suo petto, cullandomi.
Le sue dita sono fredde sulla mia pelle calda e percorsa da tremori, tanto che rabbrividisco e mi mordo le labbra nel vano tentativo di interrompere il flusso scrosciante di lacrime.
Le sue parole ed i suoi gesti rievocano quelli di Jacob nei giorni successivi alla scomparsa di mia madre, di cui ho solo un vago e insapore ricordo.
Fulgidi flash abbaglianti di un funerale sobrio e veloce, di terra smossa e fiori non troppo freschi.
Lampi trasparenti di lacrime trattenute e volti scuri su persone vestite di nero che conoscevano appena mia madre, solo di sfuggita.
Bagliori spenti di grida desolate, rimbalzate da lapide a lapide fino a sfiorare quella più nuova, incisa in caratteri obliqui e adornata della foto più bella che avevo trovato e che, tuttavia, non le rendeva affatto giustizia.
Mia madre ancora sorride in quella cornice ovale dai colori smorti. Mia madre profuma ancora di vita in quella polaroid scattata in un momento di distrazione il Natale precedente.
Di mia madre, quella, è l'unica cosa che rimane: una semplice foto su una croce grigia e fredda.
Senza vita, proprio come lei.
Mi alzo con difficoltà, traballando su quei tacchi vertiginosi che non ho mai smesso di odiare.
Edward mi sostiene per le spalle e mi aiuta a tornare seduta sul divano.
Mi porta i capelli dietro le orecchie e prende le mie mani contratte tra le sue, accarezzando la pelle del dorso col pollice.
< Ti... ti ricordi di me? > sospira, chinando leggermente la testa, come se non si aspettasse una risposta positiva.
< Scusa. > replico, serrando gli occhi per impedire ai ricordi di possedermi ancora.
La dose presa quel giorno è più che sufficiente.
Più che sufficiente per tutta la vita.
< Non importa. Non mi aspettavo di certo che tu...insomma eri sconvolta... > borbotta, allentando un po' la presa.
Scuoto la testa, accennando appena l'ombra tiepida di un sorriso.
< Scusa. Scusa per esserti venuta addosso, averti fatto bagnare e volare l'ombrello lontano. Un po' in ritardo, certo, ma scusami. > biascico, attendendo la sua reazione.
Cosa sto facendo?
Perchè do corda a questo ragazzo? Perchè gli fornisco un appiglio a cui aggrapparsi per scalare le mie difese? C'è il rischio più che concreto che riesca a giungere in cima a quel muro adornato di filo spinato e, in qualche modo, a buttarsi dall'altro lato.
Non che ci possa trovare chissà cosa: ad attenderlo ci sono alberi cavi e mangiucchiati dalle tarme, foglie morte e scricchiolanti sotto le suole delle scarpe dei radi visitatori, pozze melmose e scure, nebbia spessa come una cortina di zucchero a velo e versi di animali inquietanti.
Ecco quello che si annida nel mio essere; ecco quello che celo in profondità: un tetro scenario da film horror, che farebbe fuggire chiunque si arrischi a sbirciare.
Solo Jacob, finora, è stato abbastanza coraggioso da avventurarsi nel mio bosco lugubre.
Anzi, si è scelto una radura, l'ha resa abitabile, ha acceso un falò e preso fissa dimora tra le piaghe del mio cuore sanguinante.
Senza di lui, senza la luce che ha alimentato in me, io stessa sarei affogata nel mio dolore e avrei avuto un posto accanto alla lapide di mia madre.
< Ti...ti ricordi! > la voce di Edward è a dir poco entusiasta.
E' felice che io sappia di avere un legame, seppur sottile, con lui.
Io no.
Non voglio qualcun altro a soggiornare nei meandri della mia anima cupa.
Non voglio un'ennesima persona che pretende di psicoanalizzarmi e sviscerare la mia sofferenza.
Mi basta Jake. Mi sarebbe bastato sempre.
< Devo andare. > mugugno, arraffando la mia borsa e alzandomi in piedi.
Tiro fuori delle invisibili forbicine e taglio quell'esile filo che ci unisce.
< Aspetta, Isabella, ti prego. > mi afferra per un polso con gentilezza e mi fa voltare verso di lui.
I suoi occhi smeraldini sondano frementi il mio viso.
Mio malgrado ricambio lo sguardo, mentre le due estremità del filo si ricongiungono da sole, annodandosi strette l'una all'altra.
Che cosa ha questo Edward Cullen che mi fa vacillare?
Che cosa rappresenta per le mie speranze distrutte? Per la mia vita inesistente?
< Devo andarmene. > ripeto, più a me stessa che a lui.
< E se invece restassi? Io ti amo. Ti amo dal primo giorno in cui ho incrociato i tuoi occhi di cioccolata nei corridoi del liceo. > poggia le mani sulle mie spalle e accenna ancora quel sorriso
sghembo, arrossendo un po'.
< Mi dispiace, Edward. Io non so cos'è l'amore. > replico fredda, abbassando lo sguardo.
Davvero, non ho idea di cosa lui stia parlando.
Ho visto decine di coppiette tenersi per mano in strada, scambiarsi paroline zuccherose alle orecchie e baciarsi tra le lacrime, ma io non sono mai stata nemmeno sfiorata da una delle frecce del fantomatico Cupido.
I sentimenti di quelle persone con lo sguardo terso e felice ed il cuore traboccante d'amore mi accarezzano fugaci e poi mi lasciano andare.
Io non sono altro che un'ombra confusa tra scie di fumo rosso passione.
L'unico sensazione di calore nella mia grigia vita è rappresentata da Jacob, ma non è amore.
E' amicizia, condivisione, bisogno, necessità.
Per il resto, ogni altro sentimento mi è estraneo.
Io, Isabella Marie Swan, non sono capace d'amare. Sono un rifiuto umano che si trascina avanti, arrancando, nella speranza di scovare finalmente una scintilla d'emozione in decine di giorni uguali e senza nome.
< Non ti sto chiedendo di ricambiare quel che provo io. Ti sto chiedendo di lasciarti salvare, di permettermi di donarti una vita...normale. > mormora Edward, con voce seducente ed allettante.
Normalità.
Ecco un altro vocabolo sconosciuto nel mio dizionario.
L'ennesima parola che ho incastrato tra le dita rigide del cadavere di mia madre, cosicchè le portasse con sè, lontano da me.
Non potevo permettermi cedimenti o debolezze, al tempo.
Non potevo alimentare sogni e fantasie su cotte adolescenziali e libri di scuola.
In quel mondo di ragazzi sorridenti non c'era posto per me...ma non per questo non avevo mai desiderato assaggiare un briciolo della loro vita.
Mi sarebbero andati bene anche gli scarti, i resti buttati nel secchio della spazzatura.
Non ero avida; ero soltanto attratta da quelle prelibatezze che gli vedevo sbandierare con noncuranza davanti ai miei occhi, mettendomi l'acquolina in bocca.
Un morso glassato di interrogazioni; un boccone guarnito con panna al sapore di notti insonne per dei compiti in classe impossibili con la professoressa stronza di turno; una fetta al cioccolato con retrogusto di pomeriggi di studio tra amiche, sfociati in pigiama party chiassosi; una mollica zuccherosa condita con un timido sfiorarsi di mani con il ragazzo simpatico del banco accanto; una porzione spennellata di crema pasticcera al gusto di colazioni frettolose con una madre sempre di corsa che, però, alla sera ti ricompensa con abbracci e coccole sul divano.
< Non puoi. Nessuno può. > ribatto mesta, facendo schioccare la lingua.
Edward mi alza il viso con un dito sotto il mento.
< Il modo c'è, Isabella. Devi solo volerlo. >
Mi contorna il viso con le mani e, lentamente, si china sulla mia bocca.
Mi sfiora con le labbra, dandomi modo di scostarmi, se lo volessi, ma io non ne ho alcuna intenzione.
La sua dolcezza è qualcosa di mai sperimentato prima.
La premura dei suoi gesti, l'attenzione nei miei riguardi sono sorsate di normalità che ho sempre bramato.
Ecco cosa rappresenta Edward Cullen per me: la mia possibilità di fuga dalla prigione in cui sono rinchiusa.
Il mio biglietto di sola andata per il mondo della gente comune.
La quotidianità, la normalità.
La mia possibilità d'essere una ragazza ventenne qualunque, come Charlie spera sempre che miracolosamente diventi.
< Cos'è che devo volere? > chiedo quindi, strofinando il naso contro il suo, mentre nelle mie viscere si agita qualcosa.
Sembrano...farfalle?
Hanno ali piccole e tenere e cozzano di continuo contro le pareti dello stomaco, cercando di uscire fuori e svolazzarmi libere nel petto.
E' assurdo.
E' impossibile.
Edward sorride di nuovo e a me tremano le ginocchia.
< Diventare mia moglie. > sussurra, chiudendo gli occhi e baciandomi.


Angolo di un'autrice sopravvissuta alle placche alla gola che torna a rompervi le scatole:
Questo capitolo si conclude in modo ancor più folle del primo.
Mi rendo conto che a molte la proposta di Edward possa sembrare affrettata, ma lui è innamorato di Bella da anni, anche senza mai averle parlato.
La cercava con lo sguardo tra la gente per strada, studiava i suoi occhi curiosi mentre contemplava le vetrine dei negozi, moriva per i sorrisi che lei regalava solo a Jacob.
Coltivare un sentimento simile per anni ha portato Edward a maturare l'idea di poter salvare Isabella dandole il suo cognome; un cognome rispettabile e con esso una nuova vita.
E' un 'offerta generosa e altruista, ma come reagirà lei?
Spero di non essere finita nell'OOC con Edward. Non ho mai scritto di lui e la sua psicologia è parecchio lontana dalla mia.
Grazie a chi ha inserito la storia tra le seguite e a Emi e HelloPrudence per aver recensito il primo capitolo.
A questo sono particolarmente affezionata e mi commuovo sempre un po' rileggendo del giorno in cui Bella rimase sola.
Vi bacio ed abbraccio tutte.
Strange.

   
 
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