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Autore: Jay W    17/10/2012    2 recensioni
Ciao a tutti!^^
Questa è una storia nata dalla mia improvvisa passione per Iron Man (o dovrei dire Tony Stark?) e una lunga chiacchierata con mio padre sulla condizione di vita delle donne libiche, paese in cui ha lavorato per diverso tempo da giovane.
Premetto che non sono araba, non so molto della cultura araba e non ne capisco niente di arabo, ma qualche espressione in questa splendida lingua non volevo perdere l'occasione di mettercela, a partire dal titolo stesso, il cui significato vi verrà svelato più in là nella storia... Sempre che decidiate di continuare a leggere!XD
Enjoy^^
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Quella mattina, Tony Stark...


 

No, no voce narrante, sta' un po' zitta, ok?

Sí, lo so che sono stato io a dirti che forse era meglio lasciare continuare te e so già che mi pentiró di ciò che sto per fare, ma non posso lasciare raccontare a te questo capitolo, non posso proprio, è... Troppo delicato!

Si tratta di cose troppo intime, voglio essere sincero coi miei lettori e quindi voglio essere io a raccontar loro come sono andate a finire le cose.

Se un giorno, questa sottospecie di diario diventerà un best seller, allora ok: sei libera di prendere la parola quanto vuoi.

Ma l'ultimo capitolo è troppo importante e finché tutto questo resterà una confidenza fra me e loro, lascialo a me: avró pur diritto a porre da me la parola "fine" alla mia storia.

Perché è di questo, che stiamo parlando: della fine, del calo del sipario, della chiusura del libro.

Della fine nel senso più ampio del termine.

Quindi taci e permetti che mi congeda da solo, con dignità.

Vorrei rendere indimenticabile quest'ultimo fondamentale passaggio, ma non sono un bravo cantastorie, perciò vi chiedo scusa, gente, nel caso non dovesse essere affatto il finale che vi aspettavate.

Vi chiedo scusa.

Scusa per avervi preso a parolacce, scusa per avervi trattato male, scusa per essermi comportato da vero coglione.

Scusa anche a te, voce narrante, non volevo mancarti di rispetto con... Come? Dovrei chiedere scusa a qualcun altro? Vi riferite alla piccola, vero...? Ho provato a chiederle scusa, ma credo non basti una vita, a pareggiare i conti con lei...

Quindi eccomi alle prese con quest'ultimo capitolo... E quindi di nuovo nella merda fino al collo e, come sempre, nei guai mi ci sono cacciato da solo: un classico del mio stile! Ci avrete fatto l'abitudine, immagino...

Con cosa mi sono impelagato stavolta? Ma come con cosa? Con questo! Sí, esattamente con questo capitolo: voglio prendere in mano le redini del finale e spronarlo al galoppo fino al traguardo... Ma non so nemmeno da dove cominciare!

Mi suggerite di cominciare da un ricordo?  Ah, già: quasi dimenticavo che siete tutti dei piccoli fottutissimi Freud.

D'accordo... Ma ho ricordi piuttosto confusi di quella mattinata, solo pochi sono davvero nitidi.

Giusto: cominceró da quelli.

Ricordo nitidamente le lacrime di Pepper, il bacio della piccola e il volto sorridente di mia madre.

...Non ci avete capito niente, eh?

Ok, cercherò di riordinare un po' le idee e dare un senso logico alle tre cose che vi ho appena elencato, ma cercate di capire: nelle mie attuali condizioni, non serve a molto, ricordare e se lo faccio è solo per voi.

Dunque...

Tornando al discorso sul resistere o lasciare che i servizi sociali  mi togliessero la bambina, in quei momenti ricordo che sapevo che in qualche modo avrei fatto comunque un tentativo, perché nessuno fotte Tony Stark senza che lui nemmeno se ne renda conto.

Era mio diritto provarci, lottare per dimostrare ciò che non ero riuscito a provare fino ad allora, dar loro prova di essere perfettamente in grado di tenere la piccola con me, dar loro prova del fatto che avessi un cuore, sotto la lega di metallo e palladio che mi avvelenava il sangue, ma che mi consentiva di vivere.

Il reattore era il motore che consentiva biologicamente alla mia vita di non spegnersi; la piccola, forse, era quello per cui aveva ancora un senso non toglierselo dal petto.

Mandata a puttane la voce insopportabile dei miei pensieri, quando vidi la piccola entrare in laboratorio di buon mattino -Pepper aveva già provveduto alla sua colazione come una mamma- repressi negli angoli più remoti della mia mente tutto ciò che era avvenuto il giorno prima... E non era stato poco!

Cancellai l'incidente diplomatico con lei per l'orologio regalato al padre di Pepper; un patrimonio in orologi andato letteralmente in frantumi; avere assicurato all'assistente sociale che io e Pepper ci saremmo sposati, senza avere l'ombra di un piano di riserva per ovviare alla cosa...

Il fatto che, poche ore dopo, secondo la piccola, avessi "comprato" e quindi chiesto in sposa Pepper a suo padre, secondo voi... Voglio dire... Avrebbe dovuto farmi riflettere su qualcosa? Era solo una coincidenza?

No, no, fermi con le baggianate: le ragazze come Pepper, non sposano gli uomini come me!

Non che con questo voglia dire che mi sarebbe piaciuto sposarla, intendiamoci: il matrimonio non ha mai fatto parte dei progetti di Tony Stark!

Andiamo, mi ci avreste veduto davvero a fare il maritino???

Me ne sbat... Va bene, me ne infischio -meglio così?- del vostro coro di sì: Pepper non vivrà con me una storia d'amore alla Cenerentola, la piccola serva non sposerà il bel principe azzurro!

Lo so, lo so, so benissimo che Pepper non è affatto una piccola serva: lo è quanto io sono il principe azzurro.

Solo che la bellissima, preziosissima e serissima assistente personale di un magnate dell'industria delle armi donnaiolo, facile all'alcol e da cui sarebbe mille volte più probabile ricevere più o meno esplicite avances sessuali, che un biglietto d'auguri di compleanno scritto di suo pugno, non sposerebbe mai il suo capo.

Non avrebbe nemmeno ragione d'innamorarsene, a ben pensarci!

Potrebbe provarne pena... Ma non amore.

Lei sa di meritare molto di più, lei sa già di essere una principessa: non le occorre affatto che un eccentrico figlio di puttana travestito da principe glielo ricordi, no...?

Sto divagando, credo!

Che stavo dicendo? Ah, sí... Archiviai l'incidente col regalo al padre di Pepper, gli orologi distrutti, la faccenda delle cinquantaquattro mogli e la spinosa questione del fatto che la piccola mi credesse suo marito.

Nella mia mente, il nulla.

Tabula rasa.

Ripartii da zero.

Il matrimonio sembrava essere il bizzarro leitmotiv di quei giorni, e con esso gli orologi, l'essere genitori...

Cosa diamine erano, segni?

Sì, lo ammetto: la testa mi si riempì di concetti come il senso della vita, il tempo, le priorità e altre stronzate metafisiche!

La piccola, dopo la sfuriata del pomeriggio precedente, sembrava essersi decisamente calmata, anche se non potevo escludere che ce l'avesse ancora con me.

Tuttavia ignorai volutamente quella possibilità : non volevo che influenzasse la mia volontà di recuperare con lei o ricominciare tutto dall'inizio, se necessario.

Ho ricordi confusi e sfuocato, di quella mattina, ve l'ho detto... Ma le parole "mallak annaru war hab" mi risuonano ancora chiaramente nelle orecchie nella precisa intonazione in cui le pronunciava lei...

 
Stavo perfezionando e collaudando i propulsori prodotti in serie da Jarvis nelle ultime ore.

Erano belli e lucenti, di un bel rosso fiammante e le rifiniture dorate li rendevano preziosi e non comuni.

Centravo col raggio del guanto di vibranio le lattine di birra vuote, che avevo posizionato sul bancone di lavoro a uso bersaglio.

Le distrussi una per una.

-Mallak annaru war hab...- mormorò lei, fra sé, vedendomi colpire le lattine col raggio del propulsore rosso e oro.

Fu la prima volta che le sentii pronunciare quelle parole.

Le tesi la mano libera dal guanto perché mi raggiungesse e cercai quindi di spiegarle che non capivo quel che diceva e che avrebbe dovuto sforzarsi di farsi capire nella mia lingua.

-Mallaki! Mallak annariu war hab!-

Vidi nei suoi splendere una viva luce d'orgoglio, quando Jarvis tradusse per me.

-La traduzione letterale è "angelo di fuoco e oro", signore!-

Angelo... Ancora quella storia...

Tentai, credo inutilmente, di farle capire che non doveva chiamarmi angelo, ma papà. Che non avevo ali. Che potevo cadere dal cielo, come mi aveva visto fare, sí... Ma non volare.

A lei non sembrava affatto importare molto: al di là delle sue convinzioni, della sua ingenuità, c'era qualcosa di lei che non riuscivo a cogliere e che ebbi solo il tempo d'immaginare, di sfiorare.

Era qualcosa che leggevo nei suoi occhi languidi e nel suo sorriso sicuro: poco importava che io fossi una stella, un angelo, un marziano o un dinosauro... Non era quello il punto!

Non importava che io lo fossi o no: lei credeva, lei sapeva, lei aveva fede in me.

Ero un angelo di fuoco e oro, ai suoi occhi: stava a me, adattarmi alla sua visione...

Ma non ebbi il tempo di capire.

Fu come se da quell'istante, il tempo cominciasse a sfuggirmi letteralmente di mano senza che io potessi fare nulla per cambiare la cosa.

Basta un attimo e la vita ti si rivolta contro... Io ne sapevo qualcosa.

La verità è che sei costretto a percorrere una strada e la vita, talvolta, t'impedisce di sbagliare ancora percorso.

Questo succede quando non hai più tempo... Allora ti mostra la via e ti dice che è quello il momento di affrontarla. Che non c'è un dopo.

A quel punto non puoi fare altro che ubbidire e seguire il suo copione.

Pepper entrò in laboratorio di lí ad un minuto, pallida e con gli occhi gonfi e rossi di pianto: tra le mani un fax.

Ricordo che mi spiegò brevemente e con voce tremante che, la domanda di un nuovo esame del mio caso formulata da msr Parker, era stata respinta e che, in base ai dati raccolti il giorno prima, i servizi sociali avrebbero mandato, quel pomeriggio stesso, qualcuno a prelevare la bambina.

Tutto qui.

Game over.

Il silenzio di Pepper che seguì parlò per lei che, compostamente, lasciò il laboratorio e me da solo con la bambina, irritata dal non averlo potuto evitare, lo sentivo, e mortificata dal fatto di dover essere stata proprio lei a comunicarmi la condanna.

Non riuscii a direnemmeno una parola.

Conoscete la sensazione che si prova quando si dorme e si sogna di cadere? Amplificate quella sensazione per un tempo indefinito e imbottitela di rabbia.

Il risultato? Mezzo laboratorio distrutto in meno di cinque minuti, sotto lo sguardo disorientato della piccola.

Seguì il silenzio che aveva preceduto il tutto.

Mi tolsi il guanto e lo gettai sul bancone.

Presi in braccio la piccola... E in un primo momento non mi accorsi di ciò che stava accadendo.

-Jarvis, fa pulire questo posto!- ordinai freddamente, avviandomi alla porta con la ragazzina fra le braccia, perché non si ferisse coi vetri rotti sparsi ovunque.

Ciò che mi parve strano fu il non ottenere nessuna risposta da parte di Jarvis...

Ancora più strano fu quando la porta venne bloccata un istante prima che la aprissi.

-Metta a terra Sarah Stark!- mi sentii ordinare.

-Jarvis... Cosa cazzo stai...?-

-Non glielo ripeterò una terza volta, signore!- mi interruppe -Metta a terra Sarah Stark!-

Mi si geló il sangue.

Ubbidii: cos'altro avrei mai potuto fare?

Un attimo dopo, tutti i propulsori del laboratorio, cinquanta dei quali già terminati e perfettamente funzionanti, erano puntati contro di me.

Sí: fu proprio una di quelle situazioni che oserei definire, senza ombra di dubbio, "una situazione di merda"!

E, come al solito, mi ci ero cacciato da solo, con le mie stesse mani!

A nulla valsero i miei tentativi di disattivare Jarvis col comando vocale: non rispondeva più alla mia autorità.

La sua completa attenzione era stata assorbita da ciò che ero stato io ad ordinargli di fare: proteggere l'incolumità della piccola.

Il mio scatto d'ira era stato interpretato come "possibilmente lesivo alla persona di Sarah Stark", il pericolo ero diventato io... Ed era quindi me, che doveva distruggere.

Come da mia personale disposizione, dopotutto.

Porca puttana!

Non domandatemi come avvenne che, la parete alle mie spalle, venne completamente rasa al suolo, mentre io e la piccola ci ritrovammo miracolosamente illesi, rannicchiati e stretti l'uno all'altra, dietro il solido acciaio di uno dei miei banconi da lavoro, perché non ne ho la più pallida idea.

Quando Pepper, tornata di corsa a vedere cosa stesse mai accadendo, fu accolta da Jarvis nel medesimo modo riservato a me, capii che il computer era ormai completamente fuori controllo.

Non ero io, il problema: nessuno poteva avvicinarsi alla piccola!

Non potevo fermarlo.

Non potevo combatterlo.

Fu un momento, un breve, piccolo istante in cui realizzai che se volevo che nessuno si ferisse o peggio, se volevo che la piccola e Pepper uscissero illese da quella situazione, non avevo altra scelta se non quella di percorrere quei due metri che mi separavano dall'interruttore manuale sulla parete e disattivare manualmente Jarvis.

Pepper, fuori, mi fissava in lacrime.

Ma non avevo scelta: avevo commesso un errore e lo avrei scontato.

Quello sarebbe stato un gesto d'amore...?

Sì...

Sarei stato un buon padre, almeno per una volta nella mia vita, e se era destino che fossi separato da lei, lo avrei fatto di proposito, con una ragione valida: l'avrei fatto per amore.

Io non ero mio padre, ero Tony Stark: non avrei portato nella tomba con me chi amavo. Io l'avrei salvata!

E la vita, grazie al cielo, non mi aveva dato modo di scegliere quella via: me l'aveva insegnata e imposta.

Mi voltai verso la piccola... E mi sorpresi di non vederla spaventata. Tutt'altro era consapevole. Ed era orgogliosa di me.

-Ti amo, mallaki!- mi sussurrò.

Ed io non potrò dimenticarlo mai. Non potrò mai dimenticare il modo in cui pronunciò quelle parole: non era una figlia, non era una moglie innamorata... Era qualcosa di più. Era lo stesso folle amore che provavo io e a cui non sapevo dare un nome.

Le baciai le labbra con tutto l'affetto e l'amore del padre che non avevo avuto il tempo di essere.

-Tony?-

Mi voltai... E la vidi: lei era lì, bella come un angelo, in piedi vicino alla parete, a sorridermi giocosa e a rendermi le mani.

Lei era lì...

-Mamma...- mormorai in un sorriso sereno quanto il suo, nel vederla lì per me, nell'abito color panna che adoravo, coi capelli sciolti, i piedi nudi delle nostre passeggiate in spiaggia.

Era venuta a prendermi: cosa avrei potuto temere?

-Vieni qui, tesoro! Vieni da me!- mi incoraggiò sorridente, come quando mi invitava a seguirla in acqua a giocare.

No, non avevo paura, non più!

La piccola era al sicuro, e lo sarei stato anche io, molto presto...

Mi alzai e camminai piegato in avanti fra i due banconi d'acciaio che mi facevano in parte da scudo.

Avanzai verso di lei, lasciando che Jarvis abbattesse il mio corpo senza difese.

Non riuscendo a raggiungere direttamente me, colpiva i banconi, il pavimento, le pareti, distruggendo e facendo esplodere tutto ciò che gli capitava di colpire.

Ma io non sentii nulla.

Non sentii gli spari a raffica, senza tregua.

Non avvertii il dolore dei pezzi di metallo che mi entravano nelle carni, né le schegge che mi penetravano nelle ossa, né il vetro che mi feriva gli occhi.

Non avvertii la vita che mi abbandona sa: tutto era ovattato, come in un sogno, come in un film.

Vedevo solo lei.

Pigiai l'interruttore con le ultime forze rimastemi e quando, vittorioso, mi accasciai vinto ai suoi piedi, nell'improvvisa quiete che era scesa intorno e dentro me, e vidi l'immensa, brillante luce che la circondava, fui finalmente al sicuro e tutto tacque.

-Sono fiera di te, amore mio! Sono molto fiera di te!-

Sentii la sua mano carezzarmi la fronte, mentre mi sorrideva rassicurante: le carezze di mia madre furono l'ultimo meraviglioso dono di quella stupenda avventura.

Chiusi gli occhi, sereno.

E quella luce immensa e brillante più di ogni altra luce mai vista su questa terra, appartenne anche a me.











Note: Mmmmh... Non ho messo la parola "FINE"... chissà come mai! *trollface*

  
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