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Autore: Ely79    19/10/2012    2 recensioni
Mala è la cartografa dell'aeronave Zenobia, ma la sua mente è ben distante dalle rotte e dalle mappe. I suoi pensieri sono rivolti all'ultimo giorno di scuola di Ester, sua figlia, ed alla sorpresa che le ha preparato. Ma il viaggio riserverà qualcosa anche a lei...
Storia prima classificata al "Miscellaneous - Un altro Diabolico Contest" indetto da Releeshahn.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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III - In excelsis
Aleena
III – In excelsis1

«Meduse eoliche!» strillò eccitata Ester, saltellando e indicando l’ammasso di globi luccicanti che era salito a schermare il sole. «Delizia, le meduse! Le meduse!»
La cuoca emerse dal ventre della Zenobia per osservarle con attenzione. Era un donnone immenso, al punto da chiedersi come potesse stare tutta quanta nell’angusto spazio della cucina. La carnagione color zenzero era punteggiata dalle gocce del romesco2 che stava preparando e nella crocchia nerissima era infilato uno spiedo a mo’ di fermacapelli. Strinse gli occhi a mandorla fino a contornarli di rughe sottili, seguendo la direzione indicata dall’ospite.
«Oh, piccola, quelle non sono da zuppa. Servono quelle rosa, che sono appena nate e non hanno tentacoli velenosi. Quelle là sono grigie, sono adulte. Van bene da servire alla concorrenza. O a Farisa» scherzò.
«Ti ho sentita, brutta culona!» strillò il Comandante, sporgendosi dal castelletto di comando.
«Ehi! Modera i termini!»
«Perché? Sennò cosa mi fai? Mi copri di glassa per addolcirmi?»
«Yawa uoy evig sgniht elttil eht» minacciò, piantando gli enormi pugni sui fianchi.
«Nikatsim on eb… lliw ereht».
«Od I» replicò l’altra, sprezzante, incrociando le braccia sul petto.
All’udire quelle poche sillabe, Farisa perse il controllo e scavalcò la balaustrina con un salto.
«Uoy ot pu kool ylurt ot enoemos saw!» sbraitò, puntandole contro l’indice.
«Reappasid snoitareneg» replicò Delizia, posandole una mano sulla testa calva.
«Detnaw reve ev’uoy lla!» berciò furibonda, agitandosi come un tubo dell’olio rotto.
Le due si zittirono, volgendo lo sguardo su Ester che le squadrava a sua volta. Non avrebbero dovuto dimenticarsi che, nonostante trascorresse gran parte dell’anno a terra, Ester era nata nei cieli di Armada e capiva perfettamente la lingua di quel mondo sospeso, anche se non la parlava.
«Forse è meglio se vado dalla mamma. Se scopre che vi sento dire certe cose, siete nei guai. Ed io pure» fece la ragazzina, indicando la donna seduta a prua.
Mala alzò gli occhi dalle carte che stava tentando di leggere da quando avevano lasciato l’aviostazione di San Marino. Di solito erano il vento e le basse temperature ad alta quota a darle problemi, ma quel giorno, era l’immagine della Madonna del Pesce a infastidirla. Strinse la fibbia sul colletto della casacca, scacciando l’indolenza e la superficialità di quei discorsi dalla mente.
Guardò sua figlia che le andava incontro. Eccettuato per i capelli, la si sarebbe potuta scambiare per la sua copia in piccolo, soprattutto ora che aveva smesso la divisa scolastica. Indossava una giacca chiara fasciata di pelle sulle braccia e in vita, letteralmente ricoperta di tasche, che le arrivava poco sopra le ginocchia, e dei pantaloni neri di tela robusta - un cotone proveniente dalle colonie inglesi oltreoceano -. Ai piedi un paio di stivali senza tacco, stretti sul lato da un intreccio di lacci.
«Ehi, ti stanno bene. Temevo di aver sbagliato misura».
«Perché?» chiese lei, sedendole accanto.
«Ti ho trovata più cresciuta di quanto mi aspettassi» ammise. «Ti piacciono?»
Ester annuì con convinzione, sistemando i nodi delle stringhe. Vestita a quel modo si sentiva come Alina, la giovane piratessa dell’aria dei romanzi d’avventura che Cristina portava di nascosto nel dormitorio.
«Sì, tantissimo. E sono contenta che li hai presi senza fiocchetti e merletto. Sono una signorina, adesso» annunciò. «Per davvero» rimarcò con fare allusivo.
Il sorriso della donna si affievolì. Il lapis le sfuggì di mano, rotolando sul ponte.
«Cosa inte… aspetta. Stiamo parlando di…» e s’interruppe, studiandola con gli occhi spalancati per la sorpresa. «Parliamo del passaggio a diventare donna?»
Ester fece segno di sì con aria solenne e impacciata.
«Vuoi dire che…»
«Sì, mamma. Proprio quello».
Mala scrollò il capo sospirando e si stese sulla schiena con un braccio sugli occhi. Una ciocca, da cui pendeva un paio di sferette di vetro veneziano, sbatacchiò sull’assito.
«Che c’è, mamma?»
«Non ero lì con te» gemette.
«Beh, non è che avresti potuto fare chissà cosa…» replicò imbarazzata, stringendosi le ginocchia.
In quei momenti ricordava molto il padre, sempre restio ad approfondire le questioni più personali con chiunque.
«Lo so. Però è un momento particolare per una ragazza. Io avrei pagato qualsiasi cosa per avere vicino una persona che, non so… che mi dicesse che andava tutto bene, che non dovevo avere paura. Che il dolore sarebbe passato in un paio di giorni» disse, facendole una carezza in segno di scuse.
«Ma c’era Cristina. E anche Suor Celestina. Non ero da sola» obbiettò.
«Non è la stessa cosa, Ester. Io ero spaventata a morte. Nessuno mi aveva mai parlato di quel lato dell’essere donna. Pensavo di star per morire per i miei peccati come aveva annunciato tante volte mia madre, l’unica che avrebbe dovuto essermi d’aiuto e che non ha mai fatto altro che affossarmi».
«Perché dovevi morire per i tuoi peccati? La Madre Superiora dice che alla nostra età, il massimo dei peccati che si possono fare sono quelli di gola o di superbia. E per quelli mica si muore. Sono solo dieci Ave Maria e dieci Pater Noster» replicò con semplicità.
«Vedo che la Chiesa ha alleggerito le pene. Ai miei tempi erano venti per ciascuno e una decina di Actus contritionis… detestavo quella preghiera, era deprimente. Comunque, so che ti sarà difficile da credere, ma alla tua età ero tutto fuorché una brava bambina. O questo soprannome non me lo sarei meritato».
«Non te l’hanno dato ad Armada?»
«No» rispose, scuotendo il capo tintinnando. «È l’ultimo ricordo che ho della mia famiglia».
«L’hanno inventato gli zii?»
Ester non conosceva la famiglia di sua madre, se non attraverso i vaghi racconti suoi e di Suor Celestina, che era stata la sua insegnante di storia quando ancora frequentava la scuola. Sapeva che Mala era l’ultima di sei figli, tutti maschi. Il più grande di loro, lo zio Antonio, aveva nove anni più della sorella mentre zio Prisco, l’ultimo, ne aveva tre. Nel mezzo c’erano gli zii Giustino, Tiziano e Valerio. Secondo Mala erano cinque belve scatenate, capaci di buttar giù intere cinte murarie a mani nude solo per il gusto di far danno, ma Ester si domandava spesso come dovesse essere avere una famiglia tanto grande. Una vera famiglia, perché faticava a considerare gli equipaggi della Zenobia e del Turbinante come membri della sua.
«No. I nonni. Gli zii nemmeno mi chiamavano per nome. Proprio non esistevo per loro. Almeno finché non cominciavo a picchiarli» ridacchiò, allungando un paio di diretti a un avversario inesistente. «Guai a te se scopro che picchi i tuoi compagni. Tu non devi farlo, non ne hai bisogno».
«Ecco perché sai fare a pugni così bene» osservò Delizia dalla finestrella, rivolgendosi a Mala.
Di lei si scorgeva solo un occhio a mandorla, assottigliato da un sorriso.
«No, mamma, non picchio nessuno. Al massimo ho dato un libro in testa a Paola, ma di piatto. E piano. E l’ho fatto solo per difendermi» specificò con un sospiro annoiato.
In genere quelle rampogne erano appannaggio di suo padre, ma negli ultimi tempi ci si era messa anche lei. Proprio non capiva perché non si fidassero di quel che faceva al collegio. In fondo, erano stati loro a mandarcela.
«Tesoro, non hai idea di cosa voglia dire dover combattere con cinque maschi viziati e presuntuosi ogni giorno. I dispetti, le angherie,…  figuriamoci combattere sul serio per difendere la tua vita» la ammonì torva, ben sapendo che non avrebbe capito fino in fondo.
«Sì, sì, va bene, faccio la brava. Ma il soprannome che ti hanno dato i nonni?» riprese.
«Oh, di soprannomi veri e propri non me ne avevano dati. Di solito per identificarmi bastava trovare la parola giusta: malacreanza, malagrazia, malanimo, malalingua, malavoglia, malafede, malandrina, malasorte, malaugurio, malaventura. Ogni parola che cominciasse con “mala”. A tredici anni si aggiunse malafemmina, quando mio padre mi vide salutare – e ribadisco: salutare – un nostro vicino di casa che mi aveva praticamente vista nascere. Così, un po’ alla volta, di Malvina rimase solo la parte peggiore: Mala».
«Ma… erano davvero così cattivi i nonni?»
«Non erano cattivi. Solo troppo ottusi e pigri per cercare di capirmi» osservò stupita, scoprendo in quel momento di essersi fatta quell’idea.
«E per questo sei finita in collegio. Pensavano fossi cattiva e volevano darti una raddrizzata» ribadì.
«Sì, ma dopo quel saluto, mio padre pensò che fossi una disgraziata a tal punto che lo studio fosse solo uno spreco di tempo e denaro, perché nessuno avrebbe comunque voluta in moglie una svergognata come me, e decise che avrei dovuto farmi suora, visto che con loro stavo tanto bene» ridacchiò.
Ormai trovava la cosa divertente.
«Saresti andata bene come suora quanto me come membro di un harem!» ghignò Farisa, dondolandosi dal predellino sotto il pallone aerostatico.
«Però in convento non ci sei andata» proseguì Ester. «Suor Celestina dice sempre che averti fatto scappare dal collegio sarà stata pure una cosa brutta e che l’ha obbligata a lasciare Bergamo, ma che il Signore la perdonerà, perché sa di aver salvato un’anima. E poi, dice che San Marino le piace di più, perché è meno fredda d’inverno».
«Amen» concordò Mala, lasciandosi sfuggire un mezzo sorriso.
Ricordava ancora quella notte di vent’anni prima, quando le mani già ossute di Celestina l’avevano spinta oltre la porticina del muro di cinta, verso un vicolo buio ai piedi di Città Alta3. Sentiva le sue parole d’incoraggiamento, le indicazioni per raggiungere l’aviostazione di San Vigilio4, il freddo delle monete con cui la monaca aveva finanziato la sua fuga verso la città volante di Armada.
A Ester ora non interessava più conoscere ulteriori dettagli, ne aveva a sufficienza per fantasticare a volontà. La sua attenzione era rivolta all’abbigliamento della madre. Rivedendola nei suoi soliti vestiti da navigatrice la trovava più bella, più vera. Persino più giovane, nonostante le intemperie e la fatica avessero già segnato il suo viso.
«Sai che stavi benissimo prima? La madre di Miranda e Clara si veste sempre con quel tipo di abiti quando le accompagna a lezione. Lei è una cantante d’opera. Io però ti preferisco così» sentenziò abbracciandola. «Questa è la mamma che voglio, senza stecche e pizzi, ma con tanta ferraglia!»
«Insomma, preferisci un ingranaggio a una nuvoletta» ridacchiò Mala, contraccambiando la stretta.
«Quando finisco con la scuola, posso farmi i capelli come i tuoi?»
«Vedremo. Dipende dalla vita che sceglierai di costruirti».
Un’aeronave si era posizionata sopra la Zenobia, gettando una larga ombra sulla costa sottostante. Il brontolio torpido delle immense caldaie pioveva dall’alto, accompagnato dal ronzio cadenzato delle eliche.
Un tubo metallico scese dal mezzo, fendendo l’aria come un dito immerso in un bicchiere d’acqua.
Sul rivestimento si poteva leggere il nome del mezzo, dipinto in lettere bianche con una calligrafia semplice e precisa: Turbinante.
Uno sportello scivolò verso l’alto, spinto da pistoni a vapore che scaricarono nel vento sottili nubi di condensa.  Un uomo era aggrappato alla scaletta interna, cui era assicurato tramite una coppia di cavi. Una cicatrice saliva dal lato destro della mascella fin oltre l’attaccatura dei corti capelli scuri, diramandosi ai lati come una foresta di spine pallide, inquadrando l’occhio cieco.  Se non fosse sbucato dal condotto di sentina dell’aeronave, sarebbe stato facile scambiarlo per un pescatore, tanto la pelle era cotta dal sole.
Mise una mano alla fronte per ripararsi dal vento e dal riverbero del sole sugli ottoni della Zenobia.
«Ehilà, belle signorine! Vi va un po’ di compagnia?» salutò agitando il braccio destro, sostenuto da un marchingegno di metallo scuro.
Ester scattò in piedi con un enorme sorriso stampato in faccia.
«Papà!» gridò, raggiungendo di corsa il parapetto di sinistra.
«Farisa, rallenta a due e falli abbordare» gridò Mala, indicando le manette dei focolari.
«Cosa?! Quelli non ci mettono piede sulla mia Zenobia!»
«Ah, ci risiamo…» pianse la cartografa, aspettandosi l’ennesima lagna.
«Veramente è di tutte e tre!» ribadì Delizia, agitando un cucchiaio di legno dalla finestrella della cucina. «Io voto per l’abbordaggio. Se gli occhi non m’ingannano, nella cucina di Shara vedo delle rape e a me ne servirebbero un paio. Ehi, Shara! Shara! Avanti, fondo di tegame, retaw rednu xis dna!» strillò, infilando la testa nell’oblò lungo la fiancata.
«Faccio quello che mi pare! Non prendo ordini da voi due! Io sono il Capitano!» urlò l’altra, la testa lucida di sudore, dove cominciavano a intravedersi le vene gonfiarsi per l’isteria.
«Farisa, ti prego! Ti prego-ti prego-ti prego! Ti preeeeeeego!» pigolò Ester raggiungendola di corsa e saltellando aggrappata al suo braccio.
«Avanti, poche storie» ruggì Tancredi facendosi serio. «Il codice parla chiaro: se si è avvicinati da un’aeronave, a decidere dell’abbordaggio è il Capitano della più grande» e non c’era bisogno di porre l’accento chi fosse la persona in questione.
«Dai, Farisa, dai! Dai-dai-dai! Falli abbordare! Dai! Ti prego! Ti prego, Farisa! Dai!» piagnucolò Ester abbracciandola forte.
Farisa le scoccò un’occhiataccia inferocita, che avrebbe fatto battere in ritirata chiunque, ma non una ragazzina desiderosa di rivedere il padre dopo un anno di assenza.
«Oh, va bene! Basta che la smetti di strillare, gabbianella!»


1 In excelsis: in cielo.
2 Romesco: salsa spagnola a base di mandorle, pomodori, aglio, aceto e olio.
3 Città Alta: centro storico di Bergamo.
4 San Vigilio: rocca sovrastante Città Alta.
   
 
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