Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: Roxar    22/10/2012    2 recensioni
L'ultima esperienza di un mercenario, di un assassino, cui è stato commissionato di uccidere un bambino di soli otto anni.
Le ultime riflessioni, gli ultimi ricordi, l'ultimo sorriso prima dell'ineluttabile fine.
"E per la prima volta nella sua longeva e brillante carriera, desiderò non aver mai aperto quella maledetta busta sigillata."
Genere: Drammatico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Nuova pagina 1

Ogni riferimento a cose, luoghi, fatti o persone è puramente casuale.

La storia in tutte le sue parti è pura opera di fantasia.

 

 

 

 

 

 

 

 

Prima regola: visualizzare la missione.

 

Il proiettile percorreva incessantemente la sua lenta spola, dal naso al mento e viceversa, indugiando spesso nella piega morbida della bocca.

Aspirò il lieve sentore metallico che emanava dall’oggetto, increspando le labbra in una smorfia assorta e vagamente contrariata.

Capitava assai di rado che qualcuno riuscisse ad irritarlo; di indole pacata ed estremamente riflessiva, Hawk aveva sempre accettato e portato a compimento qualsiasi commissione, intascando un compenso più che lauto. Documenti falsi, il primo aereo in partenza e un nuovo paese. Cambiava identità con disarmante destrezza, allontanandosi velocemente dal tanfo di morte che, a distanza di vent’anni, gli era penetrato addirittura nella pelle.

Perfino il suo appellativo, Hawk, il falco, non era casuale; coniato dall’uomo che aveva alacremente servito per sette anni, inglobava ogni sua pregevole qualità: vista eccellente, precisione senza alcun margine d’errore, discrezione, silenziosità e un’innata attitudine alla fuga senza lasciar tracce, perché lo sapeva, nel suo lavoro occorreva ragionare inversamente e spesso l’inizio era la fine.

Requisiti fondamentali per un assassino. Requisiti che, nel suo mondo di tenebre e squallore, avevano fatto di lui il più richiesto.

Hawk ricordava tutti i nomi e i volti di coloro che aveva ucciso e non poteva di sicuro provare pietà o rimorso; si aggrappava ai loro crimini, si ripeteva che il mondo non ne aveva bisogno.

Aveva svolto il proprio lavoro con grande professionalità per vent’anni e mai, mai, era capitato che avesse rifiutato un incarico. Fino a che non gli era stata recapitata in busta sigillata una lettera con fotografia allegata.

Aveva letto le poche righe di istruzioni una sola volta, poi era prontamente intervenuta la sua bizzarra memoria eidetica, che aveva fagocitato l’immagine, imprimendola nel cervello; infine, era sopraggiunta la lingua sinuosa della fiamma dell’accendino.

Tuttavia, pur avendola a lungo fissata sino ad imparare ogni dettaglio di quel viso, si mostrò incerto con la fotografia, restio a bruciarla.

L’aveva, al contrario, affissa alla sua bacheca di sughero, tra un’anonima lista della spesa e un appuntamento dal medico (era necessario mantenersi in perfetta forma fisica per poter sostenere i continui spostamenti intercontinentali).

Poi s’era accasciato sulla sedia e si era distrattamente trastullato con il proiettile del suo AK-12, importato direttamente da San Pietroburgo.

Solo quando lo studio sprofondò nella penombra, che velocemente digradava nell’oscurità, Hawk si riscosse ed impugnò il proiettile, ben stretto nel palmo.

Quel lavoro andava fatto quanto prima.

 

 

Seconda regola: visualizzare l’obiettivo.

 

Il Queen Isabel Hospital venne fondato nel XV secolo, frutto delle ingenti donazioni della regina Isabella di Castiglia, la stessa regina che, nel medesimo secolo, aveva sovvenzionato il viaggio di Colombo, traendone gloria e prestigio.

Rinnovato e modificato nel corso dei secoli, l’ospedale era un titano di cemento armato e tecnologia d’avanguardia, a pianta rettangolare, che si stagliava al centro esatto di Abernathy, sprofondato nell’inappuntabile parco che si estendeva su un territorio di qualche ettaro.

Vialetti acciottolati si srotolavano nell’erba, arrestandosi dinnanzi alle principali attrattive del parco: un chiosco, una fontana progettata e realizzata da un capace architetto locale, uno spazio straripante di giochi per bambini e un’area di ricreazione, dove numerose panchine cerchiavano il lago artificiale che ospitava colonie intere di pesci e qualche piccolo anfibio.

Sparsi senza alcun apparente criterio logico, poi, piccoli boschi di pini e di laceri punteggiavano il parco, una sterminata coperta di patchwork nelle più svariate tonalità di verde.

Hawk spinse gli occhiali scuri sul naso, aprendo il quotidiano. Il titolo in prima pagina strillava della cattura di un pericoloso serial-killer ossessionato dai bambini.

Poco più lontano, un bambino pallido e senza capelli tirava calci al suo pallone, la fasciatura bianca stretta intorno al gomito che spiccava sulla sua pelle quasi cinerea.

Lo fissò per qualche minuto, impensierito. Quando finalmente tornò al proprio giornale, il bambino strillò qualcosa mentre il pallone rimbalzava contro le sue scarpe.

Il ragazzino, un po’ fiaccato, gli corse incontro, strillando faticosamente: «Signore, il mio pallone! Signore!».

Hawk si chinò e raccolse il gioco, porgendoglielo quando gli fu dirimpetto.

«Grazie, signore» disse, trafelato e spossato.

Le sue guance erano spruzzate di lentiggini, arrossate, un piacevole accenno di buona salute su un corpo afflitto probabilmente dal cancro o dalla leucemia.

I suoi occhi – grandi e verdi, eccessivamente lucidi – sorridevano di pari passo con le sue labbra.

Hawk non seppe trattenersi ed abbozzò un tiepido sorriso.

«Non dovresti correre a quel modo» lo rimproverò bonariamente.

«Signore, sono malato e mi resta poco da vivere. Voglio approfittarne prima di morire, sa» confessò disinvolto, con una rassegnazione fredda e lucida che sconvolse Hawk nel profondo.

Per un attimo solo, l’immagine di un altro bambino avvampò nei suoi occhi.

Non gli concesse il tempo di rispondere: strinse il pallone al petto e corse via, arrestandosi poi bruscamente davanti ad un’infuriata infermiera.

Hawk ripiegò con cura il quotidiano, posandolo sul posto libero accanto a lui.

Ripensò alla fotografia appesa alla sua bacheca. In quello scatto, quel ragazzino lentigginoso dagli occhi verdi gli era parso più anziano.

 

 

Terza regola: scegliere la via di fuga.

 

Attese pazientemente che il bambino – Simon Richard, otto anni – venisse scortato all’interno dell’ospedale da un’infermiera spazientita e nervosa. Trattenne il giornale tra il gomito e il costato, iniziando poi a percorrere lentamente il perimetro più esterno del parco.

Conosceva il meccanismo, la procedura: si considerava l’area divisa in diversi anelli e la perlustrazione partiva dall’anello più esterno; se nel mentre non fosse riuscito a trovare un buon punto di fuga, si sarebbe spostato verso l’interno, all’anello successivo e così via.

In verità, le sue armi e le sue prerogative lo rendevano un mercenario che operava al meglio sulle lunghe distanze; le brevi distanze, al contrario, lo innervosivano e precludevano diversi piani di fuga altrimenti attuabili.

Inoltre, includevano una certa dose di pericolosità e quindi un lieve margine d’errore: possibili occhi indiscreti, allontanamento rallentato dalla postazione di tiro, maggiore distanza dal perimetro esterno, possibile accerchiamento da parte delle forze dell’ordine e moltissimi altri inconvenienti.

Solitamente, Hawk prediligeva postazioni lontane e rialzate, così da avere una fallibilità pari allo zero percento. La sua precisione non faceva concessioni. Mai.

Il principale punto di forza di quell’ospedale era la sua vasta estensione e troppe poche zona in ombra o appartate.

Considerò il bosco di pini più lontano, scartandolo immediatamente: il tronco sottile degli alberi non era capace di occultare alla vista lui e il suo armamentario.

Poco più distante intravide un invitante salice dalle lunghe trecce di foglie, rigonfio abbastanza da garantirgli privacy e visibilità. Lo raggiunse con incedere lento e quasi annoiato (ben sapeva quanto le apparenze potevano giocare a suo favore o sfavore), studiandolo da ogni potenziale posizione di tiro.

Era ottimo. O almeno, era ottimo fino a quanto un autotreno non strombazzò alle sue spalle. Il perimetro all’estremo nord, di fatto, si adagiava su una delle arterie principali di Abernathy, a pochi metri dalla prima stazione di polizia.

Bestemmiò a voce bassa, scartando quella nuova opzione.

La soluzione giunse solo quando fu al terzo anello. Assurdamente addentrato eppure perfettamente al riparo e con una via di fuga comoda. Forzò, con consumata abilità, la serratura del capanno degli attrezzi, annuendo tra sé.

Era uno spazio quadrato, spartano, ma ben tenuto, perfino pulito. E, osservò soddisfatto, vi era una seconda porta, dirimpetto alla principale, che si apriva su un piccolo spazio abbracciato da una bassa palizzata, dove erano tenuti altri attrezzi da lavoro.

Dall’esternò, notò che il capanno era acquattato sotto un pino ombroso a sufficienza da celare la canna scura dell’AK-12.

Rinfrancato dall’esito positivo e incoraggiante del proprio sopralluogo, abbandonò il Queen Isabel Hospital. Il tempo stringeva e il suo conto in banca era appena stato gonfiato di cinquecentomila verdoni.

 

 

Quarta regola: affrontare i preparativi.

 

Il Kalashnikov AK-12, giunto direttamente dalla Russia una settimana prima, brillava sinistro, ammiccando al baluginio caldo della lampada.
Stupefatto e orgoglioso, Hawk carezzò piano le due impugnature, la canna liscia, percorrendo quindi con l’indice la curva dura del grilletto.

Sebbene l’arma possedesse diverse modalità di fuoco – fuoco semiautomatico, tre colpi, fuoco automatico – sapeva che un solo proiettile sarebbe stato oltremodo sufficiente.

Il bambino era giovane, gracile e malato. Da quanto aveva potuto osservare, prossimo alla morte. Una ferita qualsiasi avrebbe rappresentato un biglietto di sola andata verso il paradiso.

Il volto ridente del piccolo Simon gli passò davanti agli occhi e le dita si ritrassero, come scottate, dal calcio dell’arma.

Il rivolo di insicurezza e rimorso colò nuovamente fino allo stomaco, torcendolo.

Pensò che era solo un ragazzino – un ragazzino malato – e che si approssimava ad infrangere quel tacito codice personale che teneva lontano i bambini dalla scia dei suoi proiettili.

Capitava, però, che Simon Richard fosse il figlio di uno dei più importanti magnati del traffico d’armi, un potenziale rivale e pericolo per il suo nuovo mandante. Richard senior, sebbene fosse stato minacciato per ben sette volte, aveva preferito fare orecchie da mercante e sottovalutare la portata delle minacce, perfino quando la sua automobile era stata ridotta ad un cumulo di ferraglia bruciata. Era venuta l’ora che si facesse da parte, che avesse qualcosa cui pensare che non fosse il commercio illecito. Da quanto ne sapeva, l’uomo era particolarmente legato al figlioletto, unico legame vivente che restava di sua moglie Laura, scomparsa cinque anni prima. Aveva riversato tutto il proprio affetto su quel ragazzino, badando a tenerlo ben lontano dal suo mondo sporco.

Per ironia della sorte, quel bambino era stato la chiave di quel mondo da un paio d’anni, l’unico vero Tallone d’Achille del padre. E a Hawk spettava il compito di scoccare la freccia, calato nelle vesti di un Paride più cinico, determinato e decisamente meno romantico.

Indossò i guanti in lattice, attento a non lasciare impronta alcuna sull’arma e sui proiettili, maneggiando poi il Kalashnikov con estrema semplicità. Si chinò su un ginocchio – la migliore posizione da tiro – regolando quindi il mirino fino ad avere l’immagine perfettamente nitida del barattolo di vernice nera a tre metri da lui, come se fosse ad un palmo dal suo naso.

La palpebra chiusa tremò al ricordo di Edward.

Così piccolo, così vivace, così bello perfino nella morte. Vittima accidentale di una faida tra bande rivali. Il proiettile che gli aveva forato la gola aveva disintegrato anche la sua vita.

Immediatamente dopo il sobrio funerale, Hawk si era congedato dal corpo dei Marines ed aveva iniziato la propria vita da mercenario, iniziata dalla vendetta e proseguita sulla scia del denaro sporco.

Li aveva uccisi uno ad uno, quei figli di puttana, restituendo ad ognuno di loro il proiettile in gola. Nondimeno, qualcuno lo aveva scoperto e mentre attendeva placido il carcere, era arrivato un vecchio in abiti di ottima fattura, con una valigetta contente una foto e centomila dollari.

Le valigette, nel succedersi degli anni, erano progressivamente aumentate, svuotate in conti bancari sparsi in tutto il mondo.

Eppure, improvvisamente, capì che l’ingente somma di denaro a scapito del ragazzino era macchiata di un sangue che non era certo di voler versare. Il piccolo Simon e il suo Edward avevano molto in comune: le stesse guance lentigginose, gli stessi dolci occhi verdi, lo stesso carattere solare, la stessa schiettezza nei modi di fare...

Uccidere Simon sarebbe stato come uccidere Edward per la seconda volta e per sua stessa mano.

“Cosa sto facendo?” pensò, riaprendo gli occhi ed alzandosi lentamente.

Qualunque cosa stesse facendo, non era revocabile. Se si fosse voltato, sarebbe finito ineluttabilmente tra le braccia della morte.

Spesso la fine era l’inizio. Ma poteva capitare che la fine fosse semplicemente la fine.

Inserì uno alla volta, con movimenti meccanici, i proiettili, sino a che il caricatore non fu colmo. Innestò la sicura e lasciò che l’indice si agganciasse al grilletto, quasi aggrappandovisi.

E per la prima volta nella sua longeva e brillante carriera, desiderò non aver mai aperto quella maledetta busta sigillata.

 

 

Quinta regola: precisione.

 

Era tutto pronto.

Hawk si era minuziosamente documentato e aveva scoperto che nell’ultima settimana del mese l’ospedale avrebbe messo in piedi una caccia al tesoro riservata ai bambini, che avrebbe fatto da sfondo ad un’opera di beneficienza cui avrebbero partecipato diversi magnati d’America e, ovviamente, i genitori dei piccoli interessati.

Aveva immediatamente intuito che un evento presieduto da così tante personalità in risalto avrebbe comportato un rischio non da poco. Come immaginava, infatti, l’edificio era accerchiato da decine di volanti di polizia e i poliziotti – in uniforme e, ne era certo, in borghese – passeggiavano tra la folla o lungo il perimetro.

Per questo decise che avrebbe colpito durante il discorso d’apertura, quando l’attenzione collettiva era rivolta al direttore della struttura sanitaria, quando i bambini ne avrebbero approfittato per giocare tra loro prima che avesse inizio la caccia.

Tra quei bambini, Hawk lo riconobbe attraverso il mirino di precisione, c’era anche Simon Richard, calato nei suoi abiti più belli, chiari, puri. Pensò a come il sangue avrebbe sancito un drammatico contrasto e fu sopraffatto da un’ondata passeggera di rimorso.

E tuttavia non c’era tempo per i ripensamenti, né la prospettiva di una vita oltre il dietrofront.

Disinserì la sicura e, opportunamente celato dal capanno – unico punto scoperto tra tanta copertura di sicurezza – si preparò a prendere la mira. La canna volse lentamente a destra, curvando di una manciata di gradi. Il bambino dai capelli rossi era al centro della croce cerchiata.

Prese un respiro, il respiro, e lo trattenne nei polmoni. Il tempo d’azione a disposizione era lo stesso che l’anidride carbonica avrebbe impiegato a sporcargli il sangue.

Dieci secondi. Il senso d’un immobilità perfetta. La situazione in pieno controllo. L’indice modellato attorno al grilletto.

Un rivolo di sudore lungo la guancia.

Venti secondi. Il sentore d’un esigenza quasi prossima. L’ossigeno che diminuiva, l’anidride carbonica in aumento.

Trenta secondi. La mano che tremava, la testa del ragazzino sezionata in quattro perfetti quadranti.

Hawk bestemmiò e spinse da parte il Kalashnikov, prendendosi la testa tra le mani.

Inalò nuovo ossigeno, nuova aria, probabilmente l’ultima che i suoi polmoni avrebbero saggiato. Poi, silenzioso e rapido come un falco, andò via.

 

 

Sesta regola: il fallimento comporta un’unica via d’uscita.

 

Scelse un vecchio capanno situato nella periferia sud, disabitato e diroccato.

Gli pareva un bel posto dove morire: nell’aperta campagna, circondato da ettari di terre coltivate, pulite, dove la brezza risaliva dalla terra umida e soffiava sul viso, pura, catartica.

Ripensò all’ultima immagine catturata del piccolo Simon – sorridente e con le guance rosse – accostandola poi a quella del suo defunto figlioletto – vispi occhi verdi e un gran sorriso – e, per la prima volta dopo vent’anni, Hawk – Thomas Mason, si disse, ripensando al suo nome di battesimo – sorrise.

Poi afferrò il Kalashnikov, puntandoselo dritto al mento.

Il proiettile sarebbe stato espulso ad una velocità di novecento metri al secondo. Sarebbe morto che il dito doveva ancora premere a fondo il grilletto.

E l’indomani, forse, avrebbero ritrovato un suicida dalla testa esplosa, un uomo che, infine, aveva scelto di morire con la poca dignità che le molte morti non erano riuscite a sottrargli.

Chiuse gli occhi, pensando a Simon, chiedendo perdono a Simon.

L’indice si strinse attorno al grilletto. Meno di un secondo, si disse, è rinfrancante.

Le palpebre sfarfallarono solo un attimo, solo per lo spazio di un’ultima occhiata al cielo terso e pulito, azzurro.

Un ultimo sorriso e venne il momento.

«Per l’amor di Dio, non lo faccia!»

 

 

 

_____

 

 

 

NdA: Sì, termina davvero così.

Tipo che un finale più aperto credo non esista.

Ad onor del vero, è la prima volta che mi cimento in questo genere e non sono neppure sicura d'aver pubblicato nel posto giusto. Tant'è.

Ah, la storia è stata liberamente tratta da: "Bangkok Dangerous: il codice dell'assasino".

Bon, mi congedo e niente, se la storia vi è piaciuta sentitevi pure liberi di esprimere un parere.

Passo e chiudo.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Roxar