IL
QUARTO RE
Non riusciva a capire come mai si sentisse così strano, Siddartha: da qualche tempo,aveva preso a porsi, da solo, domande senza risposta. "Siamo al mondo per qualcosa. Ma se è così, a che serve la mia vita?" Una vita inutile e dorata, come il gingillo di un bambino ricco. Una vita riempita di cibi prelibati, partite di caccia e odalische di tutti i colori che regalavano piaceri proibiti alle sue inutili notti: le principesse più belle dell'India nel suo harem, i gioielli più preziosi nei suoi scrigni...Eppure, gli mancava qualcosa. Il dolore? Ma il dolore è brutto e cattivo, e Siddartha non doveva conoscerlo. Però a volte la felicità può diventare prigione. E quel desiderio struggente di Dio...
Voglio conoscere Dio, vederlo in faccia. S'era ripetuto in quei giorni. Dove posso cercarlo? Tra le pareti troppo scintillanti del mio palazzo tutto d'oro non riesco a trovarlo. E nemmeno in mezzo ai mostri di pietra del tempio: chissà dove si nasconde. Che anche Dio sia dolore?Dio è l'infinito. E quale peso c' è, al mondo, più grande del dolore?
Cercalo nella volta del cielo, nel calore del sole e nell'acqua che feconda la terra, cercalo negli occhi ridenti delle tue donne, nei sorrisi dei principini tuoi figli, gli avevano consigliato i saggi. Saggi, perché? Per i loro anni, i loro lunghi capelli e le barbe canute? Forse, solo per quello. Ma dov'era, Dio?
Quello che cerchi è nella volta del cielo, gli aveva detto l'astrologo. Segui la stella con la coda e forse troverai Dio, principe Siddartha. Ma perché vuoi abbandonare le tue dorate certezze per andare incontro all'ignoto? Contentati degli dei di pietra del tempio, principe poco saggio. Oltre le mura del tuo palazzo tutto d'oro, il dolore sta in agguato, come una tigre appiattata dietro un canneto.
Non avrebbe osato sostenere il suo sguardo e si sarebbe prostrato con la faccia nella polvere, chiedendogli di dare un senso alla sua vita. Che cos'è il dolore, Dio? Voglio conoscere il sapore amaro della tristezza, il colore cupo della paura, il peso infinito delle lacrime, per questo ti ho cercato, per questo ho seguito la stella. Fai di me quello che vuoi: questo diamante,il più grande e il più prezioso mai estratto dalle miniere di Golkonda, è puro e trasparente come la fiducia che ripongo in Te. Voglio offrirti anche uno smeraldo e un rubino: il verde delle foglie degli alberi, dell'erba che rinasce, della speranza. E darei la mia vita, il mio sangue per Te, così come ora ti offro questa pietra che ha il suo colore. Sono nelle tue mani, Dio.
La carovana aveva seguito la stella, passo passo per deserti e per foreste, per città dalle cupole dorate e per piste gialle di polvere, nella luce accecante del giorno, nel buio inquieto della notte, punteggiato di ululati di sciacalli e di voli silenziosi di mostruose creature. Il corso della stella andava verso occidente, ma piano, come l'incedere del cammello mongolo e dell'elefante bengalese. Chissà quanto era lontano, Dio. Chissà quando avrebbe avuto le risposte che cercava, Siddartha.
La voce del dolore il più delle volte non grida ma piange lacrime silenziose e tanto amare da bruciarti nel cuore, prima ancora che nella gola e negli occhi.
"Tu non puoi conoscere quello che prova una madre a veder morire i suoi figli"gli aveva detto alzando su di lui gli occhi rossi, il volto senza bellezza, la mendicante. "I miei bambini si torcono per la fame e non hanno più nemmeno la forza per piangere: ma a te ricco, a te potente, a te sazio, che cosa importa di quelli come noi? Che puoi fare? Niente, e anche qualora potessi, non faresti niente lo stesso. Fosse almeno venuta la morte, invece di te, sarebbe stata la liberazione..."
La tristezza sapeva di quel pianto e di quel rimprovero, aspro e bruciante come sale sopra una ferita. Aveva il colore smorto di quella faccia dolente,era il marciume di quelle piaghe: le lacrime di chi muore di fame pesano come il mondo. Ma Dio aveva risposto alle sue domande. Ora toccava a lui rispondere a ciò che gli domandavano gli occhi cisposi e la bocca sdentata della sofferenza. Scese da cavallo, aprì lo scrigno. Un raggio di sole trafisse la trasparenza purissima del diamante, frantumandosi in una miriade di iridescenze multicolori.
"Vado in cerca di Dio e la mia anima dev'essere pura. Non posso lasciare che muoiano. Se questo diamante, donna, può asciugare le tue lacrime, salvare la vita dei tuoi figli, Dio mi perdonerà."
"Sacrilegio, sacrilegio! Il diamante più bello mai estratto dalle viscere della terra era per il trono di Dio, non per asciugare le lacrime di una nullità repellente e maleodorante come quella, non per calmare i morsi delle ributtanti pance vuote di creature che hanno più solo la pelle sulle ossa!" "La maledizione di Dio sarà presto su di noi!"
Così avevano parlato dignitari e servi, prima di lasciarlo solo: ma il chiarore lontano della stella, nel cielo che andava oscurandosi, sembrava dirgli: "L'hai trovato, principe Siddartha, quello che cercavi: Dio è nelle lacrime che riuscirai ad asciugare." "Andate, ipocriti maledetti! Non ho paura della notte, ora che Dio mi è vicino".
Quante volte il principe Siddartha incontrò Dio nelle lacrime che riuscì ad asciugare? Regalò il rubino rosso come il sangue in cambio della libertà di un piccolo schiavo: anche il pianto di uno schiavo pesa come il mondo. Lo smeraldo verde come la speranza diventò la dote nuziale di una ragazza povera, le perle del suo turbante divennero pane per gli affamati che incontrava lungo la strada, le gemme che ornavano l'elsa della sua scimitarra ristoro a pianti che da tanto, troppo tempo, non conoscevano conforto. Regalò il suo cavallo, il suo mantello, i suoi abiti alla miseria in cui si imbatteva lungo il suo cammino. E,man mano che donava, diventava più povero, ma sentiva Dio vicino, finalmente: il Dio che fa la notte giorno, che è conforto nella solitudine.
La stella si era spenta, il cammino era lungo, il tempo passava, inesorabile. Ma Siddartha continuava a camminare,nel giorno e nella notte, sempre più vecchio,sempre più provato e misero, chiedendo a Dio soltanto di non farlo morire, prima di averlo guardato in volto.
Quanto aveva camminato, trascinandosi sulle gambe malferme? Trentatre anni, aveva contato con pazienza lo scorrere del tempo, giorno dopo giorno. E del bel principe partito dall'India alla ricerca di Dio, non era restato nient'altro che un miserando relitto dal corpo piagato e mal coperto da quattro stracci sudici e puzzolenti, che avanzava, a passi incerti, verso le mura di Gerusalemme, sbocconcellando un tozzo di pan secco avuto in elemosina.
Un povero cane spelacchiato gli si avvicinò e alzò su di lui gli occhi grandi, imploranti: i cani piangono senza lacrime, ma anche il pianto di un cane è dolore. E Siddartha arrancò verso Gerusalemme, seguito dal povero cane con cui aveva diviso il suo ultimo boccone di pane.
La città, presidiata dai miliziani del tiranno, era in subbuglio: c'era odore di festa e di ribellione, per le strade. Siddartha si scelse un angolino tranquillo, a ridosso di due muri, per passarci la notte. Il cane gli avrebbe dato compagnia, calore, e avrebbe impedito ai monelli di molestarlo: i monelli molestano sempre gli accattoni, lui l’aveva imparato a sue spese, ma ormai si sentiva troppo vecchio e stanco per reagire a quelle angherie vigliacche. Le membra gli si erano fatte fiacche, le palpebre pesanti, gli occhi volevano chiudersi. La fine era vicina, ma Dio? Scacciò con la mano un nugolo di mosche. Dal fondo della strada, il suo debole udito percepiva rumore di folla, cozzo di armi che si urtavano sferragliando.
Che cosa stava succedendo? Trascinavano tre delinquenti al patibolo, tra gli insulti della gente. Due ladri dalle facce torve. E l'altro...Qualcuno diceva che fosse innocente: era un bel giovane dalla carnagione olivastra e dai lunghi capelli neri imbrattati di sangue. I suoi occhi, nella faccia scavata e sofferente, erano gonfi di lacrime amare.
"Non ho
più nulla. Non posso
fare più niente
per te: mi dispiace".
Sussurrò
Siddartha con la voce che si spegneva,
mentre la nebbia gli velava gli occhi.
"Non importa." sembrò rispondergli il silenzio del condannato, il faticoso sorriso delle sue labbra gonfie "Il tuo niente vale più di tutto l'oro del mondo."
Lo trovarono l'indomani, appoggiato al muro: sembrava dormisse,il suo volto era sereno e come illuminato da un lontano sorriso di gioia; era riuscito a guardare Dio negli occhi prima di lasciare il mondo, Siddartha.
Lalla