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Autore: HarryJo    25/10/2012    5 recensioni
Le ragazze non possono fare a meno di pensare a quanto sarebbe bello dimagrire un po’. Anche chi è in forma, ha un fisico perfetto e non dovrebbe godere di certi problemi, si ritrova a dire spesso: “Devo mettermi a dieta, maledizione!”, ignorando quale sia, la vera maledizione.
Perché avere qualche chilo in più può sembrare una disgrazia, qualche volta. È una tortura mangiare quel poco che serve e vedersi ingrassare sempre di più.
Ma nessuno pensa che può esserci un altro male, molto ben più grave.

Ci sono poche cose di cui Arianna è realmente fiera nella sua vita; una di queste è l'avere un fisico perfetto nonostante si abbuffi a tutte le ore.
È motivo di vanto fino a quando un giorno, con orrore, verrà a sapere che, anche se mangiasse senza sosta, continuerà a dimagrire.
Fino a sparire, inesorabilmente.
Che ne dite di ritornare sul vostro mondo? Qualche chilo in più non sembra così male ora, non è vero?
Oppure continuate a leggere. Perché questa è la storia di una diagnosi riservata. Il verme solitario ha paura di questo romanzo, e ne avrà anche la vostra bilancia.
Siete ancora in tempo per tornarvene nel vostro mondo.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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∞ Capitolo primo ∞
 
BREATHE, BREATHE IN THE AIR,
DON’T BE AFRAID TO CARE.
“Breathe”, Pink Floyd, The dark side of the moon, 1973.

 
 
 

I
 

l profumo dell’erba fresca raggiungeva le mie narici ed io ispiravo a fondo senza voler pensare ad altro se non a quanto era raro e importante sentire quell’odore. Mi ero distesa sul giardino vicino al Sile, ignorando bellamente il cartello che recava la scritta non calpestare l’erba. Dopotutto chi aveva inserito quel cartello doveva averla pur calpestata, no? Quindi se l’aveva fatto lui io non mi ritenevo da meno. E poi non mi importava, in quel momento, di venir sgridata o multata per una sciocchezza simile: non si deve pagare perché si vuole vivere. Respirare quell’odore, infatti, per me era la più grande forma di vita che potessi desiderare.
L’acqua del fiume quel giorno era incredibilmente limpida, come se fosse stata appena depurata. Rifletteva l’azzurro caldo del cielo ed accoglieva alcune anatre che continuavano a nuotare avanti e indietro, come alla ricerca di qualcosa. Mi piaceva soffermarmi a ipotizzare che cosa stessero pensando in quel momento: cercavano del cibo? Oppure stavano facendo una gara come se fossero in una vasca di una piscina? E in quel caso, quale sarebbe stato il premio finale? Di sicuro le anatre non avevano medaglie che potevano sfoggiare in giro per dimostrare di esser le migliori.
Una di queste, un po’ più piccola rispetto alle sue compagne, restava ferma in un angolo a guardare il suo riflesso nell’acqua e a studiarsi. Anch’io spesso lo facevo, quando vedevo me stessa rispecchiata in uno specchio, sul retro di una pentola o al mare: cominciavo a chiedermi quale fosse la vera me, se la debole rifrazione oppure quella in carne ed ossa. Una volta, mentre mi rimiravo nell’acqua marina alla ricerca di una risposta a quell’inutile domanda, era arrivato un pallone giusto a colpire quello sprazzo di riflesso del mio volto, costringendolo a svanire in tante piccole onde. Avevo subito pensato che avessero appena ucciso una parte di me e che da allora non sarei mai più riuscita a vedermi nell’acqua. Dopo qualche minuto avevo scoperto subito che non era così, ma, nonostante ciò, per me non era più lo stesso; avevo il terrore di esser di nuovo colpita e di svanire tra le onde.
Mentre continuavo a pensare a quello, cominciai a sentire un brontolio allo stomaco e sospirai, triste. Avevo fame, di nuovo. Ormai era diventata quasi una tortura questa orrenda insaziabilità. I latini avrebbero definito il mio stomaco “vastus”, esattamente come Sallustio aveva definito l’animo di Catilina nel suo celeberrimo ritratto: grande e mai completamente pieno, mai soddisfatto.
Guardai l’ora e con un piccolo sbuffo mi alzai dalla comodissima posizione che avevo ormai assimilato e mi rimisi a posto la felpa, togliendo qualche ciuffo d’erba che vi era rimasto impresso, pronta per prendere la corriera e andarmene a casa. Raccolsi lo zaino da terra e me lo issai sulla spalla destra, distrattamente: un gesto talmente meccanico e abituale che nemmeno mi rendevo conto di compiere.
Mi recavo spesso, lì. Non ricordo esattamente quale fosse stata la prima volta in cui mi sia seduta in quel prato a pensare, in silenzio con i miei pensieri. Era uno dei pochissimi posti in cui riuscivo a stare calma in tutta Treviso, senza l’ansia costante di dover per forza parlare, stare attenta a dove mettere i piedi, preoccuparmi di non andare addosso a nessuno. Lì potevo appoggiarmi a terra, guardare il fiume o il cielo e respirare, semplicemente. Mi ero accorta solo poco tempo prima di quanto fosse bello respirare e l’avevo assunto quasi come fosse una specie di hobby, insieme ad ascoltare la musica anni Settanta/Ottanta e strimpellare distrattamente la chitarra fingendo di essere davvero brava.
Respirare, semplicemente.
Potete darlo per scontato, dopotutto è un gesto involontario che compiamo tutti, bambini, giovani, adulti, anziani, indistintamente. Eppure come respiravo io non respiravano in molti, perché mi sentivo più viva che mai, più consapevole che mai di esistere in un frangente di spazio e tempo in cui tutti erano troppo impegnati a recarsi a lavoro, a scuola, a casa, a guardare quel telefilm o a giocare a quel videogioco, per rendersi veramente conto di esistere.
La mente dimentica certe sensazioni. Comincia a darle per scontate, a sottovalutarle e quindi a obliarle in qualche punto remoto dei pensieri. Respiro, cammino, parlo. Non vi rendete mai conto di quanto sia a dir poco sensazionale tutto questo? No, siamo troppo immersi a vivere la nostra vita per renderci conto di come la viviamo.
Io invece avevo cominciato a farci parecchio attenzione. Per quello spesso cercavo uno spazio per restare da sola; non che non amassi la compagnia, ma la solitudine mi rinfrancava. Mi permetteva di ascoltare me stessa e i pensieri che nessun altro avrebbe mai potuto sentire.
Così utilizzavo quei giorni vuoti, quelle ore perse, quei momenti rubati a qualsiasi altra occasione: respirando la mia vita, chiedendomi se davvero ogni giorno mi perdevo così tante cose, nella fretta di riuscire a competere con il tempo. A volte, come quella mattina, non mi rendevo conto dei minuti che passavano, e prendevo la corriera proprio per un soffio, dopo una corsa a perdifiato.
Tagliavo la strada attraverso vicoli che a malapena riuscivo a riconoscere, in fretta e furia, per riuscire ad arrivare in tempo. Non che mi sarebbe dispiaciuto rimanere lì più a lungo, ma i miei genitori erano sempre stati abbastanza severi in questo: niente ritardi se non per seri motivi.
Di certo vivere era un serio motivo, ma dubito che loro avrebbero mai capito. Era come chiedergli di ascoltare la poesia di Marooned dei Pink Floyd: non avrebbero mai saputo restare ad ascoltare un brano strumentale e coglierne l’appagamento totale. Non tutti, purtroppo, sono capaci di mettere per un secondo in stand-by la propria vita per respirare.
Io ero orgogliosissima di me, sotto questo punto di vista.
 
 
“E ce la fa!”
Chiara mi sorrise, mentre mi sedevo al suo fianco, con il fiatone, e la corriera ripartiva, veloce. Era serena quel giorno: gli occhi marroni le illuminavano il volto cereo, e i lunghi capelli castani erano curatissimi, come se li avesse appena piastrati. I miei, invece, erano incrostati di sudore e risultavano una nera chioma ribelle e indomabile.
“Sinceramente, Arianna, dovresti metterti una sveglia. Non puoi sempre correre la maratona per prendere la corriera.”
“Fino ad oggi ha funzionato,” sospirai, chiudendo gli occhi e distendendomi contro il sedile, cercando di calmare i battiti del cuore. Assurdo: in quei momenti, nel pieno dell’adrenalina, non mi sentivo così viva come quando me ne stavo per conto mio a respirare. “Com’è andata a scuola?”
“Bene,” rispose. “Finché non mi interrogherà in latino andrà sempre tutto bene.”
Risi, piano. “E quando succederà che farai?”
“Andrò a nascondermi in Australia e alleverò canguri, cercando di sfuggire alle ire di mio padre.” Alzò le spalle.
Chiara sapeva benissimo che i suoi genitori avevano molto a cuore la sua istruzione, ma nonostante questo non si premurava troppo di studiare. Era convinta che vedere tutte le puntate di Doctor Who e di Glee fosse molto più importante della vita di qualsiasi altro autore latino. Potevi chiederle qualsiasi cosa di quello che facevano in televisione e lei era informata su tutto. Aveva visto ogni film esistente al mondo, conosceva un sacco di attori e registi e aveva persino creato un elenco delle migliori pubblicità del momento.
Era completamente immersa in quel mondo virtuale, cosa che la rendeva un’inguaribile sognatrice, un’ottimista di prima categoria. Eravamo molto diverse e questo era il nostro più grande punto di forza e allo stesso tempo il nostro più grande distacco.
“A te com’è andata?” domandò, mentre apriva lo zaino.
“Hai del cibo?” chiesi, ingorda, ignorando completamente la sua domanda. Non avevo nulla da raccontarle: avevo saltato l’ultima ora per evitare una disastrosa interrogazione in storia e, a parte i momenti di respiro che mi ero concessa al suo posto, non c’era stato nulla di emozionante quella mattina.
“Sì, devo avere dei biscotti al cioccolato da qualche parte,” rispose, continuando a cercare tra i libri.
Lei non mangiava mai una merenda in ricreazione, ma sua madre gliela preparava ogni mattina sopra al tavolo, quindi la metteva nello zaino aspettando di vedermi. Sapeva che non mi sarei mai tirata indietro per far sparire le tracce della sua non-fame.
Tirò fuori il pacchetto un po’ sciupato tra due libri molto grossi e me lo porse; non aspettai due volte per afferrarlo e mangiare ciò che era contenuto al suo interno.
“Non riesco a capire come fai,” commentò, guardandomi mentre facevo sparire anche l’ultima briciola. “Io mi rovinerei il pranzo se mangiassi a quest’ora.”
“Non c’è problema,” borbottai tra gli ultimi morsi. Non avevo mai lasciato nulla sul piatto per sazietà, quindi non c’era da preoccuparsi.
Inserii la confezione vuota all’interno del cestino del sedile che avevo davanti e sorrisi, felice. Non mi ero accorta di quanto avessi bisogno di mettere qualcosa sotto ai denti prima di aver assaporato il gusto della cioccolata tra le mie labbra.
“Perché sorridi in quel modo?” domandò Chiara, curiosa. “Hai visto Francesco? È successo qualcosa?” Mi guardava maliziosa.
Accidenti, Francesco. Avrei dato qualsiasi cosa, persino i suoi biscotti, purché si accorgesse di me. Ma era impossibile.
Scossi la testa. “Mi ha semplicemente detto che vuole chiedere a Ilaria di uscire.” Percepii il mio cuore emettere un suono di lamento ma cercai di non farci troppo caso.
Era difficile, tremendamente difficile, fingere che non mi importasse. Continuare ad essere la sua migliore amica e restare in un angolo mentre qualcun’altra lo abbracciava, lo baciava e lo scaldava con il proprio corpo. Erano anni che proseguiva in quel modo e ormai ero giunta alla triste conclusione che avevo più speranze di vedere la fine di Beautiful che riuscire a conquistare un piccolo spazio nel suo cuore.
Non che non ci avessi provato a dimenticarlo, anzi. Avevo tentato un sacco di volte, provandoci con altri ragazzi, interessandomi a chi mi chiedeva di uscire, ma era inutile. La fregatura di innamorarsi del proprio migliore amico è che alla fine non troverai mai nessun altro che potrà conoscerti meglio e con cui riuscirai a capirti in un batter d’occhio. È la dannazione dell’anima, per definizione. Secondo me bisognerebbe inventare un modo per proibire alle persone di innamorarsi tra migliori amici, una specie di vaccino da somministrare ancora quando si è bambini. E, più di tutto, bisognerebbe abolire tutti i libri o film che ne parlano e fanno vedere come invece finisca tutto bene in questi casi.
Almeno non avrei avuto una migliore amica fissata con Harry ti presento Sally che in ogni occasione non poteva fare a meno di ricordarmi che tra loro era finita bene; un tentativo di creare in me una vana illusione.
“Vedrai che gli dirà di no,” mi consolò, dandomi una pacca sulla spalla. “Si conoscono da troppo poco tempo.”
“Mmh,” sospirai. “Comunque mi dispiacerebbe, lui ci resterebbe malissimo ed è l’ultima cosa che voglio.” Era a verità. Per quanto potesse risultare incredibile o addirittura surreale, io tenevo veramente alla felicità di Francesco e, a forza di essere la sua migliore amica, mi ritrovavo mio malgrado a sperare che ogni sua cotta andasse a finire bene.
“Arianna, Arianna,” mi richiamò Chiara, lasciando in sospeso la frase. Sapevo bene cos’avrebbe voluto dirmi: le dispiaceva.
Sospirai, cercando di smettere di pensarci.
“Tieni,” mi disse poi, porgendomi uno degli auricolari che teneva alle orecchie.
“Cos’è?” La scrutai, diffidente. In fatto di musica eravamo agli antipodi, più o meno come su tutto il resto delle cose.
“Cose che piacciono anche a te.” Alzò le spalle.
Non ero del tutto convinta, ma accettai lo stesso di ascoltare qualche nota. Dopo pochissimi secondi mi rilassai, soddisfatta.
“Bon Jovi,” commentai. “Mi fa piacere sentire che qualche consiglio lo ascolti, ogni tanto.”
Mi fece una linguaccia, mentre canticchiava sottovoce il ritornello di Livin’ on a prayer.
Mi lasciai cullare nella storia di Tommy e Gina, cercando di eludere i pensieri e respirare. Non mi riusciva semplice, con tutta quella gente attorno.
Lo stomaco cominciava a brontolare, ma cercai di ignorarlo. Di lì a poco avrei potuto saziarlo come si deve e, dei due lamenti che mi avvolgevano, almeno uno sarei riuscita a placarlo. Almeno momentaneamente.




{ Spazio HarryJo.
Ehilà! Oggi è giovedì e come promesso eccomi qui per voi con il primo capitolo di questa storia.
Ho lavorato abbastanza intensamente su questi personaggi, specialmente su Arianna, indi per cui prima di entrare nel vero e proprio "problema" che dà origine a tutta la storia e che ne è il tema portante, nei primi capitoli si avrà più o meno una sua presentazione, le sue relazioni, la situazione che deve vivere ogni giorno e le sue particolarità. Come avrete notato, i capitoli non sono nemmeno molto lunghi, spero che vadano bene così.
Spero che non vi annoi troppo: certamente non potevo iniziare la storia entrando già nel dramma che ho intenzione di raccontarvi. Arianna è, a tutti gli effetti, una ragazza come altre, e quindi come loro ha i suoi pensieri e le sue (a volte strane) abitudini.
Beh spero che questo capitolo primo vi sia piaciuto almeno un po', vi lascio, fatemi sapere che ne pensate...
Ringrazio chi mi ha già inserito tra i preferiti e i seguiti e anche chi mi ha recensito.
Vi adoro, tantissimo.

A giovedì!

Erica 

 

   
 
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