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Autore: Norine    26/10/2012    1 recensioni
"Lolita lo sapeva che mentiva.
Lo sapeva che erano tutte sciocchezze.
Lo sapeva che sei lo fosse morta sotto il peso dei suoi baci lui non se ne sarebbe curato più di quanto il suo animo di giovane idealista non avrebbe creduto."
Una giovane prostituta, New York e il destino crudele o forse la giustizia di Dio.
Genere: Dark, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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La storia in sé ha del morboso, se pensate possa turbarvi, non leggetela. Non ci sono descrizioni troppo esplicite, ma insomma vedete voi.
Se credete che il rating arancione sia troppo poco, ripubblicherò con il rosso tra qualche mese.
Spero apprezziate.

 
 
Lolita guardava i propri occhi dorati riflettersi nello specchio sporco della camera grigia e squallida in cui si trovava.
Si pulì gli angoli della bocca dal rossetto che le si era sbavato e si tirò su una spallina di pizzo nero, graffiandosi leggermente la pelle con le punte quasi affilate delle unghie laccate.
Oltre la sua immagine perfetta, allo specchio, il letto sfatto e lui che dormiva pesantemente ancora mezzo nudo sotto le coperte.
   Lolita lo guardava immobile, con aria aristocratica, nonostante tutto.
Perché lei almeno non era tanto stupida da addormentarsi come una bambina per un singolo fottuto orgasmo.
   Lei era diversa. Diversa da lui.
Uguale alle altre centomila puttane della città.
Ma questo, si disse, mentre si rialzava per raccogliere la propria gonna di tweed dal pavimento su cui era stata gettata dalla passione che lui aveva riservato al suo corpo neanche un’ora prima, questo non significava nulla, come significava tutto e il resto non era affar suo.
  Aggiustò l’orlo di una delle autoreggenti sulla coscia candida.
Poi indossò la gonna, facendola salire dal basso e aggiustandone gli orli sulle ginocchia.
  Lo sbirro giovane blaterò qualcosa nel sogno.
Arricciò il naso disgustata.
Era un ragazzo bello e giovane, aveva anche adempiuto brillantemente ai suoi compiti, ma era un idiota e questo non poteva controbatterlo nessuno.
Perché solo un idiota si porterebbe a letto la bella del capo della malavita della città, come se niente fosse, e si addormenterebbe subito dopo aver detto un sacco di idiozie come “Io ti salverò”, “Non dovrai più battere”, e “Ti amo”.
Lolita lo sapeva che mentiva. Lo sapeva che erano tutte sciocchezze. Lo sapeva che sei lo fosse morta sotto il peso dei suoi baci lui non se ne sarebbe curato più di quanto il suo animo di giovane idealista non avrebbe creduto.
E del resto quello sarebbe stato naturale. Naturale e vero, perché l’amore, e lei lo sapeva, non esiste.
Perché l’amore è utopia. E gli uomini sono sempre pronti a giurarti questo o quell’altro quando ti sbattono, proprio come saranno sempre pronti a sbattersene di te quando bagneranno l’uccello da una qualche altra parte.
Così lui, uscito di lì, sarebbe tornato dalla sua candida fidanzata borghese e lei avrebbe camminato di nuovo per le strade.
Ma questa è la vita, pensava. E lei, se fosse stata in lui, avrebbe agito allo stesso identico modo.
  Lolita si allacciò i bottoni della camicetta di seta muovendo le dita bianche con lentezza ed armonia.
Dove aveva messo la borsetta? Ah, eccola sulla poltrona.
Lolita ne estrasse un rossetto color rosso fuoco e si riavvicinò allo specchio, passandoselo con accuratezza sulle labbra piene, rendendole ancora più scarlatte di quanto già non fossero.
Le sue scarpe di vernice nera giacevano abbandonate ai piedi del letto.
Avrebbe voluto tenerle su mentre lo facevano, ma lui l’aveva voluta nuda e lei non aveva obiettato.
Del resto erano gusti.
Le indossò con soddisfazione: erano italiane. Costavano un mucchio di soldi.
Sorrise, voleva ben vedere quante altre puttane avevano delle scarpe belle come le sue. Il pensiero degli stivali sfondati delle amiche le faceva venire da ridere.
  Raccolse la pelliccia bianca e voluminosa da terra, sembrava un grosso orso bianco, di quelli che lui, il capo, faceva impagliare e usava come tappeti.
A lei gli orsi bianchi mettevano paura. Erano grandi e potenti. Bianchi.
Avevano tutte le caratteristiche di Dio e si votavano al sangue e di quello stesso sangue macchiavano le nevi dei poli e il loro stesso candido mantello, come angeli vendicatori.
A volte le sembrava che il capo le avesse regalato quella pelliccia solo per ricordarle questo, per metterle dinnanzi l’eventualità nobile della presenza di Dio, paragone angosciante per la sua miseria.
A volte sapeva semplicemente che gliela aveva regalata per renderla ancora di più quello che già era: la sua puttana.
  Lolita sospirò.
Lo sbirro giovane si rigirò nel letto mugolando leggermente qualcosa di confuso.
Dio, quanto lo disprezzava.
Lolita uscì dalla stanza e la porta alle sue spalle batté con silente decisione il moto dei suoi pensieri.
Lolita guardò la porta, era l’unica senza numero.
Sorrise.
Il corridoio davanti a lei giaceva silenzioso e inquietante, ma terribilmente familiare, sotto le luci intermittenti di quelle che erano lampadine ormai quasi bruciate.
  Quello era il suo ambiente naturale.
Quella era la sua luce naturale.
  Lolita iniziò a camminare silenziosa sulla moquette lercia e scolorita, che sembrava voler, nonostante lo stato pietoso in cui si trovava, beffarsi dei suoi sensi attutendo il suono dei suoi passi nell’aria carica e calda del corridoio.
Le stanze chiuse, i loro numeri di ottone dorato sembravano schiacciarla.
  Pazienza, pensò.
Un suono acuto schizzò rapido al suo orecchio. Una risata volgare le storse gli angoli della bocca perfetta.
Beth si dà da fare.
La sua amica era persino più troia di lei se era possibile.
   Raggiunse le scale che portavano al primo piano e iniziò a scenderle lentamente, sfiorando la ringhiera di ghisa nera con la punta delle dita lunghe e sottili.
Il suo incedere era ritmato dal suono caldo e rassicurante dei tacchi sul legno tarlato e ammuffito, che aveva fatto il suo tempo sotto i passi pesanti dei peccatori che vi avevano camminato sopra.
  La hall le comparve davanti in pochi istanti in tutta la sua decadente indecenza.
Lolita abbandonò le scale consunte per passare al tappeto rosso e sfilacciato che buttato sul pavimento di finto marmo della sala, sembrava squarciarla gravemente in due e farla sanguinare.
Ancheggiò in modo pronunciato in direzione dell’uscita.
  Al bancone una donna dai capelli biondi e sporchi la guardò di sottecchi fumando da una sigaretta lunga e stretta.
I seni strizzati nell’abitino troppo corto le aumentavano le rugosità del collo, facendola sembrare una vecchia tartaruga gialla e malata.
Dalle labbra rosse come il fuoco un dente dorato splendeva irradiato della luce fioca di un candelabro barocco ogni volta che apriva la bocca per soffiare nell’aria greve una lunga e forse intenzionalmente sensuale, ma sicuramente volgare boccata di fumo grigio.
  Su un divanetto dell’ingresso un giovane dall’aria confusa sembrava aver perso la sua ragione di vivere.
Era di quelli che seguivano il drago. (1*)
  Lolita uscì ignorandolo.
Se l’aveva perso, presto lo avrebbe ritrovato.
  La notte di New York la accolse fredda e pungente nella sua tetra oscurità e nei suoi miasmi malsani e opprimenti.
Si avviò lungo il marciapiede sporco e mal illuminato.
Una vecchia baldracca e un barbone parlavano fitto al lato della strada. Trattavano del prezzo.
  Un taxi giallo dall’aria distrutta la aspettava poco più in là.
Lo raggiunse correndo leggermente con le gambe lunghe e affusolate.
Era Amal, un indiano dall’aria per bene che non capiva una parola d’Inglese e che a suo giudizio non aveva ancora capito che l’Hudson non è il Gange e che lei non era una delle memsahib (*2) a cui doveva portare il bagno, la Domenica, negli anni Venti.
  Se non altro era un tizio affidabile, uno che non avrebbe potuto parlare neanche se avesse voluto, in caso il capo gli avesse fatto chiedere dove era stata.
Salì sulla macchina sospirando.
Amal la salutò con uno sguardo dallo specchietto retrovisore.
  I suoi occhi attenti dicevano più di quanto un dizionario interno non avrebbe mai potuto dire. Le sorrise gentile e le rughe profonde che gli solcavano le guance scure le parvero fiumi nascosti e viali sotterranei, protettori di sacri segreti e inestimabili tesori.
  Lolita gli fece segno di portarla al solito posto e lui mise in moto accondiscendente, accendendo l’autoradio su un canale che trasmetteva una nenia insopportabile dai toni esotici e melodrammatici.
Uscirono dalle vie del degrado e la zona ricca della città abbagliò i loro occhi con tutto lo sfarzo di cui era capace.
  6th Avenue (*3) oltre il finestrino la guardava minacciosa.
Si fece lasciare giù all’angolo con Y. Street e si incamminò lungo il marciapiede affollato verso la tana del capo.
Avanzò per qualche blocco di case, sempre dritta, incespicando a volte per la ressa.
Quando i gradini che rialzavano la residenza del 66B le si mostrarono in tutta la loro opulenza non fece altro che salirli in pochi passi e suonare all’elegante campanello d’ottone che le avrebbe accordato l’accesso alla casa.
Le aprirono quasi subito e lasciatasi alle spalle il caos della Grande Mela, si ritrovò nell’elegante atrio della casa del capo.
  Un maggiordomo con un insopportabile accento francese e i baffetti unti le si inchinò ossequiosamente davanti, facendole salire la nausea.
  Il bastardo si credeva chissà chi quando lo sapeva persino lei che era un pezzo di schifosa White Trash (*4) dalla Louisiana e che di Francese aveva poco o niente, se non un’antenata puttana che Luigi XV aveva spedito nelle Americhe per dare una ripulita alle strade di Parigi.
  Lolita sorrise, maledicendolo mentalmente.
Salì le scale di marmo candido e si ritrovò nell’anticamera lussuosa dell’ufficio del capo.
Bussò alla porta di ciliegio pregiato e attese finchè una voce roca e profonda, proveniente dall’interno, non la invitò ad entrare.
  Lolita aprì la porta ed entrò ancheggiando nella stanza, chiudendosi i battenti alle spalle.
  << Buonasera >>, salutò seducente, mostrando i denti chiari sotto il rossetto di fiamma.
L’uomo aggrottò la fronte, alzando le sopracciglia folte e grigie, osservandola con sguardo penetrante.
  << Dove sei stata? >>, chiese, poi, severo. Nella sua voce crebbe dura e solitaria una nota pulsante di gelosia e di rabbia repressa.
<< In giro >>.
Lolita abbandonò la propria postazione e spingendosi verso la scrivania, dietro la quale sedeva lui, lasciò cadere la pelliccia su una chaise longue di velluto rosso.
Gli occhi di lui la seguivano morbosi.
  << Ti sono mancata? >>, chiese mordendosi il labbro inferiore con delicatezza, avvicinandosi alla poltrona comoda su cui stava seduto.
<< Da impazzire >>. E Lolita non dubitò della veridicità di quella risposta.
Gli si mise davanti, provocandolo con le gambe nascoste sotto la gonna contro le sue ginocchia ancora muscolose nonostante gli anni.
  << Come posso farmi perdonare? >>, chiese abbassandosi per mordergli dolcemente il labbro inferiore.
Si sentì spingere giù all’improvviso e si ritrovò a sorridere quando sentì la sua mano tra i capelli e il suo desiderio davanti agli occhi.
  Gli tolse la cintura con pochi gesti lenti e misurati per poi far scendere la cerniera dei pantaloni con i denti, mentre lui stringeva le labbra e il suo cuore rideva divertito dell’effetto che gli procurava.
  Iniziò ad accontentarlo con lentezza e attenzione, trattenendolo sui confini del piacere più estremo, senza tuttavia farglieli trapassare.
  Si alzò all’improvviso, mettendoglisi a cavalcioni e baciandogli il collo al di sotto della camicia-
Le sue mani le alzarono la gonna impazienti, infilandosi tra le calze e la pelle con curiosa impertinenza.
 Lolita iniziò a muoversi con forza, sentendo l’eccitazione di lui crescere se possibile di più sotto il pizzo nero delle sue mutandine.
Lui emise un suono secco e la sollevò all’improvviso dal proprio corpo, invertendo le posizioni per schiacciarla violentemente contro lo schienale della poltrona.
  Lolita si aggrappò al bordo superiore di pelle beige con le mani bianche, inginocchiata come se stesse pregando nella chiesa del peccato.
Le mani di lui le fecero scendere il pizzo con frenesia, e anche se non poteva vedere i suoi occhi, Lolita poteva sentire lo sguardo di lui bruciarle e consumarle la pelle candida delle natiche.
Gridò quando il tutto cominciò e le sue grida crebbero e crebbero durante tutto il loro amplesso sino a che lui non l’abbandonò sudata e stanca sulla pelle della poltrona, per sparire fuori dalla porta della stanza.
Odiava il poi.
E lei pure.
E se proprio doveva essere onesta odiava pure il mentre, ma lo faceva lo stesso e forse provava anche piacere a sentirsi usare e sbattere a destra e a sinistra, sebbene non potesse dirlo con sicurezza.
Aveva finto di divertirsi talmente tante volte che la realtà ormai si era unita indissolubilmente alla finzione.
  Lolita si alzò e raccolse la propria biancheria dal pavimento.
Aveva bisogno di un bagno.
Uscì dalla stanza per andare nella camera che lui le aveva riservato e accedere alle comodità di cui poteva disporre.
Fece scorrere l’acqua calda nella vasca di ceramica pregiata del suo bagno privato e, svestitasi, si immerse completamente quando le sembrò che la temperatura fosse di suo gradimento.
  Uscì dalla vasca con i muscoli distesi e la pelle rinvigorita, per dirigersi con grazia verso la propria toilette.
Lo specchio le restituiva l’immagine di una giovane donna bionda dagli occhi dorati, ma opachi, gonfia nelle zone in cui gli uomini più solevano toccarla.
  Lolita tirò fuori un rossetto rosso da uno dei cassetti del mobiletto e lo passò sensualmente sulle labbra carnose.
Era perfetta.
Un colpo alla porta le disegnò un sorriso furbesco sulla bocca, accentuandone i tratti promiscui e volgari.
Come minimo il capo le avrebbe regalato una macchina, se continuava così, si disse divertita e giratasi verso la porta aprì le gambe con aria malandrina, attendendo l’entrata del proprio amante.
Ma il sorriso le morì gelido sulle labbra quando la porta si spalancò e non le fu possibile di vedere niente e niente avrebbe sentito se non che uno sparo scuro le trafisse le orecchie con il suo suono duro e il ventre con una pallottola di piombo.
 Una pallottola e poi un’altra e poi un’altra ancora.
In continuo riecheggio di tuoni, in una tempesta di folgore, la musica della fine.
Lolita cadde per terra, le mani, le cosce, la pelle candida coperta del proprio sangue.
La morte le velò gli occhi dorati e l’ultima angoscia le strinse lo spirito, perché nel lucido marmo su cui giaceva, a terra, i suoi occhi coglievano le ultime immagini della landa ostile su cui aveva vissuto e vedeva se stessa. Vedeva se stessa. Negli abusi da bambina, nella sua vita sulla strada, nell’ufficio del capo.
E poi non ci fu che il Niente.
 
 
 
1 Si riferisce ad una pratica di consumo dell’eroina (chasing the dragon), descritta su wikipedia.
2 Signora bianca, termine indiano coloniale per dire “donna inglese sposata”.
3 Ho scelto le strade per il valore simbolico, non so se sono in un bel quartiere o meno. Y. Street non esiste, Y è un’incognita.
4 White Trash è un termine spregiativo e quasi razzista per indicare un povero, bianco del Sud degli Stati Uniti.
  
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