L’uomo
camminava silenzioso, sfogliando dei documenti. Le persone gli passavano accanto
veloci, dirette verso i loro impegni, esattamente come lui. Indossava solo i
pantaloni della divisa, mentre la parte superiore era vestita solo con una
semplice camicia bianca con le maniche arrotolate, tenute su per il troppo
caldo. La barba incolta, folta di pigrizia e di mancanza di tempo, mostrava le
prime chiazze grigiastre sul mento e sulle gote. Girò l’angolo frettolosamente,
passando per un corridoio in cui non era presente nessuno, ma era ancora ben
udibile il rumore prodotto da telefoni, voci, passi, e tutti quei suoni tipici
degli uffici. Passò davanti ad alcune porte d’ufficio, con i vetri sulla parte
superiore, fermandosi di scatto, tutt’a un tratto, attirato dalla scena che gli
si presentò dietro una di quelle.
La
stanza era praticamente vuota, fatta eccezione per un tavolo in metallo e due
sedie ai lati opposti. Su una sedeva un uomo robusto, con pochi capelli, che, a
dispetto della temperatura, indossava giacca e cravatta, e stava con i gomiti
appoggiati al tavolo e le mani giunte davanti al volto sudato. Parlava, diceva
qualcosa che non avrebbe potuto sentire in mezzo a tutto quel chiasso e con la
porta chiusa. Ma sembrava quasi un interrogatorio. Sull’altra sedia infatti una
ragazza in divisa sedeva compostamente e aveva lo sguardo triste e stanco.
Rispondeva poco, e il più delle volte si limitava a fare dei cenni con il capo.
Qualche volta annuiva, qualche volta negava, e per il resto del tempo a parlare
era quell’altro…
L’uomo,
accarezzandosi la barba, guardava la scena passando lo sguardo da una figura
all’altra, e il suo sguardo si incupiva ogni volta che la ragazza muoveva la
testa con stanchezza.
A un
tratto l’uomo all’interno della stanza si alzò e fece per uscire dalla stanza.
Nel corridoio i due incrociarono gli sguardi, composti e severi, senza parlare
per un po’.
“Come
va?”
L’uomo
in giacca e cravatta guardò di nuovo l’interno della stanza, dove la poliziotta
restava con lo sguardo basso, seduta e stringeva i pantaloni in pelle neri con
le mani. I suoi guanti erano appoggiati sul tavolo.
“Non
bene. Certo nessun test ha dato conferma, ma continua a dire che tutta quella
storia è vera. Non lo so…gli esami del sangue hanno evidenziato quella strana
sostanza, ma non sembra un allucinogeno o un oppiaceo. Al laboratorio mi hanno
detto che è organico, e potrebbe essere un buon profumo, ma non ha senso
trovarlo lì.”
Sospirò
profondamente.
“Quella
storia è assurda, sembra uno di quei fumetti che legge mio
figlio…”
“Aveva
delle ferite quando è tornata?”
“Le
faceva male una caviglia, che dice di essersi slogata, e sulla spalla sinistra
mostrava alcune escoriazioni lievi, ma non c’è traccia di un eventuale trauma
cranico. Certo, l’incidente in moto deve averla scossa, ma non posso credere che
sia impazzita per quello…”
I
due guardarono nuovamente all’interno della stanza. La ragazza aveva incrociato
le braccia e teneva la testa sul petto, con gli occhi chiusi, come se cercasse
quasi di dormire, in qualche modo. Certo la posizione non era delle più
comode.
“Avete
trovato quella donna?”
“Le
comunicazioni sono ancora interrotte. Abbiamo mandato altri uomini, con una
consulenza scientifica al seguito. Sembra che ci siano strane interferenze
elettromagnetiche, e per questo la città è isolata. Sembra sia dovuto a qualche
campo indotto, ma non riescono a trovarne la causa. E per quanto riguarda questa
Dahlia…nulla…la gente di quel posto pare saperne meno di noi. In più sembra che
ci sia un caso di omicidio molto strano, un’infermiera, e il direttore
dell’ospedale in cui lavorava e in cui è stato trovato il corpo non è
rintracciabile per il momento. E, ciliegina sulla torta, quel caso di droga non
è stato ancora archiviato. Per cui sono piuttosto
incasinati…”
“In
pratica non ci aiuteranno…”
“Era
prevedibile in fondo: è una cittadina piccola e la polizia tende a risolvere a
stento le questioni interne e a lamentarsi dell’FBI e della loro
prepotenza.”
L’uomo
con la camicia appoggiò un braccio sullo stipite della porta, e socchiuse gli
occhi, sospirando.
“Cosa
pensi che debba fare?”
“Marv,
ha 28 anni! Se a quest’età comincia a dare i numeri, cosa farà poi?! Questo
ambiente non permette cose del genere. Anche un veterano verrebbe preso per
pazzo e liquidato con tutti gli onori e un calcio nel culo se raccontasse una
storia del genere! Ma dai! Strade crepate senza fondo, nebbia e neve in piena
estate, i mostri, la bambina! Quale mente deviata può inventare una storia del
genere?”
L’altro
non rispose. Si limitò a girare il pomello della porta e a entrare nella
stanza.
Dentro
sembrava quasi che l’aria fosse più pesante, difficile da respirare. La donna
rialzò lo sguardo spento. Guardò l’uomo dritto negli occhi, provocando il suo
stupore. Aveva sempre pensato fosse una persona tutto sommato timida e
riservata, e il contatto visivo per lei sembrava quasi difficile, anche se la
determinazione era parte di lei già da prima. Le prime volte che aveva parlato
con lei il suo sguardo era rivolto in alto, e manteneva sempre una certa
distanza. Ora invece i suoi occhi azzurri erano puntati dritti verso di lui, e
fu costretto a distogliere lo sguardo, quasi imbarazzato.
Si
portò dietro la scrivania, ma non si sedette. Si limitò ad appoggiare una mano
sulla superficie liscia e fredda e a lasciar andare i fogli che ancora portava
con sé.
Stettero
senza parlare per un po’. Fu proprio lei a rompere il
silenzio.
“Quanti
altri test volete ancora farmi prima di credermi?”
La
voce era spenta, stanca almeno quanto le sue ossa e i suoi occhi. Deglutì dopo
quella frase, cercando inutilmente di eliminare un brutto groppo alla
gola.
“Cybil…che
cos’è quella sostanza che avevi nel sangue?”
“Non
lo so. Ti assicuro che non ho bevuto o mangiato niente dall’incidente in moto
fino a quando non mi avete presa per matta.”
“Mi
stai dicendo che per quasi trentadue ore tu non hai bevuto nemmeno un goccio
d’acqua?”
Cybil
ci pensò su. In effetti lei non sapeva assolutamente quanto tempo era passato, e
quando finalmente era riuscita a mangiare si rese realmente conto di quanto il
suo corpo ne avesse bisogno, anche se la sua mente aveva soppresso ogni suo
bisogno fisico.
“Ti
rendi conto di cosa dovrei credere? Dovrei credere che una donna che ha avuto un
incidente in moto, ha passato le ultime trenta ore senza mangiare bere o dormire
a cercare una bambina scomparsa nel nulla e si è ritrovata in mezzo a un
complotto di droga e religione! E in più sei stata attaccata da mostri e
fantasmi e alla fine una bambina ha partorito un…dio, o un demone, non ho capito
ancora?! Ti è mai venuto in mente che possa essere stato tutto un
sogno?”
Cybil
chiuse gli occhi stanca. La tenevano in quel posto da cinque giorni ormai,
facendole test, chiedendole tutto della sua vita, prelevandole continuamente il
sangue, e facendole raccontare ogni volta quella storia. La prima volta avevano
riso tutti, facendole i complimenti per la bella storia inventata. Adesso a
ridere rimanevano solo gli agenti che sparlavano nei corridoi. Lei invece non
sorrideva da cinque giorni.
“L’ho
sperato per molto tempo…”
La
voce era un sussurro quasi impercettibile. L’uomo riuscì ad intendere a stento
le parole, ma il suo sguardo restò cupo e pensoso.
“Non
abbiamo trovato nessuna Dahlia Gillespie, le strade sono intatte. L’Indian
Runner è pulito, non è stata trovata droga dagli agenti locali, e quel Michael
Kaufmann non si vede da più di un mese, molto prima del tuo arrivo in città. La
polizia sul posto ha detto di non averti mai visto girare per la città. Nessuno
ti ha visto in quel posto. Mi dici come faccio a crederti
Cybil?”
Ma
Cybil non rispondeva. Non sarebbe riuscita più a rispondere. Così l’uomo, si
mise eretto, assumendo un’espressione truce.
“I
miei agenti devono essere nelle migliori condizioni fisiche e mentali.” Disse
con tono grave. Poi abbassò lo sguardo sulle carte che aveva poggiato sul
tavolo. “Consegnami la pistola e il distintivo. Voglio le tue dimissioni entro
lunedì.”
Cybil
si alzò in piedi lentamente. Con gesti calmi, pacati, sfoderò la pistola e
afferrò il distintivo sul suo petto, per poi poggiare entrambi sul tavolo.
Recuperò i guanti e senza dire una parola si incamminò verso la porta poco
distante. L’uomo la guardò di sottecchi. Era abituato a suppliche o a scene di
rabbia molesta, a discorsi strampalati e a piagnistei in quelle occasioni.
Invece non sentì mai più una parola da Cybil Bennet. Lei a quel punto era quasi
contenta di non dover più tornare lì a farsi deridere.
Nell’uscire
dalla stanza urtò con la spalla un ragazzo, forse aveva la sua stessa età. Lui
si voltò a chiedere scusa, ma lei continuò a camminare senza dire una parola.
L’uomo in giacca e cravatta si avvicinò al ragazzo, che era rimasto a guardarla
confuso.
“Ne
passeranno sempre troppo poche di belle ragazze come quella qua dentro. E a
quanto pare perdono facilmente le rotelle!”
Sghignazzò
alla sua stessa battuta, poi cominciò ad allontanarsi.
Il
ragazzo si voltò verso la porta rimasta aperta, e, riconosciuto l’uomo
all’interno, entrò con passo svelto.
“Commissario,
l’agente Stinson le manda questo rapporto.”
L’uomo
non disse niente, e non guardò neppure le carte che il ragazzo poggiò
timidamente sulla scrivania. Fissò, invece, per una manciata di secondi il
ragazzo. Era di bell’aspetto, con il viso ben rasato dai lineamenti delicati.
Gli occhi verdi erano ben spalancati, e anche se timidi e inesperti,
trasmettevano un gran vigore. La divisa era ordinata, e il cappello nascondeva i
capelli castani corti.
Spostò
gli occhi ambrati verso le carte che aveva davanti, scorrendole velocemente. Ma
nella sua testa vorticavano mille pensieri. Voleva vederci
chiaro.
“Quella
donna che è uscita da qui…”
“Cybil
Bennet?!”
“…ti
conosce?”
L’agente
fu quasi sorpreso da quella domanda.
“No
signore. Sa, sono nuovo, sono qui da poche settimane, e…”
“Seguila”
“Come?!”
“Voglio che scopri tutto quello che puoi,
voglio sapere tutti i suoi spostamenti per le prossime due settimane. Tutto!
Cosa fa, con chi va, quante volte al giorno si gratta e perché!
Intesi?!”
“Ma
signore, è sicuro…”
“Non
andare in giro con quella divisa, e non dirlo a nessuno, nemmeno a quel ciccione
di Dombrowski. Hai una famiglia?”
“No,
signore.”
“Meglio
così…ora va!”
“Ma
signore…”
“Un’altra
parola e ti ritrovi a dirigere il traffico per i prossimi tre mesi! Fuori di
qui!”
…
Restava
seduto sul letto, con la faccia nelle mani. Guardava fisso davanti a sé, senza
muoversi, senza dire una parola. Il suo respiro regolare era uno dei pochi suoni
che rompevano il silenzio nella stanza in cui era; la porta era spalancata,
mentre la finestra era completamente sbarrata, chiusa sia con i vetri che con le
imposte, e per questo motivo c’era poca luce, e il suo viso era sporcato dalle
ombre così come tutto il resto. Il ticchettio di un orologio lo teneva stretto
alla realtà. Ogni tanto voltava il suo sguardo, interrompendo i suoi pensieri, e
fissando la creaturina che, sdraiata sul letto, dormiva profondamente. Inclinava
la testa nel guardarla, e serrava gli occhi. Poi tornava a fissare di nuovo il
vuoto. Finché non sentì lo scatto della serratura…
Si
alzò dal letto, e senza uscire dalla stanza, puntò lo sguardo oltre la porta.
Cybil si abbandonò su una poltrona distrutta.
“Cybil…è
tutto a posto?”
Era
chiaro che non era tutto a posto. Ma quando sei in una situazione del genere le
parole non aiutano mai, tendono sempre a non essere abbastanza, a essere
scontate, o forse inutili.
“…mi
hanno licenziata…”
La
notizia non era del tutto inaspettata, ma lo colse ugualmente di sorpresa.
Abbassò lo sguardo, visibilmente addolorato.
“Mi
dispiace…”
“A
me no!”
La
ragazza si alzò di scatto e sbottonò il primo bottone della camicetta azzurra.
“Adesso sono libera di agire. E voglio vederci chiaro in questa storia! Voglio
saperne di più!”
“Cybil,
aspetta. Non essere avventata…”
“Harry!”
I
loro occhi si incrociarono. Gli occhi azzurri di lei trasmettevano
determinazione mista a una rabbia troppo a lungo repressa, ed erano in profondo
contrasto con quelli marroni dell’uomo, sofferenti e stupiti dalla fermezza
della donna.
Cybil
sospirò. Poi continuò a sbottonarsi la camicia, avviandosi velocemente verso la
sua stanza, quella che ospitava ora la piccola sopita. Harry arrossì leggermente
alla vista del reggiseno della ragazza, e distolse lo sguardo, facendole spazio
per farla passare. Lei lo superò senza troppi complimenti, dirigendosi verso
l’armadio.
“Lo
sai perché sono diventata una poliziotta, Harry?!”
Harry
teneva lo sguardo basso.
“Quando
avevo cinque anni alcune persone entrarono in casa mia. Erano armati, e
cercavano cose preziose da rubare, gioielli, soldi…”
Buttò
a terra con forza un’altra delle sue camicie della divisa.
“Mia
madre mi nascose in un armadio. Ma da lì potevo vedere tutto. Li ammazzarono
davanti ai miei occhi! E ancora adesso non posso credere che rimasi in silenzio,
dietro le ante di quell’armadio…”
“Cybil…”
Harry la osservò mentre si infilava finalmente una maglietta rossa. Finalmente
qualcosa che non somigliasse a una divisa.
Cybil
si voltò verso di lui. “Ecco perché sono diventata una poliziotta. Perché non
voglio restare più in quell’armadio. Voglio poter uscire e proteggere le persone
che ho intorno!”
Si
avvicinò. Ora Harry poteva sentire il suo odore, e il suo sguardo sembrava voler
guardare direttamente nella sua anima.
“Harry,
sai meglio di me che qualcosa non va in quella città! Che la droga è solo una
parte del mistero che aleggia in quella zona! E sai quanto sono pericolosi!
Probabilmente adesso sono in un momento di confusione, e sarà più facile
trovarli!”
Si
avviò con decisione, superando l’uomo. Ma il suo braccio fu bloccato, e fu
costretta a fermarsi. Quando si voltò Harry non la guardava, ma la sua mano era
stretta con decisione intorno al suo polso, e le sue dita erano talmente serrate
da cominciare a farle del male.
“Harry!”
“Vuoi
tornare in quell’inferno? Vuoi cercare di nuovo quei pazzi? Per me va
bene!”
La
voce dell’uomo raramente aveva quell’intonazione, e per lui era davvero
difficile parlare in quel modo, tanto che teneva la mascella serrata e a volte
uscivano degli schizzi di saliva. Erano quasi invisibili, ma facevano ben capire
l’umore di quella persona normalmente così calma e pacata…
“Ma
io non tornerò con te! Non ho intenzione di farlo!”
Cybil
aggrottò le sopracciglia.
“Non
te lo sto certo chiedendo!”
“Però
dovrai ritardare la tua partenza. Non possiamo andarcene adesso! Sta facendo
buio…”
Lo
stupore si impossessò del volto della ragazza. Perché voleva andare via? Lei non
voleva! Cercò di riprendersi, e di mostrare ancora
sicurezza.
“Guarda…che
non mi date certo fastidio! Potete restare qui se volete, non c’è bisogno che ve
ne andiate!”
“Non
capisci?!” urlò Harry, voltandosi finalmente verso la ragazza. “Se tu torni a
Silent Hill potrebbero cercarti e se trovano te trovano anche noi! Trovano lei!
E io non permetterò che me la portino via di nuovo! Non
stavolta!”
Il
silenzio calò nella stanza. I due si guardavano negli occhi. Lo sguardo di Harry
era duro, e Cybil riusciva a sostenerlo a mala pena. Le sopracciglia aggrottate,
le labbra tremanti, gli occhi spalancati, e le mascelle serrate, tutto
trasmetteva una rabbia non adatta al viso dell’uomo, che di solito era disteso e
rilassato.
Gli
occhi di Cybil si inumidirono, e alcune venature rosse iniziarono a risaltare
nel contrasto con il bianco che contornava le iridi azzurre. Cedette, e abbassò
lo sguardo, con l’aria sconfitta. Solo allora Harry distese i suoi muscoli. La
guardò con più tenerezza, addolcì il suo viso, e finalmente lasciò andare il suo
polso, che cadde ciondolante lungo il corpo. Si avvicinò, e portò una mano sul
dorso del suo collo, sentendo il suo calore, la forma della sua spina dorsale.
La tirò delicatamente a sé, costringendola dolcemente a poggiare la testa sul
suo petto. Prese ad accarezzarle i morbidi capelli biondi.
“Cybil…noi
due…siamo soli ora. E tu sei stanca. Noi siamo stanchi. Non possiamo permetterci
questo errore, non possiamo lasciare che ci trovino! Abbiamo già fatto delle
scelte sbagliate, e le conseguenze le hai pagate solo tu. E questo mi
dispiace…”
Tirò
un lungo sospiro, che gli gonfiò il torace trasmettendo un’ondata di calore alla
bionda, che chiuse gli occhi.
“Ora
io vorrei che per te, per me…e per questa bambina…ci possa essere una vita
tranquilla. Una vita che ci faccia dimenticare di quell’incubo. Sono le ultime
volontà di Cheryl…di Alessa…ed è ciò che ci meritiamo…tutti e
tre…”
Cybil
ricambiò finalmente l’abbraccio, perdendosi completamente nel calore che sentiva
al contatto dei due corpi. Era legata a quell’uomo più di quanto avesse mai
immaginato. E in quel momento lo capì, capì che c’era qualcosa di
indistruttibile fra i due, che sarebbe morto solo con loro. Perché insieme erano
scesi e risaliti da un mondo in cui i limiti umani erano abbattuti e se
sensazioni come paura, rabbia, tristezza erano portati all’estremo, venivano
ugualmente amplificati i sentimenti di affetto, di affiatamento, di attaccamento
reciproco. E così due anime si erano avvicinate e avevano resistito
insieme.
“Hai
ragione Harry…sono stanca…” Si sollevò passandosi l’indice sotto un occhio.
“Andiamo a dormire…”
Harry
sorrise. Le accarezzò una guancia dolcemente. Poi fece per andarsene dalla
stanza, ma fu fermato dalla mano di Cybil, che si poggiò sulla sua
spalla.
“No
Harry!”
Arrossì
leggermente prima di parlare ancora. “Solo…solo per stanotte…dormi anche tu
qui…”
“Come?!”
Heather
rialzò la testa che teneva appoggiata su una mano. Quella parte di storia non
poteva appartenerle, e perciò era rimasta in silenzio ad ascoltare. Ma a quelle
parole non poté trattenersi.
La sua
reazione provocò un risolino divertito di Cybil, che guardandola con fare
rassicurante disse: “Calmati. Ricorda che tra me e tuo padre, a dormire beata, e
a svegliarci qualche ora dopo c’eri proprio tu!”
L’affermazione
non sembrò soddisfare del tutto la ragazza, che prese a osservare un punto
indefinito. Cybil invece rimase a guardarla sorridente.