Capitolo
1
Mio
padre guida da
far venire i nervi. Capisco che adotta questo ritmo per via dei trenta
centimetri di neve là fuori, però mi necessita
arrivare in paese al più presto.
«Andiamo, papà, non puoi sbrigarti?» lo
esorto. Tuttavia sembra non avermi
sentito, così ripeto: «Papà, ti puoi
sbrigare?»
Silenzio.
Dico
ancora una volta: «Papà, ti puoi
sbrigare?»
Ma sembra davvero concentrato sulla guida. Delle goccioline di sudore
gli
colano lungo il collo. Sbuffo, rassegnato all’idea che
finché la strada non
sarà più sgombra di neve, lui
continuerà a ignorarmi. Volgo la sguardo verso il
finestrino. La strada che stiamo percorrendo si arrampica intorno a una
collina, e vista dall’alto somiglierebbe a una vena di
cioccolato che pervade
un enorme spruzzo di panna. Conduce in paese ed è
lì che siamo diretti. Vedo i
fianchi innevati della collina scorrere lenti oltre il vetro, e io
detesto
tutto ciò che è lento; lo testimonia
l’eccidio di lumache da me provocato due
anni fa, quando avevo cinque anni.
Così
guardo altrove. Lascio che il mio sguardo
scorra verso il basso, lungo i vasti campi innevati che si stendono ai
piedi
della collina. Poi lo lascio indugiare sul quartiere di periferia in
cui abito,
arroccato su un piccolo rialzamento in mezzo alla campagna.
Tutto
questo è davvero idilliaco, ma ora non me ne
può fottere di meno. Mi piace ammirare il paesaggio che mi
circonda, e mi fa
piacere che tu, sì, hai capito bene, stronzo!, proprio tu,
ti sia figurato la
fisionomia dell’ambientazione di questa storia del cazzo, ma
credimi: adesso
sono preso da altri pensieri. Quella che sto stringendo in mano
è la letterina,
la letterina per Babbo Natale, e nella mia mente adesso
c’è posto solo per
questa. Ma pare che quello stronzo dell’Autore non lo
capisca. Non avendo nulla
di meglio da fare o inventare, evidentemente, ha voluto che questa
storia fosse
raccontata dal mio punto di vista, causandomi non poco fastidio. E
vaffanculo!
Be’,
almeno questa mia sfuriata è servita a
qualcosa, grazie al cielo: è passato qualche minuto e adesso
io e mio padre
stiamo finalmente attraversando un tratto di strada ricoperto da una
pellicola
di neve liquida, segno che ci stiamo avvicinando alla nostra meta, e
quel
cerebroleso del mio vecchio accelera.
Una
scarica di eccitazione attraversa il mio
corpo. Mi metto a saltellare sul sedile mordendomi il labbro e stringo
convulsamente la carta che ho in mano.
«Ehi,
Ni’, sei contento, finalmente spedirai la
letterina» mio padre si gira con un sorriso ebete stampato in
faccia. Gli
rispondo con una smorfia di disgusto.
«ATTENTO!»
Quell’idiota
fa appena in tempo a voltarsi e a
riprendere il controllo dell’automobile prima che questa vada
a sfondare la
recisione che cinge la strada.
Tiro
un sospiro di sollievo. Possibile che sia
circondato da gente tanto idiota? Possibile che sia uscito da gente
tanto
idiota?
Per
grazia di Gesù Cristo finalmente giungiamo in
paese. Mio padre sta ancora guidando e, senza prendere in
considerazione
l’incidente in cui per poco non incappavamo, si volta verso
di me ancora una
volta, gestendo il volante con una sola mano – ma quale capra
gli ha dato la
patente? Mi fissa con occhi colmi di gioia. Gli rispondo con un cenno
impertinente del mento. Minchia guaddi?
«Sai,
Ni’, quest’anno ti sei comportato davvero
bene, sono sicuro che Babbo Natale ti porterà il regalo che
desideri!»
«Sì,
mi sto sforzando di essere più buono. Anche
se non ho mai capito cosa avessi fatto di male gli anni passati. Quel
cazzo di
obeso in rosso farà meglio a comportarsi bene questa volta,
o giuro che lo vado
a scovare fino in culo al mondo e lo ammazzo.»
«Già,
hai proprio ragione. Davvero non capisco
come mai non ti abbia elargito dei doni negli ultimi anni.»
Elargito, tz! – ma
dove ha imparato a parlare, quell’imbecille? «Oh
guarda, siamo arrivati.» La
sua voce è talmente sognante e languida da provocarmi il
voltastomaco.
Oltre
il finestrino c’è la piazza principale del
paese, coperta da un vaporoso manto di neve.
Il
papà sterza bruscamente. La macchina fa un giro
su se stessa, invadendo la neve vergine della piazza, e io sbatto il
naso
contro il sedile davanti a me. Per quanto tenti di trattenermi, un paio
di
bestemmie mi sfugge dalle labbra, ma perlomeno risparmio Santa Claus.
Con gli
occhi ridotti a fessure per il dolore, scendo dalla macchina e sbatto
la
portiera. Le ruote hanno scavato solchi neri nella neve, scoprendo il
cemento
sottostante. Anche mio padre scende.
La
piazza è deserta. Perfetto. Stringo di nuovo la
letterina.
Sopra
la mia testa si sviluppa un intreccio di
tubi di un azzurro diafano, che serpeggiano verso l’alto e
man mano si uniscono
in un groviglio di budelli di vetro sempre più fitto. Questi
tubi si innalzano
fino a perdersi nell’immensità del cielo, come una
versione esile e azzurra
della torre di Rachele o quello che cazzo è. Davanti a me si
trova quello che
viene definito l’ufficio postale natalizio: una lunga schiera
di cabine
azzurre, disposte una accanto all’altra come
l’avanguardia di un esercito. Da
ciascuna cabina parte uno di quei tubi azzurri che poi insieme salgono,
si
uniscono, si aggrovigliano e spariscono nel cielo. Proprio sotto
l’attaccatura
di ciascun tubo scorre una lunga fessura orizzontale.
Saltellando
come un coglione mi avvio verso la
cabina più vicina a me. Le mie gambe affondano nella neve,
ma nonostante ciò
proseguo piuttosto spedito. Sento un formicolio sulla nuca. Mi giro e
realizzo
che lo sguardo compiaciuto di mio padre grava su di me. Apprezzo che
quell’uomo
sia fiero di suo figlio, ma non dovrebbe guardarmi con occhi carichi
d’orgoglio
proprio nei momenti un cui cammino come una checca che ha esagerato col
suo lavoro
la sera prima.
La
cabina postale è a pochi passi da me. Varco con
irrequietezza la breve distanza che ci separa e allungo la mia mano
guantata.
Mi vedo balzare a rallentatore. Riesco a inserire la lettera nella
stretta
fessura al primo colpo.
Aspetto
qualche istante lì fermo, ascoltando il
rumoreggiare dei congegni all’interno della cabina. Poi
un’ombra quadrata
attraversa rapida il tubo, e io, con la mano a ripararmi la fronte,
getto la
testa all’indietro e la osservo sfrecciare in alto fin dove
riesco a spingere
lo sguardo.
Poi
sento un peso che mi si posa sulla spalla. Mi
giro e trovo mio padre con la mano sulla mia spalla. Sta seguendo con
un dito
il percorso della lettera attraverso il cielo, anche se ormai
è sparita. Che
cazzo di idiota!
«Ehi,
possiamo anche tornare, adesso.» Gli
schiocco le dita davanti al viso. Si riscuote, come trasalendo da una
trance.
«Oh,
sì, Ni’, andiamo.» E parte verso
l’automobile. Lo seguo. Prima di montare, getto
un’occhiata all’intreccio di
tubi alle mie spalle. Non è che abbia paura o sia ansioso,
certo che no, ma
spero davvero che nulla vada storto e che la lettera arrivi al suo
destinatario. Soprattutto, spero che l’obeso in rosso
esaudisca il mio
desiderio, quest’anno, che mi porti il regalo che gli ho
chiesto. Lo spero per
lui, è chiaro.