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Autore: Guitarist_Inside    28/10/2012    1 recensioni
Eccomi.
Here I am.
Finalmente, potrei aggiungere.
Finalmente posso lasciarmi alle spalle un uragano di fottutissime bugie a cui non appartengo.
Finalmente posso prendere in mano la mia vita.
[...] E quindi, eccomi qui, che non ne posso più, e che cerco di lasciarmi alle spalle tutto ciò, questa terra di false credenze che non crede in me e in cui nemmeno io credo. Anzi, me ne frego altamente, o almeno così tento di fare.
Eccomi qui, dunque, che cerco di scappare da tutto questo, diventato fin troppo opprimente, per provare a trovare quello in cui IO credo.
...Direte che ho fatto una scelta fin troppo drastica, che ho esagerato, che sono pazza, o altre cazzate del genere. Ma voi non siete me. Voi non abitate nei contorti meandri della mia mente. Voi non avete vissuto quello che ho vissuto io. Voi non potete capire assolutamente niente di tutto ciò, quindi non fate i finti saccenti che si prodigano a dire le solite, ennesime, boiate. [...]
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Hey folks!
Heilà, gente(?)! xD
Tutto bene?
Stupite/i di vedermi “già” qui? ;)
Già, questa volta finalmente sono riuscita ad aggiornare dopo poco più di un mese, che per i miei ultimi standard (ç__ç) è un record di puntualità,
ha! *me saltella felice e soddisfatta hahaha*
Bene, non mi dilungo troppo nell’introduzione, vi dico soltanto che questo capitolo (che ho finito di scrivere poco fa) come al solito ha subito varie modifiche, a seconda delle idee che si affacciavano alla mia mente, varie cancellature e riscritture e cose così, ma alla fine è stato “partorito” in un tempo si può dire decente! Yay! :D
Anyway…
In questo capitolo dai toni molto allegri(?) (si fa per dire… quando inizierete la lettura capirete l’ironia…), il protagonista che narrerà i fatti sarà di nuovo colui che ha fatto il suo ingresso nella storia nel quarto capitolo, dove lo abbiamo lasciato sul “suo” scoglio… E di cui ancora non è svelato il nome, ed è questo il motivo per cui ho fatto quel giro di parole per riferirmi a lui… *muahah*.
Okay, non dico nient’altro se no finisco a spoilerare qualcosa e a rovinarvi la lettura, quindi… Ciao :3
Ah, un’ultima cosa prima di lasciarvi al capitolo
[ancora?]...
Come al solito, voglio esprimere un sentito grazie a tutte/i coloro che seguono questa storia, ed in particolar modo a chi spende qualche minuto della propria vita per lasciarmi una recensione e farmi sapere che ne pensa, uscendo dall’ombra (xD).
Ed in particolare, un enorme grazie alla cara Sadako Kurokawa, per le recensioni puntuali, l’entusiasmo, il supporto, l’allegria e mille altre cose che non c’è bisogno che io scriva qui, dato che le sa :3
Okay, ora mi azzittisco sul serio e vi lascio al capitolo… Fatemi sapere che ne pensate! :D
Alla prossima, see ya! :D






Soundtrack: Easier To Run (Linkin Park)

“Wounds so deep they never show, they never go away
Like moving pictures in my head, for years and years they've played”

“It's easier to run
Replacing this pain with something numb.
It's so much easier to go
Than face all this pain here all alone…
Sometimes I remember the darkness of my past
Bringing back these memories I wish I didn't have.
Sometimes I think of letting go and never looking back
And never moving forward so there'd never be a past…”
[ Easier To Run – Linkin Park ]

“And our scars remind us that the past is real…”
[Scars – Papa Roach]


CAPITOLO 6
Memories I wish I didn’t have /
It’s easier to run, replacing this pain with something numb…


Un urlo squarciò il silenzio della notte.
Un urlo agghiacciante, un urlo di rabbia e disperazione, fu quello che si liberò dalle mie corde vocali per scontrarsi con l’aria esterna, così mite, rompendone per qualche secondo la quiete, frantumando il silenzio in mille scaglie appuntite nel cui eco si persero la mia anima e la mia mente, affogando sempre più nello sconforto dei ricordi.
Era come se, con quell’urlo, avessi condiviso con quel luogo, il mio luogo, quello a cui sentivo di appartenere, una parte del peso che da fin troppo tempo opprimeva la mia anima.
E tuttavia, il peso era ancora lì, prepotente, doloroso. Più tentavo di sbarazzarmene, più mi sembrava impossibile liberarmi di quei dannati demoni del mio passato che si divertivano a rabbuiarmi l’esistenza.
Era tutto inutile: che lo volessi o meno, quei ricordi, che avrei desiderato con tutto me stesso poter non avere, erano sempre pronti a tornare indietro, vivi come non mai.
Ah… Perché?
Perché non potevo trovare un po’ di quiete?
Perché continuavano a perseguitarmi?
Guardai il cielo stellato, in cerca di una risposta.
Sospirai, chiudendo gli occhi e ricacciando indietro quella sensazione di umida sfocatura che cominciava a velarmi lo sguardo. Odiavo piangere, e non avrei certo lasciato che quelle lacrime bastarde si impadronissero di me, rendendomi loro debole schiavo.
Serrai gli occhi e strinsi le mani a pugno, conficcando le unghie sempre più a fondo nella carne, come se il dolore fisico avesse potuto cancellare, o almeno annebbiare, quello che mi corrodeva l’anima e la mente.
Inspirai a lungo e cacciai un altro urlo, se possibile ancora più profondo e agghiacciante del precedente.
– Nooooooooooooo! – l’aria venne squarciata nuovamente da quella specie di ruggito, condividendo con me, per qualche attimo, quella frustrazione, del dolore lancinante che mi opprimeva il petto.
Poi, tutto tornò immerso nel silenzio più totale. La città dall’altra parte della Baia pareva sempre più lontana, le sue luci erano sempre più sfocate. Ma anche ciò che mi circondava, che fisicamente si trovava attorno a me, aveva ormai contorni sempre più indefiniti: riuscivo a mettere a fuoco a malapena lo scoglio sul quale ero seduto e le onde che s’infrangevano a pochi passi da me.
Nessuno ormai girava per quelle zone, peraltro sconosciute ai più; ero solo, c’eravamo solo io e quelle onde, così diversi e così simili tra noi.
Quelle onde continuamente infrante contro la dura roccia degli scogli mi ricordavano incredibilmente me stesso, o meglio i frammenti di me stesso, spezzati in mille cocci, frantumati e schiacciati senza pietà da esperienze che avevano impresso marchi indelebili nella mia anima: marchi di rabbia, di dolore profondo, di frustrazione, di diffidenza e sfiducia generale in tutto ciò che mi circondava. Cicatrici che il tempo ancora non era riuscito a guarire e che mi ricordavano fin troppo spesso quanto il passato fosse reale e sempre presente nella mia vita.
Fissai il mio sguardo in quel blu profondo tendente al nero spumeggiante di quei frammenti di mare.
Sospirai.
Ancora una volta ero completamente solo.
Solo, con i cocci di me stesso.
Solo, con l’unica compagnia di quei demoni che risiedevano in me; compagnia di cui, se avessi potuto, avrei volentieri fatto a meno.
Purtroppo, però, quelle ferite erano troppo profonde per essere cancellate. Non se ne sarebbero mai andate, avrebbero continuato a opprimermi, come stavano facendo in quel preciso momento.
Avrei potuto rinchiuderle nei più reconditi angoli della mia mente, imprigionarle in un armadio polveroso a cui applicare un grosso lucchetto e gettar via la chiave, ma sapevo benissimo che quegli scheletri avrebbero trovato un modo per uscire di nuovo dalla loro prigionia, tornando in vita, facendo sanguinare nuovamente tutte le cicatrici impresse sulla mia anima.
Nonostante lo desiderassi con tutto me stesso, non avrei mai potuto liberarmi completamente di quelle voci, di quelle immagini fin troppo vive che da anni continuavano a tormentare la mia mente giorno e notte.
L’unica cosa che potevo fare era nasconderle al resto del mondo, ma non sarei mai riuscito a nasconderle anche a me stesso.
A volte avevo pensato di potermi lasciare alle spalle quei ricordi, di poter ricominciare da capo, senza più voltarmi indietro, senza più essere vittima di quelle memorie oscure e dolorose.
Avevo pensato di rimanere immobile. Sì, immobile: se non mi fossi più mosso in avanti, non ci sarebbe più stato un passato. E se non ci fosse stato un passato, non ne sarei rimasto vittima ancora una volta.
Tuttavia, era impossibile.
Era impossibile lasciarmi veramente alle spalle quei demoni del mio passato. Quelle ferite erano appunto troppo profonde per poter essere completamente ignorate; ogni volta che avessi provato ad ucciderle o imprigionarle, quelle voci e quelle immagini sarebbero sfuggite al mio controllo, sarebbero rinate facendosi strada nella mia testa altre mille volte… Era solo una vana utopia, una speranza senza un solido fondamento, quella che a volte mi portava a pensare che avrei potuto vivere lasciandomi tutto ciò definitivamente alle spalle.
Ed era impossibile anche rimanere immobile.
La vita stessa presupponeva scelte, movimento.
Non potevo fermare il tempo, estraniarmi da esso. Ci sarebbe sempre stato qualcosa che mi avrebbe costretto ad abbandonare quell’immobilità, creando il passato, il presente e il futuro.
Ed io avrei dovuto continuare a vivere, in qualche modo, sebbene l’idea di farla finita con questa esistenza si fosse affacciata alla mia mente, nei miei momenti più bui: tuttavia, l’istinto di sopravvivenza era sempre riuscito, per qualche ragione che non ero mai riuscito a spiegarmi chiaramente, a prevalere, non permettendo che il dolore mi accecasse completamente facendomi fare quella cazzata. Perché, oltretutto, suicidandomi non avrei fatto altro che dare ragione a quei demoni, cadendone definitivamente vittima. Ed io non volevo certo darla vinta al mio passato, né avrei permesso che quelle profonde ferite potessero espandersi senza controllo portandomi con loro ad un triste epilogo. No, non avrei permesso a me stesso di arrendersi così facilmente: avrei continuato a combattere.
E per combattere, avrei continuato a vivere e ad affrontare quei fottuti demoni, quegli oscuri scheletri che parevano non voler morire per nessuna ragione.
Ma era dannatamente difficile affrontarli.
Ero solo, mentre quell’esercito di bastardi si divertiva a sconvolgermi l’anima e la mente, gettandomi nello sconforto più totale.
Il silenzio attorno a me era sempre più assordante, sembrava volesse inghiottirmi da un momento all’altro, inglobarmi nella sua indifferenza, mentre quelle voci tacitamente urlavano nella mia testa con sempre più vigore, facendomi impazzire.
Tremavo, probabilmente a causa di tutta quella rabbia e quella disperazione che pervadevano ogni fibra del mio corpo.
– Perché?! – urlai, ancora, con tutta l’aria che avevo in corpo, rompendo ancora una volta quel dannato silenzio, mentre conficcavo le unghie sempre più a fondo nella carne.
– Perché?! – ripetei qualche secondo dopo, non appena l’eco dell’urlo precedente si perse nel leggero vento che aveva preso a soffiare; questa volta però era poco più che un sussurro desolato.
Sentii l’aria mancarmi nei polmoni, cercai di respirare più profondamente che potevo, ma era come se non potessi mai esserne sazio.
La gola mi bruciava terribilmente, così come gli occhi e come ogni parte di me in quel momento.
Mi alzai; la vista sempre più appannata da quelle lacrime bastarde che si opponevano al mio volere. Fissai ancora una volta le stelle, o meglio, quei puntini sfocati e lontani che riuscivo a vedere.
Tutto, era lontano.
Lontano da me.
Ero completamente solo.
Lo sconforto e la desolazione si fecero strada in me sempre più. Il dolore era sempre più insopportabile, sempre più buio, e ben presto si trasformò alimentando un’ira cieca che iniziò a scorrere in me sempre più rapidamente.
Mi voltai, e, senza una ragione precisa, iniziai a correre.
Correvo a perdifiato, come se, allontanandomi dal posto in cui avevo ricordato quelle ferite, avessi potuto scappare da esse, lasciandomele alle spalle assieme a quei frammenti di onde troppo simili a quelli della mia anima.
Dannazione a me, che mi ero lasciato trasportare da quei ricordi ancora una volta, illudendomi che fosse la volta buona, quella in cui sarei riuscito a vincerli.
Illuso, ecco cos’ero: un fottuto illuso.
Continuavo a correre senza meta, cercando invano di cacciare quei pensieri da me, cercando invano di non pensare a nulla.
Volevo dimenticare, non importava come.
L’unica cosa che sapevo in quel momento era che non ce l’avrei fatta a sopportare il peso del passato, che quella sera era più opprimente che mai.
Avrei dato chissà cosa pur di azzittire quelle voci che urlavano sempre più forte nella mia testa, assordandomi.
Volevo correre, volevo dimenticare, volevo sostituire il dolore con qualcosa di inebriante, qualsiasi cosa purché mi intontisse, impedendomi di sentire tutta quella desolazione e quella disperazione che aizzavano la gran quantità di rabbia che invano tentavo di reprimere, e che però si era ormai impossessata di me.
Perché era più facile correre, era più facile inebetirmi, che dover affrontare, ancora una volta, quell’enorme quantità di dolore, da solo.

Continuai a correre finché non mi mancò completamente il fiato. Allora, cominciai a camminare, sempre senza una meta, boccheggiando per la fatica e per tutta la sofferenza che continuava a gravare su di me.
Alzai il volto, sollevando lo sguardo che tenevo fisso sull’asfalto delle strade che avevo percorso, e mi guardai intorno per capire dove mi trovassi. Non che mi fregasse veramente qualcosa del luogo in cui ero giunto, semplicemente compii uno di quei gesti automatici che si fanno per capire dove andare poi.
Non fu facile orientarmi, perché senza rendermene conto mi ero allontanato dalla Baia più di quanto avessi potuto immaginare, ma soprattutto perché la mia vista era sempre più appannata.
Non ce la facevo più a contenere quelle lacrime bastarde: sentivo che da un momento all’altro avrebbero vinto, travolgendo gli argini che avevo tentato di imporre loro.
Mi asciugai velocemente gli occhi con il dorso della mano, per l’ennesima volta, illudendomi di poter resistere ancora.
Poi, una volta realizzato l’isolato in cui ero giunto, imboccai una vietta secondaria poco conosciuta, arrivando davanti all’insegna sgangherata di un piccolo bar alquanto scalcinato. Non era certamente uno dei locali “in” della zona, frequentato da gente perbene; lo si capiva ancor prima di entrare, solamente lanciando un’occhiata al vicolo in cui si trovava, all’insegna rozza che ne annunciava la presenza altrimenti confondibile con uno qualunque degli appartamenti di quel quartiere, oppure a ciò che si scorgeva attraverso la porta dai vetri appannati o alle urla che da lì uscivano, accompagnate da un forte olezzo di alcool e fumo.
Mi pulii un’altra volta il viso, respirai a fondo, assumendo un’espressione impenetrabile, da cosiddetto duro, e spinsi con violenza la porta che si aprì cigolando.
I presenti si voltarono, squadrandomi per una frazione di secondo, per poi tornare ai loro discorsi, alle loro risate, alle loro battute sporche, alle loro bottiglie di alcolici, alle loro slot-machine a cui stavano sperperando i risparmi di una vita nella futile illusione di poter mai vincere qualcosa o a chissà cos’altro, di cui onestamente me ne fregava meno di zero.
Ostentando la solita finta sicurezza che ormai avevo imparato a giostrare a mio vantaggio, mi avvicinai al bancone in un paio di falcate. Quindi, mi rivolsi al barista, che ormai conoscevo di vista, ordinando due bottiglie di birra.
L’uomo, senza batter ciglio e senza chiedermi l’età né tantomeno i documenti, mi porse ciò che gli avevo chiesto, prendendo in cambio la banconota che gli tesi e lasciandomi sul bancone il resto, composto da un mare di monetine.
Rimasi interdetto per qualche secondo, mentre si faceva strada nel mio cervello l’idea di aggiungere anche qualcosa di più pesante a quelle due semplici bottiglie, qualcosa tipo alcolici molto più forti, o droga. Solo così avrei avuto la certezza di inebetirmi e annullarmi completamente.
Ma, ancora una volta, un orgoglioso senso d’amor proprio, sbucato da chissà dove, mi fermò in tempo.
Mi ero ripromesso, tempo prima, di non tradire ancora i miei princìpi, i princìpi che avevo con cura cercato di coltivare in me e che il Sensei mi aveva aiutato a far crescere.
Non avrei lasciato che quegli insulsi scheletri viventi mi facessero cadere di nuovo, intrappolandomi in un circolo vizioso da cui ero riuscito a sfuggire faticosamente.
Non avrei permesso che mi condizionassero al punto da mandare a puttane la vita che stavo faticosamente cercando di ricostruirmi.
Volevo non pensare, volevo non sentire, certo, ma non volevo annullarmi davvero completamente.
L’idea di farla finita con la vita e con il mondo, sebbene in alcuni momenti si fosse fatta strada sempre più vivida in me, era sempre stata respinta dalla parte razionale del mio cervello, che riaffiorava stentatamente dall’oceano desolato in cui rischiava di affogare, richiamandomi alla realtà, evitandomi di compiere le peggiori cazzate che avrei potuto commettere… No, non avrei rotto quell’abitudine.
L’avevo ripetuto a me stesso più di una volta: avrei continuato a lottare, non avrei permesso al passato di vittimizzarmi più di quanto già non fossi, non avrei lasciato questo fottuto mondo da perdente.
E finire nel circolo della droga, che già mi aveva fatto soffrire le pene dell’inferno direttamente ed indirettamente in passato, era comportarmi da coglione e da perdente.
Feci un sospiro impercettibile, scuotendo appena la testa. Avrei fatto in modo da farmi bastare quella birra.
Raccolsi gli spiccioli, ficcandomeli velocemente in tasca, per poi afferrare le due bottiglie di vetro verde, una per mano, ed uscire in fretta dal locale, il cui affollamento di insulsi e volgari soggetti cominciava a darmi la nausea.
Approdato nuovamente sul marciapiede, respirai a fondo l’aria relativamente pura che ora mi circondava nuovamente, per poi incamminarmi procedendo a ritroso lungo la vietta che avevo percorso poco prima.
Continuai a trascinare un piede dietro l’altro, nuovamente perso nei miei pensieri e nei miei ricordi, con gli occhi sempre più lucidi e lo sguardo fisso a terra, fino a giungere in un parchetto silenzioso: uno di quelli dove di giorno i bambini giocano spensierati alla luce del sole, e di notte è popolato solamente dalla tristezza di qualche disgraziato che cerca, per motivi suoi, un luogo appartato dove stare.
Ecco, in quel momento, quel triste disgraziato potevo benissimo essere io.
A lunghi passi raggiunsi una panchina, situata ai piedi di un albero, su cui mi lasciai cadere esausto, appoggiando le bottiglie ai miei piedi.
Mi rannicchiai, portandomi le ginocchia al petto, posandoci la testa, sempre più pesante, oppressa da quei fottuti demoni che si divertivano a vedermi ridotto ad uno straccio perso nella morsa gelida della disperazione.
Un sospiro irregolare fu il segno che ormai la mia resistenza era giunta al limite. Alzai lo sguardo al cielo, fissando le stelle attraverso le fronde di quell’albero, cercando invano di non pensare a nulla e di ricacciare indietro le lacrime.
Tirai su col naso: chi credevo di ingannare? Sapevo benissimo che era tutto inutile.
Raccolsi la prima bottiglia e la aprii, usando come perno un portachiavi che avevo eletto a mio apribottiglie personale, e bevvi una grossa sorsata, tentando di affogare nell’alcool tutto quel dolore che ormai non riuscivo più a fronteggiare da solo.
Non so per quanto tempo me ne rimasi lì, abbandonato su quella panchina, a piangere e urlare in silenzio, svuotando a gran sorsate le due bottiglie.
Terminato l’ultimo goccio, mi pentii di aver preso solamente quelle due bottiglie di birra: erano finite fin troppo in fretta, ed ero ancora fin troppo sobrio per poter evitare di pensare, ritrovandomi completamente inebetito in un universo parallelo composto di nulla.
Ma non avevo voglia di tornare indietro e prendermi qualcos’altro: quel dannato locale era abbastanza distante da quel dannato parchetto, e non avevo la forza né la voglia di tornare in quel posto.
Così, rimasi lì seduto ancora un po’, congelato dal freddo vento che ormai aveva iniziato a sferzare la notte (ero certo che il sole fosse tramontato da un bel pezzo, anche se non avrei saputo dire da quante ore, e certamente sarebbe stato più corretto dire notte, piuttosto che sera) e dalla disperazione che mi logorava sempre più le membra e l’anima.
Poi, ad un tratto, quel posto e quello star lì seduto inerme a lasciarmi congelare mi fece schifo, provocandomi un senso di vomito. Mi alzai di scatto, facendo cadere a terra le due bottiglie vuote che si frantumarono in schegge e frammenti di vetro verde, che rimasero lì, simbolicamente, a segnare il passaggio della mia anima distrutta e dei cocci di me stesso.
Una volta in piedi, imprecai tra i denti e rimasi fermo qualche secondo, cercando di recuperare almeno un po’ di senso dell’orientamento e far smettere la testa di girare, dato che mi ero alzato troppo repentinamente, come uno scemo, visto che sapevo per esperienza l’effetto che ciò avrebbe provocato.
Mi appoggiai un attimo alla corteccia dell’albero accanto a me; poi, recuperato l’equilibrio, mi incamminai.
Trascinai le mie stanche membra per strade solitarie, in direzione del Gilman, sperando che la musica, almeno lei, potesse darmi un po’ di conforto.
Dopo non so quanto tempo iniziai a udire note dal tono potente, rabbioso ma in un certo senso confortante quasi come se fosse allegro: sorrisi mestamente, scordando per una frazione di secondo i pensieri e le immagini che continuavano ad opprimermi la mente, e allungai il passo.
La musica era sempre più vicina, e dal volume del brano e del vociare allegro e amichevole di gruppi di ragazzi e ragazze, senza nemmeno alzare lo sguardo dall’asfalto, dedussi che ormai l’entrata del locale doveva essere a pochi metri da me…
Proseguii in quella direzione, cercando invano di scacciare ogni cosa dalla mia testa e concentrarmi solamente sulla musica, quando… Quando, ad un tratto, mi ritrovai a terra.
La prima cosa che mi fece rendere conto della mia caduta fu un forte dolore alle braccia, che erano subito corse a riparare la testa, evitando a quest’ultima un poco dolce impatto col duro catrame sottostante. La seconda, fu il repentino cambiamento di panorama: dal nero della strada, rischiarato a chiazze dalla luce dei lampioni, ad una distanza di quasi un metro e ottanta, a quello stesso asfalto, ora però a pochi fottuti centimetri dalla mia faccia. Infine, la terza fu il fatto che avvertii un corpo estraneo sotto di me.
Prima ancora di verificare a chi appartenesse quest’ultimo, mi rialzai velocemente, pronto a levarmi subito dalle palle ed entrare al più presto nel locale, sperando che il volume a millemila decibel della musica potesse azzittire le voci che avevo in testa da fin troppo tempo.
– Ma guarda dove vai, idiota! – mi urlò una voce femminile, alquanto incazzata ed infastidita, prima ancora che potessi dirigermi verso la soglia del Gilman.
– Ma guarda tu dove cazzo vai! Idiota, fino a prova contraria sei tu quella che s’è fermata di colpo in mezzo alla strada, mica io! – le gridai di rimando, con una voce gutturale che quasi mi stupì, prima ancora di voltarmi per guardare chi diamine fosse quella scema che osava urlarmi in faccia, in un momento del genere poi!
Se le mie intenzioni, fino ad un secondo prima, erano quelle di far finta di nulla, non avendo voglia di ulteriori casini (quelli interiori mi bastavano e avanzavano, cazzo!), a quella provocazione i miei nervi, già oltremodo sotto pressione, scattarono come due fottute molle impazzite che, nelle mie condizioni, non avevo più la forza di controllare.
– Ciò non toglie che tu non hai guardato dove diavolo mettevi quei tuoi dannatissimi piedi! – ribatté lei, per niente scoraggiata né intimidita dal mio grido minaccioso, cupo e gutturale, che ricordava vagamente un misto tra uno scream ed un growl.
– Senti, non ho voglia di perdere tempo con ste cazzate, ok? Non sono dell’umore. È stata colpa tua, finiamola qua e tanti saluti. – tentai di tagliar corto, questa volta senza alzare il tono di voce, ma soffiando scocciato le parole.
– Colpa mia un cazzo! Quello che m’è caduto addosso sei tu, e se invece di guardare chissà dove, avessi fissato gli occhi davanti a te, te ne saresti certamente accorto... – rispose lei ancora una volta, questa volta con un’odiosa sfumatura ironica nella voce che mi fece alterare più di quanto già non fossi.
– Uno può avere cose molto più importanti a cui pensare, rispetto a quella di fissare gli occhi davanti a sé perché qualche fottuta idiota si ferma improvvisamente in mezzo alla cazzo di strada, non trovi?! – scattai, irato ed offeso.
– Senti, smettila di darmi dell’idiota o finisce male. – sbottò.
Se non fossi stato in preda all’ira e soprattutto al disperato dolore che cercavo di mascherare sfogandolo appunto in rabbia, probabilmente mi sarei messo a ridere di gusto: osava forse minacciarmi? Lei? Okay, probabilmente non aveva la più pallida idea di con chi avesse a che fare. Non ero certo il tipo che si lascia intimorire permettendo a qualcuno di minacciarlo. No, non ero più quel genere di persona da tempo, ormai.
Ridacchiai comunque tra me, seppur amaramente.
– Idem per te, stupida. – ribattei, con un ghigno beffardo.
– Io ti ho avvertito, brutto pezzo di merda, dillo un’altra volte e ti pentirai di aver messo piede fuori di casa stasera. – soffiò lei, alquanto alterata.
Continuava con le minacce, eh?
Proprio non aveva capito un cazzo, povera illusa.
Risi ancora, questa volta più forte, in modo che potesse sentire anche lei.
– Le tue minacce non mi fanno paura, affatto. Anzi, mi fanno solo ridere. – feci una brevissima pausa – E comunque ho detto stupida, non idiota. Cos’è, adesso non capisci più neanche la fottutissima lingua inglese? –
E quest’ultima frase da dove m’era uscita?
Anzi no, da dove, purtroppo, ne ero fin troppo bene a conoscenza. La vera domanda era perché mi era uscita.
Non sapevo per quale fottutissimo motivo stessi dicendo quelle cose. Sapevo solo che, senza che potessi arrestarne il corso, stavo scagliando fuori con rabbia parte di quei demoni di quel mio fottuto doloroso passato fin troppo presente per essere definito veramente tale.
E sapevo anche che, ormai, ero fuori controllo e non riuscivo più ad arrestare il corso delle parole che stavo sputando con disprezzo verso di lei.
– O magari sei una di quelle bastarde che si atteggiano tanto ma poi non capiscono un cazzo… – continuai, sempre più velenoso, sempre più fuori di me – O una di quelle stronze che si credono tanto intelligenti e fighe, ma che in realtà sono solo delle stupide puttane, oppure delle insulse bastarde che cercano invano di nascondere chissà quale origin… –
– Adesso basta, cazzo! – urlò, anche lei ora veramente fuori di sé, trapanandomi i timpani e interrompendo il flusso di insulti che sgorgava dalla mia bocca, esente ormai dal controllo del mio cervello, ma comandato solamente da quei sentimenti di pura rabbia, indignazione, dolore, sofferenza e simili che avevano preso pieno possesso di me.
– Mangiatele quelle tue parole di merda, strozzatici pure se vuoi, ma non osare rivolgerle a me! – continuò ad urlarmi, dopo una brevissima pausa in cui probabilmente aveva ripreso fiato, fissandomi con occhi di fuoco.
Non riuscivo a capire che le era preso, tutt’ad un tratto.
A quanto pareva, avevo colpito in pieno il suo orgoglio, la sua dignità, ma non riuscii a rallegrarmene.
Probabilmente perché intravidi qualcosa, in quegli occhi…
Qualcosa che mi parve un deja-vu; qualcosa che mi fece ricordare ancor di più le sofferenze del mio passato.
Qualcosa che, infine, se fossi stato sobrio, mi avrebbe fatto pentire di ciò che avevo appena detto, facendomi desiderare piuttosto di sparire all’istante, di sotterrarmi a mille metri di profondità.
Impressionante, stranamente impressionante: erano davvero rare le volte che ciò mi capitava…
Tuttavia, purtroppo, non ero affatto sobrio. Non che fossi ciucco1 marcio, ci sarebbe voluto molto di più, ma comunque ero sufficientemente sbronzo da non riuscire a connettere in tempo il cervello alla mia dannatissima lingua.
Inoltre, tutto quel mix di sentimenti bui che mi soggiogava di certo non aiutava il mio autocontrollo a riaffermarsi in me!
Però, per un momento fu come se fossi riuscito a tornare completamente sobrio, liberandomi dall’ebbrezza che alimentava quelle belve imbizzarrite che scuotevano la mia anima e la mia mente. Si trattò solo di un secondo, ma fu sufficiente per farmi rendere conto di come diavolo mi ero ridotto ancora una volta, e per farmi guardare la situazione senza l’accecamento dell’ira e della sofferenza che invano cercavo di reprimere.
Nel frattempo, mentre io ero rimasto in silenzio, tra i miei pensieri, quella ragazza mi rivolse un ultimo sguardo, gelido e bruciante allo stesso tempo, che colsi di sfuggita, prima di voltarsi ed entrare nel locale.
Rimasi ancora lì, fermo, per un lasso di tempo indeterminato che poteva variare tra una manciata di secondi e una di minuti, con lo sguardo fisso nel punto in cui la strada lasciava il posto alla porta del Gilman in cui era sparita poco prima quella strana tipa. A dir la verità, però, anche se il mio sguardo fissava quel punto, ciò che vedevo nella mia mente non erano affatto le immagini che gli occhi inviavano al mio cervello, perso nelle sue riflessioni e nei suoi fottutissimi ricordi.
Sapevo benissimo che ognuno di noi ha ferite che nessuno dovrebbe mai riaprire; le mie cicatrici mai guarite completamente potevano testimoniarlo, anche e soprattutto in quel momento.
E qualcosa, dentro di me, mi diceva che ne avevo appena toccata una delle sue.
Quel poco di parte razionale rimasta in me mi fece notare che il vero idiota, in quel momento, ero io.


Note:
1. Ciucco = sbronzo

   
 
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