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Autore: Chaike    29/10/2012    3 recensioni
« Bene, è stato un piacere conoscervi. » disse il maestro Norton prendendo in mano la sua borsa « Ricordatevi di fare i compiti, perché è una regola importante svolgere sempre gli esercizi che si danno per casa. Fate i bravi con il signor Way, è un ottimo insegnante di matematica, anche se … Che rimanga tra noi … » sussurrò alla classe « È una persona noiosissima! » fece ridere i piccoli che però non erano entusiasti di dover aspettare il giorno seguente per assistere ad una nuova lezione di quel giovane uomo.
I piccoli Mike e Chester quel giorno non sapevano ancora che figura importante sarebbe poi diventata per loro quella persona, così importante e che avrebbe lasciato il segno dentro ai loro innocenti e piccoli animi. Le parole che avrebbe detto nel corso di quei anni sarebbero diventate fondamentali per entrambi, per crescere e soprattutto per capire.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Chester Bennington, Mike Shinoda
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Note: Capito da che canzone proviene il titolo di questo capitolo? A Place For My Head! u.u
In verità il quarto capitolo non è nemmeno pronto, fate conto che ho circa due interrogazioni al giorno, quindi non ho molto tempo per scrivere. E se pensate che in questo ponte, che dura da giovedì a domenica ._.", mi metta a scrivere, siete delle illuse :'D Studierò come una merda tutto il tempo ~ DIRITTO AL ROGO!
Dove eravamo arrivati? Chaz e Mike avevano scritto la loro presentazione (scusate se non è abbastanza infantile, ma io non mi ricordo come scrivono i bambini :c), arrivano a scuola assieme e fanno a gara, scampando per poco di essere scotennati dal bidello O: Come andrà il resto della giornata? Come reagirà Chester nel sentire le presentazioni dei suoi compagni, con una vita così diversa dalle sue? E Mike, cosa farà nel conoscere qualcosa su Chester?
Lo scoprirete nel prossimo capitolo O:
LOL scherzo, lo scoprirete in questo :'3
In fondo metto la foto di Mikey e Kucky (non so se si chiamasse veramente così il suo cane xD) Appena ne avrò una di Chester, ve la metto u.u
Enjoy :3


Capitolo 3 – Maybe someday I’ll be just like you

 
Le prime tre ore di scienze e matematica passarono velocemente senza alcuna fatica di nessun allievo, dato che tutti quanti non stavano nemmeno ascoltando il loro insegnante che parlava e parlava, senza accorgersi degli sguardi vuoti di bambini che lo fissavano o che fissavano il muro.
Ogni piccola mente era occupata dalla più infantile fantasia che un bambino si potesse mai vedere passare davanti agli occhi abbandonati in un punto vuoto.
Cose che un adulto non riuscirebbe ad immaginare, perché forse solo i bambini hanno quella immaginazione che crescendo e vivendo nel mondo reale si perde.
C’era chi in quel momento sognava di salire in groppa ad un drago potente ed imbattibile, chi di nuotare assieme agli squali, chi di essere al comando del Gundam, chi di essere Diabolik, chi un pilota di un aereo o di uno shuttle.
E poi c’erano le bambine, che di mostri e robot giganti non gliene fregavano niente.
Persino Michael si fece prendere dalla noia che gli trasmetteva la voce del signor Way, suo insegnante che in quel momento parlava di scienze ed esseri chiamati microbi, bassa e roca, tipica di un uomo che però non cessava mai di emettere parole al vento con effetto sonnifero.
Dopo un po’ di tempo che il maestro cominciò a parlare, tutte quelle parole diventavano melodie di una docile ninna nanna che cullava e conciliava i sogni ad occhi aperti dei bambini.
Solo la dannata ed assordante campanella risvegliò quest’ultimi, diciotto corpicini che sobbalzarono sulle loro sedie per lo spavento.
« Bene, ecco l’intervallo … Mi sa che vi servirà proprio, dato che sta mattina vi vedo così spenti. Forza piccoli, avete appena cominciato la scuola e già vi stancate? » squadrò l’intera classe, mentre tutti quanti si guardavano scoraggiati ed un po’ imbarazzati per la loro non-colpa.
Lo sapevano benissimo pure loro che tutto quello che provavano in quel momento lo avrebbero rimpianto e tanto voluto più avanti, quando davvero avrebbero dovuto cominciare a sudare sangue per andare bene a scuola e prendere appunti ad ogni ora.
Dopotutto non era difficile: dovevano ascoltare, capire, fare gli esercizi a casa ed era fatto.
Ma mantenere l’attenzione dopo ben sei anni di abitudine al puro divertimento non era semplice.
Come il giorno prima, c’era chi usciva dalla classe per sgranchirsi le gambe, chi andava nei bagni e chi rimaneva in classe a giocare.
Quella mattina però, il bidello aveva riportato in tutte le classi dell’istituto i giochi da tavolo che erano stati ritirati durante l’estate per ripulire meglio ogni superficie. Ai bambini brillarono gli occhi quando notarono che nello scaffale in fondo alla classe c’era un ripiano con una cinquina di giochi.
Ed in quel momento tutti erano lì, accatastati contro quello scaffale, cercando il gioco migliore con cui passare i venti minuti d’intervallo a disposizione.
Sembrò un miracolo agli occhi di Michael quando vide il suo compagno di classe uscire dalla massa informe di bambini, con una scatola quadrata in mano e con lo sguardo un po’ intontito.
« Che cosa hai preso?? » chiese il bambino troppo eccitato per la vittoria dell’altro contro gli altri compagni di classe, guardandolo come se fosse un eroe di guerra in tempo di pace.
« F-Forza quattro. » balbettò il lentigginoso ancora un po’ rimbambito per gli strattoni e la lotta al miglior gioco appena compiuta. Fra poco non capì ciò che gli aveva appena risposto, e si chiese se avesse detto qualcosa di sensato o meno.
« Forza quattro? E come si gioca? » gli prese la scatola dalle mani esaminandola e cercando le istruzioni sul retro, cose non difficili da leggere dato che proprio quando iniziarono l’asilo entrò in vigore la leggere di insegnare ai bambini a leggere e a scrivere – almeno le basi – a partire dalla scuola materna.
Si sedettero ai loro banchi, Michael camminando senza guardare dove andava perché troppo impegnato a leggere, Chester barcollando come un ubriaco.
« Ah, ho capito come si gioca! In poche parole … »
« Tranquillo, » lo fermò Chester aprendo la scatola e prendendo su i pezzi da montare per la griglia « ce l’ho pure io questo. »
Il lentigginoso montò il gioco, mentre l’altro smistò i dischi gialli da quelli rossi, prendendo quest’ultimi e mettendoli dalla sua parte.
« Ma … volevo io quelli rossi … » mormorò fievole Chester dopo aver finito di montare la cella blu e vedendo i dieci dischi gialli lasciati da parte per lui.
« Oh … È che il rosso … È il mio colore preferito, quindi … Volevo prenderlo io, ma se vuoi li puoi prendere tu eh! » cercò di giustificarsi Michael, non volendo far rattristire il compagno, che appena sentì dire ‘è il mio colore preferito’ sgranò gli occhi.
« A te piace il rosso? » chiese con voce fievole.
« S-Sì … Perché? »
« È anche il mio! » risero entrambi infantilmente di fronte alla loro seconda cosa in comune: la prima la ciliegia, la seconda il rosso.
« Ma tienili pure tu quelli rossi, non è molto importante alla fine. » fece spallucce, attirando nel suo banco i dischi gialli come il sole.
Nemmeno si accorse di aver appena compiuto un atto di bontà e gentilezza, lasciando al suo compagno ciò che preferiva. Non l’aveva mai fatto con nessuno, sia perché non voleva cedere a gli altri quello che voleva lui, sia perché non ne aveva mai avuta l’occasione. Erano sempre gli altri a vietare lui ciò che desiderava.
Iniziarono a giocare, come tutti i bambini della classe, ognuno con il gioco che era riuscito a prendere prima che qualcuno lo rubasse per primo. C’erano gruppi numerosi di bambini al monopoli, un po’ di meno al gioco dell’oca, due e tre al gioco del labirinto. Infine c’erano alcuni bambini che viaggiavano da una postazione all’altra decidendo dove fermarsi a giocare, dato che non erano riusciti a prendersi qualche gioco per sé.
Chester e Michael erano già alla loro seconda partita di forza quattro, la seconda in cui il primo aveva battuto il secondo con facilità, che stava perdendo la pazienza di fronte a tutte quelle vittorie dell’amico.
Rovesciarono tutti i dischetti sul banco smistandoli da quelli rossi a quelli gialli dopo la seconda vittoria di Chester, per cominciare la terza partita.
« Possiamo giocare anche noi? » la vocina di una bambina sorse da dietro le spalle di Chester, il quale quasi saltò per aria perché preso di sorpresa.
Michael guardò dietro al suo compagno, scorgendo Ashley, la bambina dal vestito giallo, seguita dalla sua amica dal vestitino verde ed i capelli castani raccolti in uno chignon probabilmente fatto da sua madre.
Il suo sguardo passò dalle bambine al suo amico, che stava borbottando tra sé, non volendo lasciarle giocare e preferendo continuare egoisticamente. Una volta ch’ebbe l’opportunità di fare l’egoista con qualcosa che qualcuno voleva ma non possedeva, l’avarizia si fece strada in lui.
« Certo. » sorrise Michael alzandosi e cedendo il posto alla graziosa bimba, che con un sorriso si accomodò sulla sedia del nuovo compagno di classe.
A quel punto, Chester avrebbe dovuto alzarsi e cedere a sua volta il posto all’altra compagna, ma non c’era verso di scollarlo dalla sedia e dal gioco.
I tre bimbi fissarono quello dai capelli boccolosi, aspettandosi un atto cortese. Cosa che ovviamente non arrivò, in quanto il bambino non sapeva nemmeno cosa fosse la cortesia, le buone maniere e la gentilezza. Nessuno gliene aveva mai dato dimostrazione.
« … Chester … » lo strattonò Michael da una manica della sua maglietta arancione a maniche corte, l’altro si limitò a fulminarlo con lo sguardo, con un chiaro messaggio delle sue intenzioni.
« È cocciuto. » disse Michael alla bambina dal vestito verde dopo aver sbuffato, ma l’altra sorrise tranquillamente facendo spallucce pazientemente « Come vi chiamate? »
« Io Ashley. » disse la bambina inserendo il dischetto rosso, cosa che fece innervosire il compagno di fronte a sé che voleva essere il primo a iniziare.
« Io Anna. » rispose la bambina dal vestitino verde, mentre si sedeva sui banchi in seconda fila, aspettando il suo turno « Voi? »
« Io Michael. » si sedette affianco a lei sul banco molto basso, adatto alle loro minute stature « Lui invece è Chester. » rispose per il compagno, troppo impegnato per badare alle domande altrui.
A lui non piaceva essere così scorbutico e antipatico, gli piaceva far amicizia con i suoi coetanei. Però non riusciva proprio a fidarsi di loro, li reputava troppo subdoli.
« Grazie Michael per avermi ceduto il posto, tu almeno sei gentile. » Ashley stuzzicò come una vipera Chester, che la vaporizzò con un uno sguardo tagliente e distruttore.
In quel momento la sua teoria sulla falsità dei bambini, che all’apparenza sembrano degli angioletti amichevoli ma in verità sono dei luridi stronzi quando vogliono, si confermò.
« Ho vinto. » gli uscì dalle sottili labbra una voce rauca ed impertinente, che fece sorprendere Michael nel sentirgliela fare, come se lo conoscesse da anni e non lo avesse mai sentito parlare in quel modo.
Ashley guardò stupita la griglia, non riuscendo a capacitarsi dei quattro dischi gialli allineati obliquamente, incapace di dire qualcosa per i primi secondi.
« N-Non è possibile … » riuscì finalmente a parlare dopo aver messo a posto le idee « Io ci gioco da quando ero ancora all’asilo, come puoi sei riuscito a battermi? Sono sempre stata la migliore! »
I bambini riescono a litigare anche per le cose minime, le più insensate ed insulse. Ma ciò che solamente i bambini e nessun’altro sa fare, è fare la pace.
Chester alzò un sopracciglio scettico di fronte al comportamento così supremo della bambina, non credendo che veramente esistesse gente così convinta di sé stessa. In quel momento avrebbe voluto istigarla ancora di più, metterla in ridicolo per una sconfitta di un’insulsa partita di forza quattro, ma allo stesso momento volle consolarla.
È possibile che stare con bambini così diversi da quelli che ho conosciuto tempo prima mi stia portando ad addolcirmi e a comportarmi bene con loro, come loro fanno con me? pensò Chester per un nano secondo. Oddio, magari non tutti si comportano bene con me, però Michael lo fa … Forse, infondo, anche loro sono buoni come lui … Un giorno riuscirò ad essere come loro, a farmi accettare da tutti, facendomi amicizie senza problemi?
« Beh, sappi che a volte anche i migliori sbagliano. » disse Chester facendo spallucce, cercando di mascherare il sorriso addolcito nel vedere la bambina ancora allibita per la sconfitta.
Quest’ultima fece in tempo appena a sollevare lo sguardo dalla griglia blu a Chester, per guardarlo spaesata e sorpresa per la sua affermazione che nonostante ricordasse la sua sconfitta la stava definendo la migliore.
Ma il loro sguardo venne subito interrotto da Anna, la bambina dal vestito verde, che scese dal basso banco e strattonò Chester, facendolo alzare e sedendosi al suo posto.
« Però adesso tocca a me! » squittì la bambina facendo ricadere i dischetti sui banchi uniti e prendendo i gialli per sé.
Chester stava per dirle qualcosa, di togliersi dalle scatole e di lasciarlo giocare con il gioco che aveva guadagnato scalciando contro i suoi compagni di classe, ma venne fermato da Michael che lo tirò verso di sé, facendolo sedere sui banchi e lasciandolo brontolare.
« Ma voi vi conoscete dall’asilo? » chiese il giapponese americanizzato, curioso come ogni bambino della sua età.
« Sì. Abbiamo fatto tutti e tre gli anni assieme, in più siamo vicine di casa. » rispose Ashley con il suo solito tono rigido ma amichevole, il ché la faceva sembrare una di quelle donne che lavorano nel commercio e devono sempre sembrare forti, inflessibili e cocciute, che ottengono sempre ciò che vogliono.
« Voi invece? » chiese Anna inserendo l’ennesimo disco giallo come il vestito dell’amica.
« Noi ci siamo conosciuti solo ieri. » rispose Chester tranquillamente, smaltendo l’irritazione di prima creata dalla presenza delle due bambine.
« Davvero? Non sembra … » disse innocentemente Anna.
I due bambini si guardarono tra l’interrogativo ed il compiaciuto, con un sorrisetto incerto ed appagato.
« E cosa te lo fa pensare? » chiese Chester.
Alzarono entrambe le spalle in contemporanea, lasciando a bocca asciutta i due piccoli.
« Ho vinto! » esultò Ashley alzando i pugni in alto, mentre Anna girò lo sguardo offeso e deluso da un’altra parte.
Michael fece una smorfia di disapprovazione nel vederla rattristita, non era il tipo di bambino che gioiva di fronte alla tristezza altrui, anzi. Ogni volta cercava di rendere felici tutti.
« Vuoi fare una partita contro di me? » chiese allora alla bambina dal vestito verde, che subito annuì entusiasta.
Chester guardò stranito l’amico mentre quest’ultimo si sedeva al posto di Ashley, cedendo i suoi dischetti rossi ad Anna.
Ma che gli hanno fatto a questo, per essere così buono e gentile? pensò il lentigginoso.
Fecero in tempo a fare una partita, che vinse Anna, che la campanella suonò segnando la fine dell’intervallo.
Ma c’era una cosa che Chester aveva notato nella vittoria della bambina: Michael si era fatto volontariamente mettere sotto da lei, aveva fatto in modo che vincesse e che lui perdesse. L’aveva notato perché aveva messo praticamente quasi tutti i dischi rossi in modo da crearle il posto adatto ad una linea rossa di quattro dischi.
Ma in quel momento non disse niente, glielo avrebbe chiesto dopo al massimo, nel frattempo cercava di capire da solo perché.
Da quando la gente preferisce perdere per far felice gli altri? si chiese Chester staccando le gambe che sorreggevano in piedi la griglia e riponendole dentro la scatola che doveva riportare sullo scaffale. O è lui che è strano, o qui a Los Angeles hanno tutti le palle mosce.
Il piccolo aveva imparato tutte queste serie di modi di dire e parolacce grazie a suo padre che non riusciva mai a contenersi e autocensurarsi. E lui, come ogni bambino, imitava ciò che facevano gli adulti, credendo che fosse giusto così.
Mentre alcuni bambini si sedevano al proprio posto, certi posavano le scatole sul ripiano e altri ingoiavano l’ultimo pezzo di merenda, in classe entrò il signor Norton, il loro insegnante di lingue, di storia e geografia.
Posata la sua borsa marroncina verdastra sulla cattedra, il maestro si sedette dietro ad essa, aspettando che tutti i bambini si sedettero al loro posto.
« Buon giorno signorini, come state? » chiese tirando fuori un libro grande e colorato, quello che di lì a poco avrebbero dovuto usare per inglese, e le vocine dei bambini intonavano tutte in coro un acuto ‘bene’.
« Felici che oggi vi hanno dato i giochi? » sorrise nel vedere tutte le testoline annuire « E ditemi, come vi sembrano? Vi piacciono? »
« Alcuni sono noiosi. » ammise una bambina dai capelli biondo platino nel banco dietro a Leonard, che aveva giocato al gioco del labirinto.
« Altri invece sono divertenti. » la vocina di un bambino s’innalzò da in fondo la classe.
« Beh, possiamo dire sempre meglio di niente, allora. » sorrise il maestro « Avete fatto i compiti, vero? » inclinò il tono di voce di poco, tanto per far terrorizzare i bambini che non avevano seguito le semplici regole scolastiche.
Dovevano insegnarglielo fin da piccoli, cosicché da grandi avrebbero fatto sempre i compiti ogni volta che venivano assegnati. Ma alla fine della fiera, erano più gli adolescenti che non li eseguivano che chi invece sì.
Il silenzio calò immediatamente sui bambini, come se gli si avesse urlato addosso di tacere. Ma lui li aveva fatto una semplice domanda …
Il maestro sbuffo insofferente e disse poi calmo « Alzi la mano chi non li ha fatti. »
Tre manine si alzarono nel vuoto: il bambino dai capelli rossi, una bambina dai capelli neri ricci e crespi, ed infine un altro bambino con i capelli biondi spettinati sulla sua fronte.
« Per lo meno siete in pochi … Bambini, fare i compiti è importante. » li ammonì il maestro con voce premurosa, mentre i piccoli si strinsero nel loro minuto corpo per la vergogna e il dispiacere.
« Non sono uno che sgrida e mette note, lo faccio così raramente che non varrebbe nemmeno la pena contare le volte in cui le segno sul registro. E sapete qual è la cosa peggiore? È che le note che scrivo, vanno a finire nel registro nero. » fece rabbrividire i bambini nel sentirsi dire quella cosa così misteriosa ma che allo stesso tempo inquietava e metteva istintivamente paura.
« Sapete cos’è il registro nero? » chiese ripetendo sempre quelle due parole con una certa enfasi, mentre le testoline dissentirono « È il registro che va direttamente alla preside della scuola, e voi non volete che la preside veda cosa avete fatto, vero? »
I bambini provarono un senso di terrore nel vedere il loro docente tirare fuori dalla sua borsa un fascicoletto con la copertina nera. Pure Chester s’intirizzì.
« Per oggi non vi darò alcuna nota, perché sono buono. Ma la prossima volta bada a voi se non li fate … Beh, cominciamo. Facciamo l’appello. » prese il registro di classe, quello con la copertina azzurra plastificata, leggendo nome per nome i bambini che ogni volta alzavano la manina sussurrando un ‘presente’.
« Ieri chi ho già sentito, per lo meno per il nome? » chiese il maestro alzandosi dalla sedia e Leonard, Ashley, Chester e Michael alzarono le mani.
« Allora, Leonard. Leggici di te. » disse sedendosi sul bordo della cattedra, portando le mani vicino ai suoi fianchi.
Il bambino tirò fuori dallo zaino il suo quaderno, cosa che fecero insieme anche i suoi compagni capendo che era l’ora di iniziare la lezione. Si schiarì le corde vocali e cominciò con la sua fievole voce:
« Il mio nome è Leonard Steev, ho sei anni e sono nato a Boston il ventidue Agosto. Mi sono trasferito qui quando avevo solo un mese, perché alla mia mamma è sempre piaciuto abitare a Los Angeles. Mia mamma si chiama Beverly, ha ventiquattro anni e viene dalla Giamaica. Anche mio papà Luke è giamaicano. »
La classe taceva in un silenzio contemplativo, ascoltando ogni singola parola che le sue corde vocali emettevano, interessati da lui, dalla sua storia e dalla sua vita.
« Ho un criceto, Hamm, che mi hanno regalato per il mio compleanno, il mese scorso. L’ho chiamato così perché ogni volta che mangio un po’ di panino al prosciutto gliene do un pezzetto, e a lui piace tanto! A volte mia mamma mi accompagna in uno skate-park per bambini della mia età, dove ho fatto tante amicizie. Da grande voglio diventare uno tra i migliori skater dell’America. » finì di leggere il suo compito, alzando il suo sguardo incerto e timoroso dal foglio al maestro.
Chester, come gli altri, aveva ascoltato e appreso qualcosa in più su quel bambino. Non gli interessò più di tanto delle sue origini giamaicane o del suo criceto. Lo catturò di più il fatto che faceva sembrare la sua famiglia perfetta, cosa che magari era veramente, ma che a lui non andava giù. Non ci credeva di essere l’unico a vivere in una situazione come la propria.
« Bravo, ottimo lavoro. Adesso … » girò lo sguardo tra i banchi pieni di bambini « Ashley!  Leggici la tua presentazione. »
La bambina partì subito in quarta, leggendo bene ad alta voce per essere sentita da tutti i compagni e dal maestro « Mi chiamo Ashley Deste, sono nata il tredici Giugno a Los Angeles, ma ho origini francesi e tedesche da parte della mia mamma e del mio papà. Infatti la mia mamma Ginette, di ventinove anni, è originaria di Aix-en-Provence, mio papà Henrik di trentadue anni è di Berlino. Viviamo in un alto palazzo nel centro di Los Angeles, nell’appartamento vicino a quello dei miei cugini. Ho una sorella maggiore, Jane, che ha otto anni e viene in questa scuola. » il bambino dai capelli boccolosi s’irrigidì.
Ha otto anni e viene in questa scuola?? pensò il bambino. Dio ti prego, fa che non conosca Brian, fa che non l’abbia mai visto e non sappia nemmeno della sua esistenza, ti supplico … piagnucolò tra sé, posando disperatamente la testa sul banco. Michael, guardandolo, ebbe la paura che fosse svenuto per chissà quale malore.
« Da quest’anno comincerò danza classica, assieme alla mia migliore amica Anna Hillinger. » lanciò uno sguardo ed un sorriso alla bambina appena nominata che ricambiò il sorriso « Amo gli animali, qualunque esso sia. Ma dato che viviamo in un condominio, non ci conviene prenderne, perché poi non avremmo nessuno che lo potrebbe portare fuori per i suoi bisogni. »
Un’altra con la vita perfetta, la famiglia perfetta, le amicizie perfette. Tutto era perfetto, anche con lei. La fortuna le aveva sorriso, a differenza di Chester il quale si beccò invece uno sputo nell’occhio da parte sua.
« Adesso … » il cuore dei bambini fece un tuffo nella paura e nell’agitazione « Michael, il nostro piccolo genio. » fece l’occhiolino al bambino che sorrise timido e compiaciuto.
« Mi chiamo Michael Kenji Shinoda, ho sei anni e sono nato l’undici Febbraio del 1977 a Los Angeles. Vivo con mia madre Susan di trent’anni, mio padre Kenji di trentaquattro e mio fratellino più piccolo Jason, che va ancora all’asilo.
Mio padre è originario del Giappone, i suoi genitori furono tra i primi emigrati giapponesi che sbarcarono in America, al ritorno di mio nonno dalla guerra. Ma per tradizione ritornarono alla loro città natale per la nascita di mio padre, che però non poté fare la stessa cosa con me.
Ed è per questo ha voluto affidarmi il suo nome giapponese, per ricordarmi sempre da dove provengo. »
Sembra perfetta pure la sua … pensò sofferente Chester.
« Ho un cane di nome Lucky che ha tre anni, proveniente dalla cucciolata della nostra vicina di casa, la signora Goldsmith.
Il mio passatempo preferito è disegnare, mi piace molto farlo. Ogni volta che posso prendo matita e pennarelli e disegno qualunque cosa mi venga in mente. La mia mamma mi dice sempre che da grande diventerò un bravo artista, mio padre dice che sarebbe meglio che io studi e che diventi piuttosto un bravo medico. »
Non sembra, lo è …
« Mi piace studiare, non capisco perché la maggior parte dei miei amici lo odino. Penso che conoscere le cose renda le persone migliori, odio l’ignoranza, è una caratteristica stupida ed inutile. A volte vado nella libreria di mio padre, nel suo ufficio, e prendo un libro di quando andava ancora a scuola. È così che ho imparato le tabelline! » finì posando ordinatamente il suo quaderno sul banco.
« Bravo, sono felice che ti piaccia studiare! Almeno con te non farò fatica a insegnare, con alcuni dovrò sudare sangue … » si grattò la fronte corrugata in un’espressione disperata nel ricordarsi quanti furono gli allievi che lo tirarono scemo nel corso degli anni della sua corta carriera.
Chester rilesse quel minimo del suo compito in quel poco tempo che gli rimase e la voglia di sotterrarsi aumentò.
Cosa cazzo mi è saltato in mente ieri sera, quando ho scritto sta roba?? pensò il bambino nel pieno del suo panico.
« Bene, adesso Chester. » il maestro guardò il bambino, che però lo ricambiò con uno sguardo spaesato e terrorizzato.
In un certo senso gli piaceva che la gente sapesse su di lui, pensava che il degrado fosse figo. Tutti i bambini ad una certa età pensano che colui che possiede un passato oscuro, un comportamento scorbutico, stronzo, che ti mette i piedi sulla testa sia figo. Ma lo è solo quando si è quel genere di bambino, non quando lo sono gli altri.
In poche parole lui da un lato voleva raccontare di sé, in quel modo evasivo, dicendo e non dicendo. Ma dall’altro lato si vergognava.
« M-mi chiamo Chester Charles Bennington, ho sette anni e sono nato il venti Marzo del 1976, a Phoenix, Arizona. » in quel momento Michael si girò di scatto a guardarlo confuso, non capendo se avesse udito lui male o pure fosse realmente più grande di lui di un anno.
« Mi sono trasferito a Los Angeles nell’estate del ’82 per il lavoro di poliziotto di mio padre. Durante il mio tempo libero mi piace girare per il mio quartiere, cantando senza preoccuparmi di essere sentito, non mi vergogno della mia voce. Mi piace tanto ascoltare la musica alla radio, se potessi l’ascolterei tutto il giorno. Il mio gruppo preferito sono i Depeche Mode, adoro People Are People. »
« Pure a me piacciono … » mormorò a bassa voce il maestro con un mezzo sorriso sulle labbra.
Chester in quel momento esitò a continuare, non sapeva se voleva veramente che i suoi compagni venissero a conoscenza della storia del suo primo ed ultimo migliore amico. Aveva paura che lo prendessero in giro, che lo avrebbero lasciato da solo come tutti gli altri bambini dell’asilo fecero prima di loro.
Lui sapeva che avrebbero potuto fare questo e oltre, rovinargli tutti i suoi giorni o per lo meno provarci il più possibile, perché non sarebbero stati felici finché lui non sarebbe stato triste.
Sapeva che avrebbero avuto il coraggio di farlo, i bambini erano sempre stati stronzi con lui, erano esperienze vissute sulla propria innocente pelle pallida di bambino.
E poi, forse, avrebbe potuto perdere Michael. Non che gli interessasse più di tanto, lo aveva appena conosciuto, e nonostante gli sembrasse simpatico, gentile, buono e sociale era sempre un bambino, come quelli che avevano cercato di rovinargli l’esistenza.
Come l’avevano fatto loro lo avrebbe fatto lui, non’era difficile dopotutto. Ognuno era un facile bersaglio, e chi era destinato ad essere preso di mira per sempre lo si capiva/sceglieva fin dall’inizio. E da lì in poi non ci sarebbe mai stato motivo per cambiare le cose.
« Quando abitavo a Phoenix avevo un cane, un pastore belga, si chiamava Beer perché il suo pelo aveva il colore di una birra bionda. Sembrava un cane stupido, ma non lo era, faceva il finto tonto solo per farmi ridere. Ma un giorno scappò di casa, ed io stetti davvero male per tanto tempo. »
Si comincia pensò Chester.  O li perdo, o i bambini di Los Angeles sono diversi da quelli di Phoenix.
« Un giorno una signora bussò alla porta di casa accompagnata da una giovane ragazza. » vide di nuovo quella signora dai capelli bianchi tinti di biondo davanti ai suoi occhi, in mezzo a lui e a quelle parole scritte sul suo quaderno.
« Quando aprii notai che legato al guinzaglio aveva Beer, che appena mi vide mi saltò addosso leccandomi e facendomi le feste. » vide il suo cane, che guaì di felicità appena lo scorse, che fece un salto addosso quel corpicino di bambino, invadendolo con leccate affettuose e felici.
« Ma subito dopo notai anche che la signora aveva degli occhiali da sole sul naso, e non perché fosse una giornata soleggiata, ma bensì perché era cieca. » era piccolo, sì, ma sapeva cosa significassero quegli occhiali così scuri, quei movimenti così incerti della signora, che gli ricordarono un bambino che gioca a mosca ceca, con gli occhi bendati e lo sguardo oscurato.
Solo quando la vide capì cosa provassero i cechi, ogni giorno della loro vita. Un’agonia di paura ed insicurezza anche nell’atto di camminare, di allungare una mano, di afferrare qualcosa.
« Decisi di lasciarglielo nonostante fossi così affezionato, lui fu il mio unico e vero migliore amico. » finì con un fastidioso nodo alla gola ed una voglia matta di piangere disperatamente come ogni volta che pensava al suo migliore amico. Ma quella volta doveva sembrare indifferente ed insofferente, forte e duro, insensibile. Nell’atto di posare il suo quaderno sul banco, si udì solamente il tintinnio due campanelli del suo braccialetto.
Quella fu l’ultima volta che si mostrò gentile e cordiale, che fece un atto da cuore puro e benevole, ritrovandone in cambio la solitudine e l’abbandono. Quello fu uno dei motivi principali che lo portarono a non fare più azioni del genere, ovvero a pensare prima per sé e poi per gli altri.
Chissà cosa starà facendo adesso. Chissà se sta bene. Chissà se si ricorda di me, di ciò che abbiamo passato assieme in quei pochi anni in cui è stato con me …
Attorno a lui si era formato il silenzio, proprio come il giorno prima quando aveva detto che la scuola sarebbe stata noiosissima e basta. Quel bambino era capace di azzittire tutti con niente.
Lo fissarono mettendo in ordine nelle loro testoline le informazioni essenziali che aveva detto: nato nel ’76 a Phoenix, gli piaceva cantare, ebbe un solo ed unico amico, un cane.
Non che fosse scandaloso tutto quello, c’erano situazioni peggiori alla sua molto probabilmente e sicuramente non erano poche, lui era un caso come tutti gli altri. Ma una condizione del genere non è niente quando te la raccontano, è invece totalmente diversa quando conosci la persona che la vive.
« Oh … Hai un passato molto commovente e triste, Chester. » ammise il maestro « Ma sappi che il tuo amico non vorrebbe che tu ti abbattessi ma che continuassi ad andare avanti, mostrandoti forte. » gli fece un occhiolino d’incoraggiamento, che il bambino ricambiò con una smorfia che sarebbe dovuta essere un sorriso.
« Bene, adesso gli altri. » batté le mani il docente prendendo poi l’elenco della classe e chiamando i bambini, ascoltando le loro presentazioni mentre coloro che non le avevano fatte dovettero inventarle al momento a voce.
Mentre il bambino che faceva di cognome Amstrong, il primo dell’elenco, leggeva la propria presentazione scritta il giorno prima, Chester guardò di sottecchi il suo compagno di banco, Michael, cercando di capire se il fatto che avesse un anno in più di lui lo mettesse a disagio.
Ma al bambino dagli occhi a mandorla poco interessava in quel momento l’età del compagno, era solo un numero dopotutto, niente di ché. La sua tarda entrata nella scuola primaria poteva essere dovuta a tanti fattori che lui in quel momento non riusciva a pensare.
La perdita del cane, il suo migliore amico, gli dispiacque solamente come a gli altri. Non pensò nemmeno per un secondo di poterlo discriminare per una cosa del genere, non avrebbe avuto senso.
Chester ascoltò in silenzio le presentazioni di tutti gli altri compagni di classe, e più le sentiva più aveva voglia di chiedersi il perché.
Perché le loro vite fossero così perfette rispetto alla sua.
Perché era l’unico che soffrisse nonostante non avesse fatto niente di male per meritare tutto quello.
Perché a lui era toccato quell’orrendo passato e presente che non desiderava affatto vivere.
Lui voleva solamente vivere la sua vita come un bambino normale. Avere degli amici, tra cui uno più speciale che sarebbe stato il suo migliore amico. Una famiglia che lo amasse, e che si amassero tra loro i componenti. Più soldi, per permettersi di comprare una merenda, delle maglie non di seconda mano o magari usate e regalate dai propri cugini e parenti, una cartella che sembrasse adatta a un bambino, una casa più grande e pulita in un quartiere non malfamato di Los Angeles.
In quel momento, in cui stava ascoltando l’ennesima presentazione della vita perfetta di un suo compagno, desiderava essere come loro.
Forse un giorno pensò Chester guardandosi le mani posate sul banco, dita magre con unghie mangiucchiate e non bel limate dalla mamma come quelle dei suoi compagni. Quando sarò io al capo di una famiglia tutta mia, farò di tutto pur di vedere mio figlio sorridere.
E così sarebbe stato felice come loro. Forse, un giorno.


Mike e Lucky
   
 
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