Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni
Segui la storia  |       
Autore: TuttaColpaDelCielo    01/11/2012    3 recensioni
«Ho sbagliato qualcosa?» chiedesti, tremando nel fuoco.
«No. Non hai sbagliato nulla.» ti risposero «Non è colpa tua.»
Ti condannarono ugualmente.

Nata dalle proprie ceneri come l'araba fenice, si chiede Chi sono? e impazzisce lentamente, senza memoria di ciò che fu prima.
Senza passato non c'è futuro; se non eri, non sarai. Allora che senso ha essere?
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo 27 – Follia





«Perché non vorresti cadere? Cosa otterresti in Paradiso, oltre a Espiazione e silenzio?»


Già, bambina. Cosa otterresti?
Non essere sciocca. Non dimenticare il dolore, il disgusto, le domande represse. Non dimenticare com’è, essere imprigionata in una morsa di silenzio e vuoto pronta a frantumarti. Non dimenticare gli sguardi, i sussurri, la falsa purezza.
Vuoi forse restare qui a morire dentro, istante dopo istante?
Restare qui con la nausea e le lacrime e risposte mute a quesiti mai posti. Restare qui con i Censori che fanno impazzire e Leliel che diventa sempre più crudele, e Ridwan che ha lo sguardo spento, e Ramiel avvelenata dai sospetti e dal terrore, e... e Nelchael che ha l’espressione cupa e le mani crudeli e aiuta a distrarsi, Sachiel con l’essenza nera di rabbia e braccia che stringono per strappare al delirio, quindi forse non è davvero tutto così... così...
No! Non dimenticare, bambina. Non dimenticare com’è spezzarsi le ali, nel tentativo di risalire dal baratro di silenzio e obbedienza.


Amitiel voltò il capo di lato, lentamente, posando la guancia sul cuscino.
Le dolevano le ali, compresse dal corpo disteso supino, e doleva anche qualcos’altro – ma cosa? Pulsava piano dentro di lei, tra il petto e gli squarci, ed era come... come un vuoto. Come se qualcosa le stesse mangiando la carne e le ossa, silenziosamente, e l’aria spirasse nel suo corpo cavo.
No, non nel corpo. Era più... intimo. Più profondo.
Una sensazione, quel vuoto, che risveglio dopo risveglio stava diventando familiare.
E non solo dopo il risveglio, ormai.
...aveva gli occhi aperti? Non riuscì a capirlo. Vedere solo bianco, in Paradiso, non era garanzia di non vedere la semplice realtà.
Sbatté le palpebre – come se le fosse necessario – e il bianco assunse contorni: la parete, un letto, una sagoma dagli abiti candidi. Poi vennero i colori, e distinse Ramiel che la fissava a sua volta: due pietre verdi e una cascata rossa, di una tonalità calda e infantile.
Ma Ramiel non aveva i capelli lunghi.
...l’aria era trasparente, senza Presenza, si accorse; eppure lei si era appena destata.
«Ti è stato concesso di riposare più a lungo» la informò la compagna, con voce neutra «poiché Nelchael ha ammesso di averti stancata troppo.»
«Capisco.» si udì rispondere, altrettanto neutra.
Così... vuota. Stanca. Stordita.
Una sensazione che sembrava divenire più intensa a ogni risveglio.
«Ovviamente dovrai recuperare le lezioni che non hai seguito.»
Annuì, sfregando la guancia contro il cuscino.
«E tu...?» mormorò, ancora stordita da quel riposo stancante, dagli innumerevoli riposi stancanti che si succedevano, accompagnati da voci che al risveglio scolorivano lentamente fino a lasciare solo un ricordo confuso. Se fosse stata lucida, forse avrebbe stretto le labbra per impedire alla domanda di affiorare.

Pensieri repressi, dubbi inghiottiti. E cosa succederà, quando esploderanno?

«È stato concesso di riposare anche a me, poiché il Fuoco non ha avuto il tempo di agire completamente.»
«Il... Fuoco?»
Si spiegavano i capelli lunghi, quindi: il Fuoco doveva aver sanato anche quella ferita, riportandoli alla lunghezza che avevano avuto alla Venuta, quando il sangue scorreva copioso dagli squarci e tutto il resto era intatto, perfetto, tra lingue rosse che le danzavano attorno. Probabilmente non aveva ancora trovato il tempo di tagliarli.
Non si spiegava, però, perché Ramiel ne avesse bisogno: le esercitazioni dei Cherubini non erano tanto feroci da causare lesioni che non si rimarginassero nel tempo di qualche lezione – non alla quinta classe, ad ogni modo. Più avanti, be’, più avanti non poteva esserne certa, ma fino a quel momento nessuna lezione ordinaria aveva causato troppi danni, e Ramiel non amava combattere, non cercava nessuno con cui scambiare colpi e ringhi – no, Ramiel no, non aveva bisogno di affogare il vuoto e l’ossessione nel proprio sangue.
...e il ciclo precedente si era coricata come tutte le altre.
La compagna, in risposta, scostò la veste dalle gambe. Su una coscia spiccava una lacerazione di un colore innaturale; non si vedeva la carne chiara, non si vedeva il sangue candido, solo... rosso. Rosso, rosso, rosso, rosso di un colore che non erano ali infantili, non erano gocce di sangue umano, non erano nemmeno le tracce atroci che dal corpo martoriato di un gatto le si erano impresse nella memoria; ma era una vista altrettanto terribile, che le faceva ribollire d’orrore qualcosa, dentro, quel poco che di lei era rimasto candido e angelico e spaventato dalla corruzione. Se fosse stata istruita sui Demoni, avrebbe riconosciuto il sangue – veleno – che scorreva in loro.
Nell’ignoranza, il suo ventre si limitò a contrarsi per il disgusto.
«Come...?»
«Dai Guaritori.» replicò, secca, come se non potesse dire altro – e probabilmente non poteva, in effetti.
Non capì. Non riuscì neppure a formulare un’ipotesi: perché era impensabile che un cherubino si coricasse e, il periodo successivo, stesse seduto sul letto con quel segno violento sul corpo. Era impensabile che un cherubino venisse richiamato durante il riposo, a svolgere compiti che sarebbero dovuti competere solo ai Guaritori più esperti.
Impensabile. Impossibile.
Poi, d’un tratto, Ramiel ricoprì le gambe con la veste e si guardò attorno: nessuno nella stanza, nessuno oltre le vetrate. La sua essenza si tese, espandendosi a cercare altre presenze, dove gli occhi non potevano giungere ma l’udito poteva ancora captare – dove parole sbagliate avrebbero potuto essere colte e riferite. Chiuse gli occhi e rovesciò la testa all’indietro, come a voler ingoiare più aria, ma il suo torace era già sollevato per un’inspirazione.
Sembrava solo voler prendere tempo.
«Amitiel...» sfiatò infine, svuotando il petto e incurvando le spalle «Come sono i Censori?»
Lei si sollevò dal cuscino. Si era aspettata di sentirsi stanca, appesantita da quel vuoto interiore, ma si mosse facilmente: era come essersi appena ripresa grazie al Fuoco, con il corpo che rispondeva ai comandi pur sembrando ancora vagamente intorpidito.
Doveva essere rimasta una macchia bianca, dove si erano poggiate le scapole sanguinanti, ma non abbassò lo sguardo a controllare. Lo tenne su Ramiel, invece, su quelle iridi verdi, su quella lunga cascata rossa che emergeva dal candore e ancora non trovava una spiegazione.
Com’erano i Censori.
No, no, non ricordare, urlava qualcosa dentro di lei.
Oh, sì, bambina, ricorda, bisbigliava qualcos’altro.
Com’erano i Censori.
Voleva davvero saperlo, Ramiel? E lei, lei voleva davvero raccontarlo?
«Perché?» le uscii in un mormorio.
L’altra si irrigidì.
Già. Perché.
Fu bello, poterlo chiedere.
E fu dolce, pensare che in fondo stava seguendo il consiglio di Anane – che stava parlando con Ramiel. Quasi potesse scusarsi, così. Quasi potesse colmare il vuoto, per un istante, invece di occultarlo sotto la brutalità di un combattimento o sotto un delirio incomprensibile.
«Cosa ti fanno?» chiese ancora Ramiel, tremante, senza rispondere.
Quella domanda, inaspettatamente, le procurò un sorriso – no, un ghigno. Un ghigno amaro e feroce.
«È come se ti entrassero dentro. Nella testa, tra i pensieri. Come se la loro essenza soggiogasse la tua, e... e non ragioni più. Le loro... parole, le loro parole distorcono ogni cosa. Ogni cosa.»
Le loro menzogne, era stata sul punto di dire.
È meglio che veniate divise. Per il vostro bene.
Ed erano state divise, alla fine, ma aveva fatto solo male.
Lo aveva fatto e lo faceva ancora: tanto, tanto male. Per diciassette interi cicli.
Solo in quel momento si accorse di averli contati.
«È vero che... che portano alla follia?»
Il ghigno si sciolse in una risata bassa, di gola, e poi tornò ad aleggiare come un sorriso vago. Il viso s’inclinò leggermente, come a scrutarla con più attenzione, e Ramiel... Ramiel, per un istante, sembrò rabbrividire.
«Chi è folle, Ramiel?»
Silenzio.
«Chi è folle, Ramiel?»
Silenzio.
«Chi è folle, Ramiel?»
Silenzio.
Mani che passarono febbrilmente tra i capelli rossi, lunghi – e i suoi, i suoi, i suoi non crescevano più. La ciocca più corta delle altre bruciava la nuca, là dove si adagiavano le punte irregolari, segno del vuoto immondo dentro di lei.
Un sospiro tremulo, alla fine, prima della risposta.
«Gli Sconsacrati.»

No. Oh, no, non è questa la risposta.

«Chi è folle, Ramiel?»
«I Caduti. I Demoni.»
E tremare entrambe dentro, sapendo che erano altre, le parole da bisbigliare.

Forse, bambina, la tua scelta la stai compiendo ora.

«Chi è folle, Ramiel?»
Chi si chiede. Chi si domanda.
Chi non obbedisce.
Chi precipita in legami troppo profondi, troppo intensi.
Chi ama e chi non vuole fingere quell’amore falso e sbiadito che chiamano compassione.

I Censori non rendono folli. I Censori puniscono i folli.

«Chi è folle, Ramiel?»
Chi sente voci, chi non riesce a riposare, chi ha ricordi e sussurri che ormai si mischiano anche durante la veglia. Chi non riesce più a distinguere tra ciò che è e ciò che... che, chissà, forse è stato un tempo.

È solo una parola, la risposta. Solo una parola. Ma cosa trattiene dal pronunciarla? Paura, forse? Negazione? Eppure è tutto qui, sotto gli occhi. Sulle labbra.
Parla, bambina.

«I Censori, Ramiel, non possono renderci più folli di quanto già non siamo.»
Nessuna risposta.
E tremare entrambe dentro, ancora, sapendo che era vero.
«Siamo noi i folli, Ramiel.»

Lo vedi che lo sai, bambina?
Lo vedi che lo sai, folle?

* * *

Era stato un attimo. Solo un istante in cui il vuoto era divenuto chiarezza; in cui la sua mente, galleggiando nel nulla, era stata libera. Niente catene, niente terrori, niente echi di insegnamenti che erano come litanie ripetute troppo a lungo. Solo chiarezza – e luce, quella vera.
Aveva pensato.
E aveva compreso.

Libera.
O forse, chissà, stava solo affondando tra catene diverse.

Era folle.
Era folle perché sognava, perché si affezionava, perché i legami corrodevano la candida essenza degli Angeli; perché il ricordo degli occhi del Custode appannati dal dolore continuava a tormentarla, e così un gatto seviziato da innocenti Umani, e così le voci, e così ricordi non suoi.
Era folle e andava bene.

Il nodo della fascia si stava allentando. Un lembo della maglia iniziava a sfuggirvi: lo sentiva adagiarsi contro la pelle del fianco, nell’aria ferma – sempre che si potesse chiamare maglia qualcosa che le lasciava scoperte le spalle e le scapole, coprendo solo il seno e la parte inferiore del busto. C’erano altri, lì attorno, che portavano maglie vere, di fattura simile a quella umana; altri che già potevano ritirare le ali e indossare abiti diversi, certamente più comodi e pratici di qualcosa che cadeva a terra non appena un laccio si spezzava.
...la lucidità svaniva, lentamente, inghiottita da pensieri inutili e superflui.
Si morse il labbro inferiore.
Erano tutti immobili, lì: due schiere opposte, con le ali ripiegate sulla schiena, le spalle dritte, il viso impassibile. Immobili i Cherubini, immobili gli insegnanti – o almeno presumeva che fossero insegnanti, anche se erano tanti, anche se non li aveva mai visti, anche se avevano quasi tutti fasce nere. Qualcuna verde, altre viola. Guardiani, Guaritori, Esecutori spirituali. Possibile che non avesse mai incontrato che una manciata di tutti quegli insegnanti? Forse venivano da altre Circoscrizioni.
Erano di fronte, erano ai lati; dietro no, perché non c’era bisogno di far sentire i Cherubini circondati. Perché, per quanto l’aria fosse immobile e il silenzio carico di incertezza, nessuno sarebbe scappato.
Nessuno.
Erano tutti sani, lì, erano tutti puri, candidi, nessuno si chiedeva, si domandava, nessuno intesseva legami, nessuno forzava i tempi. Nessuno si sarebbe mosso, nessuno avrebbe rifiutato quell’attesa sfibrante, nessuno avrebbe detto no. Voglio sapere. Adesso. Voglio sapere. Adesso. Ditemi che succede.
No, nessuno, perché erano tutti sani, lì.
Perché tutti avrebbero atteso.
In silenzio.
Immobili.

Il nodo della fascia si stava allentando.
Piegò leggermente i gomiti, ruotò di poco le spalle e abbassò il capo – ma non abbastanza da non poter gettare occhiate fugaci attorno a sé.
C’erano tre file di Cherubini dietro di lei, altre due davanti, una larga striscia di terreno vuoto; oltre il terreno vuoto, fasce nere. Tante. Schierate. E dietro, dietro le fasce nere... dietro le fasce nere c’era qualcosa, ma non riusciva ad afferrarne la presenza, come se le sfuggisse, come se vi fosse un velo – il Velo – a confonderne i contorni – riflesso distorto e increspato.
Sciolse del tutto il nodo, con dita lente e meticolose, con movimenti discreti in mezzo all’immobilità.
C’era Raphael, accanto a lei, con la fascia del suo stesso colore ma le ali già un po’ più chiare.
E più oltre, dove si raggruppavano i più maturi, Cassiel – da quando era alla settima classe?
Un cherubino con cui aveva studiato durante il primo periodo dopo la Venuta, un altro che si era trovata accanto sul Mediano – no, dimensione umana, perché Mediano lo usavano solo gli Sconsacrati, le aveva detto Ramiel. Sul Mediano, si ripeté, perché era più conciso e più comodo e perché le faceva scorrere un brivido di colpevole piacere lungo la schiena, scacciando almeno un po’ il vuoto.
C’era un’allieva con cui Anane aveva litigato furiosamente, una volta. Un’altra con cui lei aveva condiviso terza e quarta classe, con capelli che sembravano bianchi e occhi di un grigio che pareva liquido.
C’erano Cherubini con cui aveva parlato, altri solo intravisti lungo i viali dello Specchio, altri mai visti; ma le sembrava di conoscere tutti, perché erano tutti uguali, tutti con le spalle dritte, tutti con lo sguardo limpido e nessun vuoto dentro.
Tutti in silenzio.
Tutti immobili.
Tutti sani.

Annodò nuovamente la fascia, assicurandosi che trattenesse il tessuto della maglia.
Non si era mai accorta di quanto fossero tutti... pallidi. Con le labbra chiare, la pelle chiara, le unghie chiare. A volte avevano capelli bruni, occhi dalle sfumature buie; ma il corpo, il corpo era chiaro, chiarissimo, e non solo il cherubino bianco e grigio, ma persino quelli che aveva sempre reputato scuri. Ce n’era uno, davanti a lei, che appena creata doveva aver visto per una manciata di lezioni, e un’altra che una volta le aveva riportato un taccuino dimenticato sull’erba, e un’altra ancora che era la più scura di tutti, con la pelle di una sfumatura più calda degli altri, più... più ambrata, le sovvenne, ricordando le pietre che aveva visto nel Mediano – Mediano, Mediano, Mediano, brividi di piacere colpevole che scorrevano lungo la schiena. Quei cherubini potevano essere reputati scuri, tra tutti gli altri chiarissimi e limpidi, ma non avevano nulla del nero che tingeva la pelle di alcuni Umani.
Erano tutti pallidi, ma non del pallore un po’ grigiastro che aveva Michael, non di quello alabastrino di Eisheth – anche se Eisheth, a volte, sembrava un po’ più rosea. Quando il suo sangue rosso scorreva con più vigore, forse.
Ecco, dovevano essere pallidi per il sangue bianco, loro, anche quelli con una sfumatura più calda. Ma perché non l’aveva mai notato?

Oh, bambina, sono gli Umani a guardare con gli occhi. Gli Angeli guardano con l’essenza; insegnare a distinguere con lo sguardo farebbe nascere troppa attenzione per l’apparenza.
Non l’hai mai notato, bambina, perché non ti è mai stato insegnato.

Eppure lo notava, in quel momento.
E ricordava.
Una mano rosea. Segni rossi sul braccio.
Due palpebre chiuse, linee azzurre che s’intravedevano sotto la pelle diafana, un... un respiro, un respiro rapido e pesante e necessario.
Mani che scorrevano tra i capelli e incontravano ostacoli ruvidi, spiacevoli.
Labbra pallide di un pallore quasi livido, labbra come petali schiusi e scarlatti.
Immagini che si affacciavano rapide alla mente, alla memoria: un istante solo e poi di nuovo inghiottite dal nulla.
Ricordava.
Dove. Quando.
Ricordava e non sapeva.
La lucidità tornò a farsi strada, lentamente, sgretolando piano muri di imposizioni e convinzioni.

Si raddrizzò nuovamente, le mani incrociate sul ventre, i gomiti stretti.
In silenzio, come tutti.
Immobile, come tutti.
Sana, come tutti.
Sana.
...eppure voleva guardarsi attorno. Eppure trovava quell’attesa irritante – da quanto si protraeva? Le sembrava fosse passata un’intera esistenza, da quando li avevano fatti disporre in quello spiazzo immenso, con gli adulti silenziosi ad attenderli per schierarsi attorno a loro, ma solo su tre lati, perché farli sentire osservati andava bene, ma circondati no. Perché dovevano decidere da soli, di non fuggire da quell’attesa piena di incertezza.
Non aiutava, no, essere lontani da ciò che avevano sempre conosciuto: dagli alberi sulle pendici di un monte, dai viali lastricati di bianco, dagli edifici imponenti. Lontani dallo Specchio – tanto lontani che non avvertiva più le essenze immature che si muovevano tra i viali, tra le correnti d’aria.
Non avvertiva più Sachiel, né Ramiel, né... no, Anane non avrebbe potuto avvertirla comunque.
E chissà cosa ci facevano, lì, Cherubini di classi diverse – mai sotto la quinta, però, e mai del ciclo superiore. Cherubini dalle fasce di vari colori, Cherubini dalle ali che perdevano lentamente la tinta sanguigna – ma il sangue era bianco, non rosso. Vi aveva associato un aggettivo strano, un aggettivo sbagliato.
E chissà cosa ci facevano, lì, Guardiani e Guaritori, Esecutori spirituali e... e c’era qualcos’altro. C’era qualcos’altro, percepiva il Velo che lo celava, ma non riusciva a capire.
Forse era l’unica tanto folle da domandarsi cosa fosse occultato e perché, perché, perché. Avrebbe voluto urlarlo, quel perché, ora che si sentiva di nuovo lucida e in grado di pensare.
Ma rimase in silenzio.
Immobile.

Attese, perché non aveva altra scelta, ma pensò.
Si chiese.
Odiò chi la faceva annegare nell’incertezza.
E cosa, dove, perché.
Che ci faccio qui. Devo saperlo. Voglio saperlo.
E chi, dove, perché.

Non devi saperlo, bambina. Non ti è concesso.

Non devo.
Voglio.

Devi tacere, bambina. Con le labbra e con la mente.

Devo.
Non voglio.

Oh, bambina, sei così folle.
E sai chi è folle, bambina?

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Angeli e Demoni / Vai alla pagina dell'autore: TuttaColpaDelCielo