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Autore: Lady Antares Degona Lienan    17/05/2007    2 recensioni
Il ghigno che le deforma le labbra non è certo il suo solito sorriso gentile, ma bensì qualcosa di estremamente pericoloso che solo Irene ed Askart, in quanto suoi amici, sanno riconoscere come tale: la smorfia di chi si sente minacciato e aspetta solo un cenno per attaccare e salvarsi.
Se fosse un essere umano combatterebbe per preservarsi l’anima, ma in mancanza d’altro, c’è pur sempre la propria libertà da difendere.
[Imperia, dall'universo di Kysa.]
Genere: Romantico, Commedia, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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Prologo

Una piccolo premessa. A suo tempo, quando la pubblicai (cioè quasi un anno fa), dedicai questa fanfitcion a Kysa e al suo mondo.

Dedica che tutt’oggi vorrei rinnovare.

Mi rendo conto che il problema in questo caso potrebbe apparire stilistico. Voglio dire, non è il mio solito stile.

Ma beh, non mi sento di cambiare la storia. Non questa, no.

Ad Maiora!

LADL

 

 

***

 

 

 

Prologo
“Imperia”

She is jealousy and injury,
and
the hell wants her to lose
.
Catch the pieces of the girl she was,
make the puzzle and
find the answer to the old same question.
“Beauty is death?”
Lumic, She.

Mi chiamo Imperia Glassharm, e sono fatta di essenza.
C’è stato un tempo in cui parole per me senza senso come estate mesi e anni si susseguivano davanti ai miei occhi stanchi. Ora non più. Questa non è una confessione, così come non è un tentativo di discolpa agli occhi di coloro che lo leggeranno. Negli infiniti anni che ho passato rinchiusa dentro al mio corpo immortale c’è stato qualcosa che non mi ha mai abbandonato, ed è stata la mia stessa mente. Mia fidata compagna ed arma, nonostante ultimamente sia da molti sottovalutata.
Se poi vogliamo aprire una parentesi puramente sentimentale, ricordo chi non mi ha mai abbandonato, e il suo nome è regale esattamente come la sua persona. Caesar. Occhi fatti di ghiaccio che avevano conosciuto un tempo la tenerezza della neve, marmo sulla pelle fresca e cipria di diamante sulle labbra livide.
In molti si chiedono cosa ci sia dietro all’esistenza immortale di un demone, e nonostante io l’abbia vissuta per circa novecento anni, ancora non so rispondere a questa domanda. Chi siamo, perché siamo stati creati, e perché siamo stati designati come incapaci di morire?
È così che io chiamo gli immortali, incapaci di morire, anche se a volte credo che il coraggio più grande stia nell’affrontare quella vita piena di tedio e ritiro eremitico. Siamo fatti così, un potere grandioso e una mente fragile come cristallo incapace di contenere ciò che ci è stato donato. Forse è più giusto dire che siamo immortali e contemporaneamente incapaci di morire; la prima condizione ci è stata imposta alla nascita, senza che noi avessimo il potere e il volere per modificarla, allora, o anche solo rifiutarla cadendo nell’oblio, la seconda invece è qualcosa che noi demoni puri accettiamo, codardi al pari degli uomini che spesso ci troviamo a schernire.
Ho sempre pensato che annoiarsi più che una conseguenza fosse una vera e propria attività. Altrimenti sarebbe impossibile descrivere con quale zelo i miei compagni hanno sempre cercato di porre fine a tutti i divertimenti di questo piccolo mondo. C’è stato un tempo in cui mangiavo e un tempo ancora più remoto in cui ho provato l’ebbrezza di un sogno. Ho cercato di essere diversa e contemporaneamente simile a loro, e l’unico disastroso risultato che sono riuscita a conseguire è stato quello di osservare due diverse facce di una montagna, per poi capire che non appartenevo a nessuna e contemporaneamente ad entrambe.
Quando nacqui mio padre decise di chiamarmi Imperanda, dal latino “da ordinare”, un nome che non significava quasi niente e che forse voleva proprio marcare questo aspetto. Mia madre si mostrò decisamente contraria al nome, sebbene la radice da cui derivava, il verbo impero, non le dispiacesse affatto. Fu così che nacque Imperia, l’appellativo creato apposta per me, che traeva ispirazione dal latino ma che in realtà era un incrocio di tale lingua con la vivida fantasia della mia genitrice.
Omen nomen, e chi sa quanto questo dannatissimo proverbio aveva ragione.
Il nome che mi fu affidato è esattamente come me: anche io appartengo al mondo dei demoni, ma ho sicuramente qualcosa di più. Non posso chiamarla anima, certo, ma forse non mi spingo troppo in là quando la definisco intraprendenza. So di possedere qualcosa di raro anche per il mondo degli umani, quel qualcosa che faticosamente sospinge avanti la tecnologia e la cultura di un mondo di cui noi ci disinteressiamo, quel qualcosa che è la capacità e la possibilità di lanciare uno sguardo attraverso al presente fino a scrutare con occhi limpidi il futuro.
Vorrei tanto che il mio mondo, quello che ho osservato lentamente andare in rovina, trovasse la forza per sollevarsi da quel torpore che l’ha preso e specialmente trovasse il coraggio per guardare avanti.
Per una volta, in questo mio libro scritto in una giornata che potrei vezzosamente definire importante, sento la necessità impellente di riportare qui, nero su bianco, alcuni miei ricordi. E voglio dare significato a quella parola che mi è sempre parsa irrilevante, anche se spesso nominata come qualcosa di incredibilmente vitale. Il giorno. Addirittura, le ore.
Cosa sono, cosa siete…? Cosa siamo?
Così, se qualcuno ritrovasse questo mio diario, si vedrebbe precipitare in dodici piccoli ricordi, che io custodisco come preziosi e cari.
Essi sono stati vissuti in novecento anni di faticosa e trascinata esistenza.
Mi chiamo Imperia Glassharm, ultima della mia famiglia, ho occhi chiari e capelli albini, e ho deciso di morire, non tanto perché sia scontenta di quello che ho, quanto perché sono infinitamente stanca.
Chiunque tu sia, ricorda: a volte il potere non è abbastanza.


Capitolo 1
Nascita

There was a baby on flame,
his eyes burning on fire.
KnownWhO, Bible’s interview

Sono le tre di notte quando Imperia viene al mondo nell’oscurità squarciata da qualche candela della stanza della madre, Ethra Letizia Rogister degli Hiddik.
È il 20 agosto del 990, ma questo per i demoni di stirpe non ha importanza; che senso avrebbe festeggiare anno dopo anno l’avanzare di un’esistenza immortale? Anche gli anni di età sono più che altro una mera formalità, retaggio di un passato antico in cui a regnare erano i più anziani.
Come Imperia studierà in seguito, questa è l’unica vera evoluzione che i demoni di stirpe hanno operato nella loro dura e rigida casta sociale. Il potere è in mano a chi ne ha le possibilità, spazio ai giovani, volendolo definire con uno slogan babbano.
Ad ogni modo, la bimba ha occhi di un bianco lattiginoso e capelli di un biondo quasi accecante. Le viene imposto come secondo nome Cassandra che, come le diranno più tardi, ha origine babbane. Suo padre non si era certo dimostrato entusiasta ma Ethra era stata irremovibile: il nome è un omaggio ad un’antica parente, Irene, che aveva ceduto al richiamo del potere e che si era inoltrata in quel mondo precluso ai demoni per loro stessa scelta. Era diventata famosa come Irene di Bisanzio, la quasi sposa di Carlo Magno, accecatrice del suo unico figlio per non subire la vergogna, appunto, di un figlio a metà fra due mondi.
Dare ad Imperia il secondo nome di Irene sarebbe stato troppo evocativo, avevano concordato i genitori, e oltretutto di cattivo augurio. In ultima analisi Cassandra non si sarebbe dimostrato meno sfortunato, e l’anti eroina di Troia uccisa per il suo dono infausto avrebbe portato alla morte anche una demone ben più forte di lei.
Ma questo i due di certo non potevano saperlo; il padre aveva riso davanti a quella tragedia, il libro bagnato dalle lacrime per il gran ridere, e la madre leggendola aveva mantenuto un certo tedio nell’espressione. Ma la figlia di Ecuba e Priamo aveva avuto un dono magico, terribile ma magico, ed era quello che li aveva convinti.
Non avrebbe riso Allister dei Glassharm, sapendo della morte della primogenita.
È un momento fondamentale, e la camera bagnata di penombra gronda di demoni, parenti e amici, per quanto così si possa chiamare un legame fra questi esseri.
- Io ti chiamo al mondo come Imperia Cassandra Glassharm, discendente dalla famiglia materna degli Hiddik. -
Il nome fa discutere, lo avevano intuito, ma va bene così. Ha solo un paio di ore e la piccola già fa parlare di sé. È qualcosa che sempre racconta una storia, come Ethra fu deciso da un’indovina potente mischiando lettere su un tavolo di platino e Allister letto in un allineamento eccezionale di pianeti lontani.
Questo di certo Imperia non può ricordarselo, per quanto eccezionale la memoria di un demone non si spinge fino a così indietro nel tempo, impossibile che sia un ricordo di sua proprietà. È infatti una memoria di sua madre, presa direttamente dalla sua mente, ed è questa che apre la porta in fondo all’anticamera del libro della demone.
Non è un ricordo felice, bensì un vanto, e per quanto anomala sia Imperia, sa che la celebrazione è parte costante della sua vita.


Capitolo 2
Regalo

But it’s you, so delicate, so pure,
Enough to seem unreal.
It’s so hard to believe.
I was so wrong, but now I see the truth.
Elisa, So delicate so pure.

Sono le quattro del pomeriggio e Imperia ricorda di avere circa vent’anni. I tratti del suo volto perfettamente ovale sono ovviamente ancora fanciulleschi, potrebbe avere si e no sette anni, ma la mente racchiusa all’interno di quel corpo è capace di ragionamenti incredibili.
Ha già cominciato a chiedersi se questo è veramente il mondo che fa per lei, un mondo fatto di fredda e mera formalità, vissuto da persone che non sanno apprezzare ciò che li circonda, e che vivono solo per loro stesse.
- Madre, non vedo il mio regalo. - chiede cortese alla demone che sosta sotto il porticato in legno, lei la guarda, i suoi freddi occhi lattiginosi sono poco inclini alla voglia di conversazione, il corpo è rigido in una posa plastica.
- Quale regalo, Imperia? Non ricordo di averti promesso nulla. -
- Certo madre, il premio per aver risolto brillantemente il problema che mi avevate posto. - insiste blandamente con il capo poco rispettosamente alto ad osservare il volto imperscrutabile della donna, c’è come una coltre di gelo che le separa, la bimba ne è consapevole. In 20 anni, non l’ha mai vista diradarsi.
- Desideri
intensamente questo regalo, figlia mia? - Ethra la osserva, prova una certa preoccupazione per quella ragazzina troppo vivace per la sua razza, è come se i suoi occhi bianchi assumessero sfumature vive a volte, lei lo sa, non è normale.
- Certo madre, lo aspettavo come un riconoscimento delle mie indubbie capacità. - dice, la sfida in quegli occhi non si è mai spenta, vuole sapere, conoscere, ammirare, capire. Vuole vivere.
- Non è un bene essere così attaccati a qualcosa di materiale, devi ricordarlo, Imperia, spesso ci sono cose che ci traggono in inganno. – la madre la ammonisce col volto severo. La bimba la scruta intensamente per alcuni istanti, gli occhi gelidi della donna sostengono quella muta conversazione.
- E a mio padre, madre, non sei affezionata? –
Ethra non risponde, si limita a crollare il capo, la testa le duole in maniera straordinariamente intensa per la giornata che fino ad ora ha condotto.
- Madre… -
- Dimmi Imperia. –
- Madre, tu non ti annoi mai? –
La demone rimpiange di non aver saputo crescere quella creatura con maggior severità, ha idee sbagliate che teme non possano più essere corrette. Perché tutta questa curiosità verso gli altri, si chiede, che senso ha?
- No Imperia, noi demoni non ci annoiamo mai. –
- Eppure io credo di essere annoiata da questo pomeriggio, madre, siete certa di ciò che mi avete detto? –
Ancora una volta Ethra rimane senza parole, mai le era venuto il pensiero che qualcuno potesse mettere in dubbio la sua autorità così, se non suo marito. Eppure pazienta ancora, troppo abituata ad una vita passiva per poter trovare la voglia di imporsi.
Potrebbe chiederne un po’ ad Imperia, pensa prima di serrare il volto in una smorfia inorridita al solo pensiero.
- Madre? –
- No Imperia, noi non ci annoiamo mai nella nostra vita immortale, semplicemente, riflettiamo. –
La ragazzina ne deduce che dovrà passare molti e molti anni in questa condizione, non vuole, o semplicemente vuole troppo qualcosa a cui non può aspirare.
- E il regalo? – a questo punto la donna è esausta, non può che fare un cenno del capo e indicare con la mano bianca, troppo bianca, il retro del giardino.
- Ti aspetta. –
Imperia annuisce e scuote la testa in maniera buffa. Un demone non dovrebbe mai essere buffo, si dice Ethra, anche se il gesto di sua figlia risulta essere comunque di una finezza estrema e sconosciuta agli uomini.
Per un istante le è parso che fosse arrossita, e spera intensamente di aver visto sbagliato.
- Grazie Madre! – esclama lei, forse con troppa foga per essere normale. Ciononostante la donna fa una cosa incredibile, a cui Imperia non assisterà mai più in tutta la sua vita.
China il capo e, seppur leggermente, sorride.
Nei suoi novecento anni di vita, non avrebbe saputo trovar risposta a quel gesto, forse non ci provò neppure, limitandosi a conservare quel ricordo un po’ anomalo ma prezioso.
Ethra la osserva andare via, sa che Imperia sarà diversa da tutti i demoni che conosce, e questo l’ha resa orgogliosa, tanto da sbilanciarsi e mostrarle una parte di sé sconosciuta ai molti.
Ma dal quel pomeriggio, crebbe in lei la coscienza di aver messo al mondo una figlia sbagliata.
Il dono di sua madre è un coniglietto bianco come la neve, lo chiama Spuma perché tanto le ricorda le onde pallide del mare che una volta aveva visto ad una festa dai Cameron.


Capitolo 3
Spuma

And now that her toy is broken, what will she do?
But wait, listen to me, she’s a toy, too.
And where’s the silent player?
He’s gone, gone away. But he’s too far…
Mim_clash, Our Silent Toyland

Sono le undici della mattina e la testa di Spuma ricade senza vita sul copriletto della bimba, sei anni sono passati dal pomeriggio in cui sua madre gliel’aveva regalato con un piccolo sorriso. Il coniglio ha ormai passato il suo tempo ed Imperia, abituata a vivere in un mondo senza lutti, assiste all’unica morte della sua vita.
Questo perché del suo suicidio sarà protagonista e non semplice spettatrice.
Non ha mai pensato all’eventualità che un tempo i suoi giochi sarebbero stati privi di Spuma, del suo musetto tenero e di quei baffi perennemente in movimento, semplicemente conosceva la morte solo a parole e mai come una presenza allacciata al suo fianco.
C’è sangue sul lenzuolo, lo fa sparire con un gesto, vorrebbe che fosse così semplice anche per Spuma, la verità è che sta per mettersi a piangere e, ancora peggio, sa che non può permetterselo.
È stata brava sua madre con quel gioco subdolo che le aveva lentamente tessuto intorno, sa che cosa vuol dire sfidare quella donna e intuisce che non vuole più riprovare quello che sta passando ora, segno che la trappola si è richiusa sulla sua testa senza possibilità di uscita.
Maledizione ad Ethra e alla sua anima nera.
Il messaggio è chiaro come non era stato invece quel pomeriggio di anni prima: affezionarsi a qualcosa è un rischio che un demone può permettersi poche volte in tutta la sua esistenza, venti anni sono troppo pochi per un simile rischio, devi impararlo.
Imparare, certo, Imperia ha imparato, eppure riconosce come atipica quella rabbia che le monta dentro, che fa esplodere finestre ed alambicchi, che crea un vuoto nella sua stanza e che, soprattutto, la fa sentire stanca.
Poi inquadra il muso di Spuma e tutto sparisce in un lampo, ora c’è solo tanta tenerezza a riempire un cuore che non batte.
- Spuma. – sussurra lievemente al suo indirizzo, magari sta solo dormendo e al suo richiamo balzerà sul letto scuotendo il corpicino esile. – Spuma, vieni qui Spuma, vieni da me.-
Ma il corpo del coniglio è immobile per sempre, lei lo sa e non riesce a comprenderlo, d’improvviso la sua esistenza le pare assurdamente ridicola se paragonata all’intensità con cui sta vivendo quegli istanti.
Vieni.
Che senso ha avere poteri così grandi se poi non ci sono occasioni in cui poterli sfruttare, in cui poter fare del bene, perché possederli, allora?
Da.
Imperia sa di non poter porre rimedio alla morte, nemmeno il più potente dei demoni oserebbe tanto, sfidare il destino è qualcosa di troppo rischioso perché questi esseri possano esservi interessati. Eppure lei è tentata dal provare.
Me.
Lei. È Imperia stessa il problema, se ne rende conto. Non può rimanere troppo a lungo con le sue coetanee perché immediatamente tediata da quelle conversazioni senza senso, atte solo a passare del tempo che si rivela comunque essere infinito.
Essere da sola vuol dire porre un freno alle sue illimitate capacità inventive, che d’altra parte ella non può manifestare apertamente. Sa che se fosse nata fra i Babbani tutto sarebbe diverso, lei avrebbe potuto piangere, ridere e pensare. Liberamente.
È chiusa fra quattro mura che la stringono impedendole di respirare.
È appena nata e comincia a pregare di essere una persona normale.
Vuole solo essere se stessa, solo con Spuma poteva, così si lascia avvolgere dal torpore che l’assale e si lascia cadere sulla poltrona di damasco che l’accoglie gentilmente.
E ricorda ogni istante passato col suo piccolo coniglio, quando sentiva le guance tiepide e la voglia di sorridere scorrerle sotto la pelle. Sente il suo cuore battere e non è la prima volta.
Tutto grazie a Spuma.
Quando si risveglia, il corpo del coniglio è scomparso, al suo posto un piccolo cagnolino infiocchettato dagli occhi neri e teneri.
Imperia scuote il capo, farà il gioco di sua madre ma non importa: con uno schiocco di dita, il cagnolino viene mandato nel mondo Babbano. Imperia può fare solo una cosa, mettere la sua protezione sull’animale che gli consentirà una vita dura ma sana. La demone non vuole soffrire, ma neanche far penare altri per la sua mancanza di coraggio.
È la prima regola della sua vita, e la manterrà fino a che potrà vivere, si dice.
È come se già sapesse che sarà destinata, prima o poi, a terminare la sua esistenza.


Capitolo 4
Askart

There's no sense in going on
and your pity now
would be more than I could bear
So I'm gonna be strong
I'll pretend I don't care
Cyndi Lauper, I’m Gonna Be Strong.


Sono le cinque di mattina e Imperia si chiude la porta della stanza alle spalle. Sono passati quasi ottant’anni da quando sua madre l’ha messa al mondo e lei non vede ancora uno spiraglio di luce.
I “grandi” la trattano alla stregua di una bambina capricciosa che vuole sapere troppo del mondo e la compagnia che le viene affiancata non è sicuramente delle migliori.
Secondo la conta degli anni che i Babbani hanno è il 1068, forse settembre, quasi ottobre.
È un giorno speciale per Imperia, ragion per cui i suoi genitori e conoscenti non devono venire a conoscenza di nulla, così sta molto attenta a non fare rumore, cosa che infine le viene particolarmente bene data la sua natura, e si avventura per le scale dell’enorme maniero che è solita chiamare casa.
Le tende sono perennemente tirate, e la poca luce che ne filtra assume un colore sanguigno, leggermente inquietante. Mille armature sono disposte ai lati dello scalone, alcune si inchinano rispettosamente al suo passaggio, altre sonnecchiano, altre ancora si svegliano con un sussulto e si ricompongono.
Con un gesto imperioso della mano, Imperia fa loro segno di tacere, è un piccolo segreto che rimarrà fra di loro, dicono i suoi occhi bianchi.
Ai piedi dello scalone la demone scorge una figura alta e magra, ma non per questo debole, può sentire la sua aura e anche se sa che sarebbe comunque in grado di batterlo, preferisce tacere e aspettare.
Chi è?
Ma specialmente… cosa fa lì?
A prima vista non lo riconosce, ma l’odore parla chiaro: quello davanti a lei è un vampiro di alta casta, sangue purissimo creato coi migliori incroci fra casate che il mondo del buio ha saputo combinare. Un Leoninus, a giudicare dal tatuaggio, giovane come lei, per i tratti del viso.
Imperia non ha mai visto un vampiro dal vivo, ma sa di essergli superiore e non tarda a farglielo capire, i libri che ha studiato non mentono, in una lotta tra un demone e un succhia sangue, sono i primi ad avere sempre la meglio.
Per questo motivo finisce di scendere le scale con una certa studiata calma che all’altro non sfugge, lo può leggere nei suoi occhi ambrati diffidenti, c’è tensione e irritazione ma anche tanto, molto rispetto.
I gesti di lei sono legge, il suo viso una maschera di perfezione, nessuno vedendola dubiterebbe del suo stato da bambina e del suo sensibile disagio interno che non ha mai smesso di crescere.
Il vampiro l’attende e Imperia non può far a meno di notare la bellezza del volto che esprime una vera e propria sensazione, non c’è tentativo da parte dell’altro di rimanere troppo serio o composto, lei lo ammira, nel mondo dei demoni tutto questo non è mai stato permesso.
Gli occhi gialli la scrutano silenziosamente e in loro sta una muta domanda.
- Messere, – lo saluta – posso esservi utile in qualche maniera? – ha già superato il limite di parole concesse in una settimana probabilmente, spera che nessuno oltre le armature la possano sentire.
- No Milady, non sono qui in cerca di favori o richieste, semplicemente davo un’occhiata. – è la risposta tranquilla di lui, forse un po’ troppo tranquilla perché Imperia ne sia favorevolmente colpita; chi è il vampiro che si permette di prenderla in giro in questa maniera?, forse gli sta concedendo un po’ troppo vantaggio.
- Vogliate perdonarmi se vi faccio notare che la vostra visita non è né annunciata e tanto meno gradita; ditemi il vostro nome e tornate alla vostra vita, che spero comprenderete, non è certamente la mia. –
Lui sorride apertamente, come Imperia non ha mai visto fare a nessun altro tranne la sua immagine nello specchio in camera. Per un istante, vorrebbe essere un vampiro e poter ridere ogni volta che ne ha voglia.
- Mi chiamo Askart Leoninus, ragazzina, e vedi di portarmi rispetto. –
Askart cambia timbro, è veloce e repentino e la demone certo non se l’aspettava. Ha fatto la voce grossa e ora ne pagherà le conseguenze, si dice.
- Porta rispetto, vampiro, non sei certo nella condizione di dettar regole. –
- A chi porterei rispetto, ad una umile servetta? –
Imperia non capisce, dove è finita tutta quella ammirazione di prima, quella che aveva letto nei suoi occhi gialli? Forse… forse la luce troppo fioca gli impedisce di vedere i suoi occhi bianchi, di capire chi è, ma è strano, pensa, molto strano, il fiuto dovrebbe bastare ad individuare la sua essenza.
Dipende tutto dal fatto che è giovane, si dice lei, probabilmente è troppo impegnato a discutere per ragionare con calma.
D’altra parte, ha una buona, ottima occasione per divertirsi e non vuole certo lasciarsela scappare. Inclina la testa di lato in un leggero inchino e poi accende nella sua mano un piccolo fuoco, che lentamente si porta al viso.
- Ebbene Askart dei Leoninus, non credere di aver vinto con questo tuo sfoggio di vanità. – può vederlo chiaramente, il sorriso del vampiro si è leggermente incrinato, ora lascia spazio ad una smorfia semi comica che lei intende come smarrimento. – Se sei convinto di aver ragione, spiegami ancora a chi ti stai rivolgendo: la servetta si chiama Imperia Cassandra Glassharm, e ti ordina di inchinarti. Fallo! – aggiunge, visto che Askart è talmente radicato al pavimento da sembrare una statua di marmo con gli occhi gialli buffamente contratti.
- Io, non… io – balbetta, completamente incapace di altro. È il trionfo della demone che gongola con un sorrisino soddisfatto a piegarle le labbra.
Tuttavia non resiste poi molto, è tempo di secondi e lei scoppia sinceramente a ridere, divertita dalla situazione in cui si è cacciata.
Dal canto suo, Askart è ancora più incredulo rispetto a prima, vedere un demone ridere è quanto di più raro si possa vedere sulla terra, stando a quello che gli è stato raccontato, eppure quella fanciulla davanti a lui è chiaramente una appartenente a quella razza e si sta… letteralmente sbellicando dalle risate.
Sarebbe cambiato Askart Leoninus, passando gli anni l’avrebbero reso più acido e diffidente, ma al tempo ne aveva solo cinquanta , e una gran voglia di ridere.
Fu così che, inaspettatamente, Imperia trovò il suo primo vero compagno di giochi, che non dimenticò mai.
Fu semplice, tra una risata e l’altra, scoprire che il giovane era giunto in quella casa spinto dalla sua infinita quanto dannosa curiosità
Questo momento è il primo passo per accettare che, per quanto suoni strano, lei non è più demone di quel vampiro che le sta accanto. È il primo passo verso la morte ma anche verso la sua felicità, per quanto temporanea possa essere.


Capitolo 5
“Padre”

I want to tear out half the pages,
I want to create a different colour,
I want to roll your thoughts and smoke ‘em,
I want to crash this bitter softness
But Mr. want is dead
Elisa, Mr. Want.

Sono le sei di pomeriggio e Imperia sta cercando di far passare la solita noiosa giornata. È trascorso quasi un anno dal giorno in cui ha incontrato Askart, e non è più riuscita a rivederlo, come prevedibile. La vigilanza dei suoi genitori è aumentata in maniera direttamente proporzionale alla sua stravaganza, è normale che lei non possa recarsi in nessun luogo senza sentire la presenza quasi inquietante dei genitori alle sue spalle.
Ethra e Allister stanno facendo crescere solo un lato della sua personalità, potando personalmente i rami che non sono consoni alla demone. Via la libertà di parola, soppressa l’inconcepibile possibilità di sorridere e quanto altro.
Imperia si sente triste, inutile negarlo, invidia ogni giorno di più il giovane vampiro di cui ha fatto conoscenza, magari non si ricorda più nemmeno di lei.
Con estremo tedio, per una volta somiglia davvero a quello che sua madre vorrebbe che fosse, legge la lettera che uno dei suoi numerosi pretendenti le ha scritto.
Infatti, con grande sorpresa di sua madre che non sa nemmeno spiegarsi tale stranezza, Imperia è favorevolmente vista da molte famiglie di demoni che la considerano un buon partito.
Nonostante tutto, la ragazza ottiene un notevole successo.
Suo padre conversa telepaticamente con chissà quale amico e sua madre guarda distrattamente l’aria davanti a sé, magari sta già pianificando con mesi di anticipo quale stella far esplodere a capodanno, ne sarebbe capace, riflette.
Lei non ha ancora ben deciso, di solito la scelta ricade inevitabilmente su un astro piccolo come piccolo è il posto che le spetta nella società, nemmeno ci tiene a suscitare l’invidia di tutti con un bel botto, anche se a dirla tutta sua madre ne sarebbe contenta.
Rialza gli occhi dalla lettera con un piccolissimo sorriso al pensiero, in ultima analisi veramente strano, di Ethra Glassharm che spalanca gli occhi davanti alla figlia che per una volta si comporta come una demone modello.
Poi si riscuote e scrolla la testa, è evidente che tutto ciò non succederà mai, quindi tanto meglio mettersi l’anima (quale anima?, pensa) in pace e tornare alla lettera di un certo banalissimo Ocean.
Suo padre adesso la osserva, gli occhi stranamente socchiusi. – Imperia, devo dedurre dal tuo sorriso che la lettera è di un certo gradimento? – la cosa sa dell’incredibile e lui è il primo fra tutti a stupirsene.
- No, cioè, si, magari. – la demone aspetta un attimo per poi corrucciare il viso in una smorfia che è ben lontana dall’essere soddisfatta. – Forse…? – abbozza sperando che il discorso si chiuda lì.
La donna neanche li guarda, non si capisce bene se per una certa rassegnazione che ormai si è impadronita di lei oppure per il cocente desiderio di non tentare di strozzarla una volta per tutte come a suo parere Imperia meriterebbe. Rimane quindi immobile, voltata di tre quarti rispetto a loro, persa nei suoi malefici e distruttivi pensieri.
- Mi sembri triste ultimamente, Imperia. –
- Credo di essere triste da quando sono nata, padre. – poi sobbalza penosamente e aggiunge – Non per colpa vostra, certo. –
- A volte mi sorprendo a chiedermi se tutto quello che facciamo sia giusto per… una… una come te. – Allister sospira, sembra combattuto e non è la prima volta.
- Una come me, padre?
- Inutile fingere che tu sia come noi, Imperia
. Il tuo modo di comportarti, di essere, tutto indica che sei diversa, non spiacevolmente diversa, ecco… - lui cerca di arrotondare il tiro, inutilmente – In ogni caso, educarti come una demone normale non avrebbe senso. –
Imperia apre e chiude la bocca a scatti alterni, troppo impietrita da quelle parole anche solo per abbozzare una risposta che sappia di rabbia o delusione.
Che.
Lo aveva sempre saputo, certo, non ci voleva suo padre perché lei capisse la sua vera natura, eppure quelle parole amare sanno tanto di rifiuto e delusione per non aver avuto un’erede in grado di sostenere il peso che le spetta.
Una cosa che dovrebbe essere accolta come una liberazione, improvvisamente le pare come una piccola stanzina claustrofobica.
Sei.
Vorrebbe urlare ma quel poco di demone che è in lei glielo vieta, la pietà nello sguardo di suo padre la farebbe esplodere ancora di più. Nemmeno si accorge di essere balzata in piedi, di scatto, tanta è la furia che le acceca la mente.
Diversa.
Lo è davvero, diversa, ma da come lo pronuncia suo padre sembra che solo stare al mondo sia un enorme quanto incorreggibile errore. Non le è mai importato niente, non vorrebbe essere diversa da quello che è, eppure per una volta vorrebbe solo essere felice.
- Forse, padre, - inizia lentamente – è ora di chiedersi se voi non mi avete fatto crescere più diversa di quanto io sia. – la frase è quasi masticata, tanta è la rabbia, eppure i fini lineamenti sono rilassati come sempre.
- Imperia. – la riprende Ethra, sconvolta. – Chiedi immediatamente perdono a tuo padre. –
Lei ride e improvvisamente tutto le sembra più leggero. – Perdono, madre, che bella parola detta da una come te. – sibila – Siete voi a dovermi chiedere perdono per tutto quello che mi avete costretto a fare contro la mia stessa volontà, ho quasi cento anni! Non ho nemmeno il permesso di uscire da sola. –
La donna fa per tirarle un ceffone quando la voce di Allister, pigra, interrompe la scena. – Hai il permesso di uscire, se lo desideri. –
- Ma Allister… -
- No Ethra, lascia. – poi si rivolge alla demone, con studiata calma. – Forse, - dice – ho fatto degli errori con te. Sarai più libera da oggi, ti prego solo di non essere fonte di imbarazzo per te e tutta la tua famiglia. –
- Bene, - Imperia attende solo un attimo, poi pronuncia l’ultima sibilata parola – padre. –
Prende la porta del salotto e la sbatte con ferocia dietro di sé, quasi che quelle parole siano una vera e propria condanna. Sarà fonte di imbarazzo per tutta la sua famiglia, certo, ma non rinuncerà a fare ciò che desidera.
Per questo, nel buio della sua stanza a Glass Manor, la sua mente torna a quel progetto interrotto da Askart e dalla chiacchierata che ne era seguita.
Dopo lunghi ripensamenti conclude che, per buona misura, i controlli di sua madre aumenteranno ma si faranno più accorti e meno visibili.
Se deve scegliere una giornata per scendere fra i Babbani, meglio non aspettare.


Capitolo 6
“La Corte”

Pain is Nowhere and Everywhere.
Remember this and go where you want
.
Anonimo, Vecchio proverbio.

Sono le otto di sera e la corte Leonina non è certo come Imperia se l’era aspettata, cioè silenziosa e poco viva.
Quando invece si materializza nel centro del Salone Principale, ci sono almeno cento paia di occhi che l’accolgono scrutandola in una maniera che la demone definirebbe alquanto bizzarra.
Ancora una volta si chiede per quale motivo sia questa la prima destinazione del suo viaggio; poi due occhi gialli le riempiono la mente e una risata dolce risuona nelle sue orecchie, come se intorno a lei ci fosse solo il silenzio.
Ma forse avrebbe dovuto aspettarsi le perplessità altrui.
Semplicemente, i vampiri che la scorgono ne rimangono abbagliati; anche se Imperia non lo sa, sono più di 500 anni che un demone non si abbassa a scendere nei meandri della Corte, e, in fondo, come dar loro torto, non c’è nulla in quel luogo che possa veramente interessare elementi della sua stirpe. I gagia sono pur sempre divertenti, certo, ma sono deboli e padroneggiano magie che Imperia conosce da quando aveva 30 anni.
Pertanto, quando la demone interrompe il silenzio che è sceso all’interno del Salone con un blandissimo – Buonasera. -, per di più condito da un breve sorriso, immediatamente intorno a lei scoppia quello che è eufemistico definire un vero e proprio putiferio.
Imperia Cassandra dei Glassharm viene osservata, analizzata e perfino annusata, cosa che un altro qualunque demone, seppur di casta inferiore, troverebbe mortalmente offensiva, ma non si scompone, attendendo paziente che tutti quegli occhi gialli smettano di vorticarle intorno e decidano se può rimanere alla Corte.
Ancora non lo sa, ma è ovvio che la risposta sarà si.
Quando finalmente il Capostipite dei Leoninus scende dal suo trono in porfido, gli occhi bianchi di Imperia sono leggermente lucidi dall’apprensione, non può permettersi di sbagliare, lo sa e questa consapevolezza pesa su di lei come un macigno.
- Sei una… una demone? – le chiede rispettosamente con il capo leggermente chino per inquadrarla meglio.
- Si, ecco… mi spiace aver causato tutto questo, putiferio, insomma… -
Altri mormorii; una demone che si scusa forse è ancora più raro di una demone che sorride. Lei è ancora parecchio confusa, possibile che appartenere alla sua razza sia un così chiaro indice di superiorità?
Vorrebbe spiegare che lei è diversa, più… umana, ma intuisce che tutti i vampiri che le stanno attorno hanno già compreso che non è un personaggio qualunque.
- Ci stavamo solamente chiedendo cosa mai può spingere una tale potenza nella nostra umile Corte. – c’è una certa umiltà nelle parole del decano ma la ragazza sa benissimo che, sotto sotto, è orgoglioso di quello che i suoi antenati hanno eretto e abbellito. In millenni, la Corte è sempre stata ritrovo di importanti fonti magiche e oscure, nonché luogo dalle riconosciute bellezze artistiche.
- Cercavo una persona, decano… -
- Anthemas Leoninus, per servirla, Milady, anche se non conosco il suo nome. –
- Imperia Cassandra Glassharm, Anthemas. – è la volta del Leoninus di spalancare gli occhi con una certa improvvisa paura, conosce Allister Glassharm per certi racconti che volano nella Corte, di certo non è un personaggio da trattare senza precauzioni. Spera solo che la demone non sia fuggita da Glass Manor o che, peggio ancora, il padre si convinca che sono stati loro a rapirla.
- Una cucciola di demone, dunque. Mi giunse notizia della vostra nascita, 90 anni or sono. Avete detto che cercavate qualcuno, Milady, posso in qualche modo rintracciarlo per voi? –
- Credo di si - risponde – dovrebbe essere un vostro parente, a giudicare dal cognome… si chiama Askart, Askart Leoninus. –
Il Capostipite spalanca poco signorilmente la bocca e, una volta ritrovata la parola, riesce a stento ad articolare una frase per intero. – Milady, vi chiedo perdono a nome di mio figlio, se ha commesso uno sgarbo. È giovane e non sa cosa dice, a volte. – con somma meraviglia di Imperia si inchina davanti a lei, che improvvisamente diventa scarlatta. – No, no, decano Anthemas! –
Lui alza il capo un po’ perplesso di vederla così in difficoltà. La demone scuote la testa e si lascia andare ad un risolino vagamente comico, non sa bene come spiegare l’equivoco, ma tanto vale provarci.
È così che vuole essere, lontana da sua madre e da suo padre, libera di esprimere le proprie sensazioni e forse, sotto sotto, anche un po’ riverita. – Vede, decano, lo incontrai un anno fa nella mia tenuta e ora avrei intenzione di fargli una… una proposta, ecco. –
- Oh. – Anthemas è troppo stupito per fare qualsiasi cosa – In tal caso lo farò chiamare. –
Passano due minuti di totale quanto imbarazzante silenzio, Imperia si sente esposta alle occhiate ardite degli altri vampiri e mal sostiene gli sguardi ammirati e stupiti che essi le rivolgono. Pertanto si limita a socchiudere gli occhi bianchi e a lasciar cadere il suo sguardo verso terra, in modo tale che non senta ancora la sgradevole sensazione che ha provato prima.
Quando sente risuonare dei passi dal corridoio di fronte a lei, rialza lo sguardo colmo di gratitudine e vede, divertita, il giovane vampiro avanzare verso di lei con gli occhi gialli leggermente sgranati.
- Imperia, Imperia Glassharm. – mormora Askart. – Cosa ti porta da queste parti? – chiede con un piccolo ghigno.
- Askart! –
- Oh, non è niente decano. Io e lui ci intendiamo spesso così. – risponde Imperia con lo stesso tono, il mento alto a sfidare la figura davanti a lei.
- Ah. – geme l’anziano, talmente basito da essere praticamente ancorato al suolo.
- Allora, fredda demone, cosa mai ti porta ad avere interesse per un vampiro? – la voce di Askart spazza via il silenzio che si è creato, è bello vedere un volto conosciuto e, per certi versi, è anche bello poter lasciar cadere il linguaggio su registri più normali che non siano il Voi o il Lei. – Cercate delle esperienze nuove lontana dal maniero? –
Ci siamo, pensa Imperia, sta tutto a lei e a come saprà giocarsi le sue benedette carte, pertanto assume un’espressione estremamente tediata e minimizza con una mano. – Potrei dire così, certo. Ho pensato subito a te e visto che è sera… - butta lì casualmente - …che ne dici di fare un giro fra i Babbani? –
Dalla faccia che tutta la Corte ha assunto, la demone deduce che la sua non è proposta da tutti i giorni, forse avrebbe dovuto scegliere un luogo meno affollato per parlare, la stanno osservando come se fosse veramente pazza e non solo un po’ eccentrica.
- No! – esclama Askart dopo un paio di secondi. – Decisamente no! –
- Oh, ti prego, dai… che ti costa? – cerca di intenerirlo lei assumendo un broncio di tale squisita fattezza che è davvero difficile resisterle. Controllo Askart, controllo, pensa il vampiro, quel viso di porcellana lo sta lentamente facendo cedere.
- No. – ripete prima che sia troppo tardi. – Dovessi girare per i prossimi cent’anni alla Corte vestito solo di rosso. –


Capitolo 7
Babbani

Here is the main thing that I want to say:
I work 24 hours a day,
I fix broken hearts
I’m your handy man.
James Taylor, Handy man.

Sono le dieci di sera e Imperia non sa assolutamente se scoppiare a ridere oppure piangere.
- Forse…, - esordisce la demone dopo alcuni minuti di silenzio – avresti dovuto puntare su un colore un po’ più scuro. Il nero ti sarebbe stato bene. –
La luna non è particolarmente visibile e i due stanno camminando nel mezzo della strada principale di Londra, numerosi carri passano al loro fianco sollevando polvere e sporcizia e la gente, vestita a festa, si accalca davanti ad un palco. Askart Leoninus è vestito tutto di rosso, un bel rubino deciso che è assolutamente impossibile non notare e, cosa non meno appariscente, la sua pelle bianca risalta come fosse quella di un cadavere o di una persona senz’anima.
Non che si vada molto lontano dalla realtà, poi, pensa Imperia.
Al solo sentirla parlare la smorfia sul viso del principe si contorce in qualcosa di veramente mostruoso: è arrabbiato con lei, furioso con suo padre e prova al momento un odio feroce verso i Babbani, giusto per essere imparziali e distribuire maledizioni un po’ su tutti.
- Al Diavolo. – sibila contraendo la mano destra.
- Oh, una volta l’ho
incontrato. – Imperia si mette una mano sotto il mento e alza gli occhi verso il cielo, come se stesse cercando di ricordare qualcosa di estremamente lontano. - Mi ero persa e lui mi ha riportato a casa. È stato davvero gentile, anche se credo che abbia cercato di prendermi l’anima mentre non guardavo. –
- Ma… - alita il vampiro – tu non hai un’anima. –
Lei ride di gusto, i fini lineamenti si contraggono un po’ e gli occhi sembrano davvero sorridere. Lo guarda e in quello sguardo c’è qualcosa di vero, di vivo. – Per questo si è accorto che ero una demone ed è subito scappato. – ride ancora.
Il suo torace sussulta violentemente a causa dei singhiozzi, Askart non ha mai visto nemmeno una vampira comportarsi così liberamente davanti a lui.
Su consiglio del padre i due si sono rivolti contro un incantesimo che fa assomigliare ai Babbani, un incanto utile ma dimenticato, chi fra vampiri e demoni avrebbe mai avuto interesse per un mondo così lontano?
Ciononostante una natura demoniaca è ben altra cosa da nascondere rispetto ad un essenza vampirica, pertanto Imperia ha ancora un portamento e un aspetto decisamente superiore alla media umana.
Askart la guarda e non può fare a meno di sentirsi abbagliato da tale bellezza: gli occhi sono di un chiarissimo azzurro che somiglia molto al ghiaccio, e i capelli, per contrasto, sono neri e lunghi ben oltre la vita. Sono vaporosi e ondeggiano ad ogni passo dei finissimi movimenti di lei. È bassa, più bassa di lui, ma non si lascia ingannare, conosce poteri ed incanti che lui non sarebbe mai in grado di possedere, un suo gesto e finirebbe la sua esistenza, immediatamente.
In ultima analisi, Imperia non può certo ricorrere ai suoi poteri nel bel mezzo di una cittadina umana, i suoi genitori verrebbero subito a conoscenza del fatto e, in fondo, non odia i Babbani così tanto da ucciderli per un motivo talmente sciocco.
Askart ha già i capelli scuri, eredità della madre che la demone non ha fatto in tempo a conoscere, per cui è bastato scurire i suoi occhi fino a farli diventare di un morbido color castano. Tuttavia è pur sempre un vampiro e anche lui, come la compagna, salta subito agli occhi.
- Cosa ci faccio, qui? –, si chiede con un pizzico di amarezza, maledizione a suo padre e alle sue manie di protagonismo, l’ha praticamente costretto a seguire quella ragazzina perché sa, come tutti d’altronde, che il favore di un demone non è cosa da poco.
Specialmente se la demone in questione è erede della fortuna dei Glassharm e degli Hiddik.
- Per farmi compagnia mentre giro in questo mondo sconosciuto. –
- Sarebbe dovuto rimanere tale. –
- Oh, sta zitto! – lo riprende Imperia, mentre lancia sguardi meravigliati tutt’attorno: è così che ha sempre immaginato il mondo dei Babbani, pieno di luci, colori e specialmente vita.
Non ha mai visto così tante persone parlare contemporaneamente e, in special modo, con un tono di voce talmente alto da far rabbrividire qualunque regola di buon gusto, ma non le importa, la cosa fondamentale è essere in mezzo agli umani e sentirsi finalmente libera di essere se stessa.
Prende Askart per mano e lo trascina verso la folla nella piazza, vuole capire di cosa stanno parlando, magari qualcosa che la aiuti a capire meglio le usanze di quel mondo; è talmente ebbra di felicità che decide di abbandonare casa sua per continuare a vivere laggiù, in mezzo alla gente.
Sorride e non ha paura di farlo, scorge un viso imbambolato che la fissa insistentemente, per fortuna c’è Askart che, più attento di lei, vigila costantemente sulla sua figura.
Il vampiro è giovane ma non certamente sciocco, se Imperia avrà dei problemi, la colpa andrà sicuramente a lui.
- Askart, qui è bellissimo! – urla lei tutta rossa in volto e bella da provocare uno svenimento. – Non è meraviglioso? – con un gesto della mano inquadra tutta la gente intorno a lei.
Lui crolla il capo con un’espressione sconvolta: il puzzo di sudore e malattia è talmente forte da provocargli un fastidioso cerchio alla testa, tutti urlano come se stessero per morire e, come se non bastasse, una ragazza gli si è incollata al fianco.
Poi un urlo zittisce improvvisamente la piazza e una donna crolla al suolo, scossa da tremiti. Askart prende la mano di Imperia e la tira forte verso di sé, la demone urta contro il suo petto e rimane schiacciata contro di lui, tutti sensi all’erta.
- Sta morendo! – grida una voce.
- Una cura, presto! – strepita un’altra.
Imperia solleva cautamente il volto verso il vampiro. – Askart, io so curarla. Concedimi di salvarle la vita. –
- Non se ne parla nemmeno. – sibila lui in risposta. –Vuoi che scoprano tutti i tuoi poteri? Sarebbe un gesto troppo avventato. –
- Ma sta morendo, Askart! – lo supplica lei, gli occhi stranamente lucidi. – Lasciami provare, almeno, starò attenta. –
- Non è affar nostro, Imperia. – conclude voltandosi verso la periferia del paese. Cammina trascinandosi dietro il peso recalcitrante della demone che, afflitta, continua a scrutare dietro le sue spalle.
- Scusami. – la sente mormorare. – Scusami Askart. -
Il vampiro avverte una fastidiosa luce che si avvicina e poi più niente. Quando si riprende, un minuto più tardi, il rumore della piazza è solo un ricordo. Ora sono tutti chini verso le figure della donna a terra e di Imperia, che la sostiene curandola: il suo gesto è semplice quanto intuitivo, le passa una mano sul petto, come se fosse un massaggio, riuscendo a mascherare i gesti necessari per l’incantesimo curativo.
Askart lancia un paio di imprecazioni e poi si avvicina alla folla a passo di marcia. Si ferma solo a pochi metri da lei, quella demone che in breve tempo gli ha scombinato la giornata, con quel suo viso perfetto e gli occhi bianchi attraversati da lampi di vita.
Imperia sorride e lui capisce quel sorriso: solo qui lei è libera di parlare e sfogarsi come la sua bizzarra natura ha predisposto per lei. Altrove, nel suo maniero, è solo e sempre infelice.
Sono passati pochi secondi e già la donna si sente sensibilmente meglio, il volto ha più colore e si permette persino un sorriso.
Che in pochi secondi si trasforma in un urlo. Un soffio di vento ha spinto via dal capo di Imperia il cappuccio del mantello, e i capelli bruni si librano in aria come mossi da vita propria.
Solo allora il vampiro nota qualcosa che non aveva notato prima. Tutti i cittadini hanno si capelli scuri, ma nessuno ha occhi meno chiari di un bel verde foresta.
Quelli di Imperia, chiari come solo il ghiaccio può essere, rappresentano una chiara quanto spaventosa anomalia.
- Una strega!! – urla la donna – Ha tentato di uccidermi per poi salvarmi, vuole conquistare la nostra fiducia. – poi gattonando si allontana dalla demone, che cerca inutilmente di aprire bocca.
- Strega! – fa eco un uomo.
- Diversa! -
- Demonio! – dice un altro ancora, e in meno di un minuto la via della tranquilla cittadina si trasforma in un putiferio. Solo per miracolo Askart riesce a spintonare tutti lontano da Imperia che, in lacrime, giace seduta per terra a capo chino.
- Imperia, andiamo via! – le afferra un lembo del vestito e entrambi si smaterializzano via. Le urla della cittadina rimbombano ancora nelle loro orecchi, richieste di morte e accuse di diversità che la demone non può sopportare.
Sa di essere al sicuro a pochi metri dalla Corte, in piena foresta, si sente spaurita e, cosa che ormai le è familiare, infelice.
- Perché, Askart, volevo solo aiutarla… - mormora stringendo forte la casacca del vampiro, mentre mille lacrime le rotolano lungo le guance. – Io non volevo ucciderla. –
- Lo so Imperia, devi capire che… -
- Certo, ho capito. – lei si tira in piedi con un gesto fluido e misurato, ha un’espressione distante che l’altro non le ha mai visto addosso. Quella sera è l’ultima volta che la vedrà piangere. – Ho capito che, ancora una volta, io sono solo quella che è diversa. –
- No, aspetta… -
- Non cercherò più di essere quello che voglio. Ho sofferto abbastanza. – con un breve gesto di saluto si allontana nei boschi, l’amara consapevolezza di chi, ancora una volta, ha iniziato una gara non essendo in grado di vincerla.


Capitolo 8
Silenzio

Now just let me sleep,
I don’t wanna talk
Have nothing nice to say.
Don’t wake me up too soon
I don’t want to see the world
I need to be no-one
All I want is just to be.
Elisa, Sleeping in your hand.

Sono le due di notte e il silenzio che avvolge la camera di Imperia non le è mai parso tanto derisorio quanto oggi, solo i quadri la guardano con un’aria mista di comprensione, Irene di Bisanzio, in particolare, non ha occhi che per lei.
La demone non riesce a sostenerne lo sguardo, si sente stanca e per la prima volta il freddo che le alberga dentro non pare tanto sgradito; forse sua madre ha sempre avuto ragione su tutto.
Che senso ha opporsi alla sua stessa natura quando questa è più forte di lei?
Si lascia cadere sul letto socchiudendo gli occhi che ora sono tornati bianchi, con una mano prende una ciocca di capelli biondi e la strattona un po’.
Nemmeno cambiare è servito a qualcosa.
- Anche io – una voce interrompe le sue riflessioni – sono stata come te. –
Imperia scatta a sedere. – Chi ha parlato? –
- Sono stata io. –
La ragazza fa vagare lo sguardo per tutta la stanza ma non all’altezza esatta, quando capisce che deve alzare lo sguardo, la demone ritratta nel quadro è parecchio spazientita.
Irene di Bisanzio piega la bocca in una smorfia retaggio della vita passata, i capelli sono scuri e gli occhi di un bel verde brillante, non è mai stata abituata ad attendere e anche ora che è morta il suo quadro conserva quella caratteristica.
- Irene…? – in tutti quei novant’anni di vita non l’ha mai vista parlare.
- Oh ti prego, Irene è solo per coloro che mi rispettavano come regina. Il mio nome è Aethaer Wiselfort. –
- Credevo che Irene fosse il tuo vero nome, mia madre ti ha sempre chiamato così.
- Questo perché ho operato una magia nelle menti di tutti quegli sciocchi demoni che vivevano contemporaneamente a me, cancellando il mio nome dalla loro memoria
. – dice il ritratto, sventolando una mano nel gesto di chi, ancora una volta, racconta qualcosa di estremamente noioso.
Imperia, al contrario, trova la cosa parecchio interessante. – Fammi capire… - esita – tu sei riuscita ad operare nella loro… testa? Credevo che fosse impossibile. –
Irene di Bisanzio, primogenita dei Wiselfort, si lascia andare ad una risata che sa tanto di derisione verso tutti coloro che ascoltano. –Sbagliato mia cara, è impossibile finché nessuno ci prova. L’ho sempre detto che noi demoni non tendiamo mai a migliorarci. –
- Quindi nessuno aveva mai tentato una simile magia e, per questo, essa è stata ritenuta impossibile da praticare? È questo che mi stai dicendo? –
Lei annuisce – In un certo senso è proprio quello che tutti desiderano, continuare a vivere la loro piatta vita lasciando che essa scorra senza sobbalzi ed imprevisti. –
- Me ne sono accorta. – mormora Imperia, abbassando gli occhi. – Nessuno mi lascia fare quello che vorrei e, in un certo senso, anche il mio desiderio mi ha deluso. –
Irene annuisce in maniera buffa, e Imperia capisce immediatamente che la sta prendendo in giro.
- Semplicemente perché stai sbagliando tutto, ragazzina. –
- Ho quasi cento anni. – sibila Imperia in risposta, aggrottando le sopracciglia fino a che quasi queste non si incontrano.
Aethaer la osserva e poi scoppia a ridere. – Quando sono morta ne avevo circa milletrecento, direi che posso rivolgerti ogni appellativo che io desideri. –
La demone scrolla la testa e le fa cenno silenziosamente di proseguire.
- Dicevo, cara, sai perché me ne sono andata da questo mondo? – Imperia scuote il capo, non lo sa, quella del soggetto del quadro è una storia proibita nei suoi ambienti, il motivo per cui è impossibile raccontarla non è nemmeno molto difficile da capire.
- Perché avevo sete di potere e questo universo non poteva soddisfarmi. Così sono scesa fra gli umani e ho manipolato le loro menti fino a che essi non mi hanno creduto figlia di re e regine mettendomi sul trono. Ho ucciso mio figlio perché egli non provasse il dolore di essere diviso tra due mondi. Diverso fra i demoni e diverso fra gli umani, anche se di certo loro non potevano saperlo. –
- Che differenza c’è, allora, fra la tua e la mia storia?
- Che tu pretendi di trovare nel mondo dei Babbani una parvenza di felicità, quando è chiaro che nessun universo può offrirti quello che cerchi
. –
Imperia sbatte gli occhi perplessa, non capisce il ragionamento di Aethaer. – E allora? Tu cercavi ricchezza e potere sugli altri. Perché tu si e io no? –
- Sei una ragazzina testarda e molto sciocca. – la ammonisce il dipinto.
- Non capisco!-
- Io avevo bisogno degli altri per soddisfare la mia voglia di potere, tu non hai bisogno di persone per essere felice, sei pur sempre una demone, dannazione! – sbotta la donna, prendendo a camminare per tutti i quadri della stanza, sfrattando altri demoni e facendo sobbalzare alcuni animali. – O meglio, non sarà certo il cambiamento, che ti renderà felice. –
- Mi stai dicendo di comportarmi da demone fuori e da me stessa dentro? –
- Finalmente ci sei arrivata, pensavo di doverti urlare tutto per farti capire. Sii ineccepibile nei modi e nel comportamento, ma dentro non impedirti di ridere quando qualcuno dice o fa qualcosa di sciocco. Prova qualcosa di nuovo senza cercare il confronto e il conforto di altri. – dice. – Ma soprattutto, non far si che il tuo desiderio si impossessi di te come mi successe. –
Imperia leva il capo di scatto, boccheggiando. – Per questo… sei morta? –
- Già. Avrei potuto sparire fingendo la mia morte, ma non sarei stata la benvenuta nel mondo che avevo abbandonato, e così avrei dovuto passare la mia eternità a comandare formiche in qualche eremo lontano. –
- Triste. – commenta solo la giovane demone, continuando a guardarla.
- Già. – mormora nuovamente Irene di Bisanzio. – Ora ti saluto, devo conferire con altri dipinti riguardo alla tua scelleratezza di questa notte. –
- Cosa? – Imperia salta su dal letto, spaventata. – Come fai a saperlo? –
La donna non impedisce ad un risolino ironico di piegarle la bocca. – L’odore, avventata creatura. Si sente puzza di Babbani fino a qui, ti consiglierei di fare un bagno. –
Poi senza un saluto né altro, sparisce dal suo dipinto inoltrandosi in chissà quale angolo della casa.
- Oh, grazie. – geme Imperia salutando il vuoto.
Da quella sconclusionata conversazione ha tratto un paio di spunti interessanti, tanto che per il momento il pugnale dentro al diario rimarrà al suo posto, ci sono ancora almeno mille anni per utilizzarlo, pensa la ragazza, avviandosi sconsolata verso il bagno.


Capitolo 9
Festa

That's all they really want
Some fun
When the working day is done
Girls-- they want to have fun
Oh girls just want to have fun
Cyndi Lauper, Girls Just Want to have fun.

Sono le nove di sera e Imperia non ha ancora deciso che abito mettere. Sua madre deve aver supposto che a duecento anni lei fosse in grado di indossare un abito piuttosto che un altro, specialmente da quando, un secolo prima, pareva aver perso ogni sussulto di anormalità che l’aveva contraddistinta.
Ethra degli Hiddik era letteralmente rimasta senza fiato quando l’aveva vista partecipare ad ogni cena ed evento mondano senza proferire parola, lamentela o battuta ironica che fosse, e specialmente quando a Capodanno aveva fatto esplodere una bella stella rossa in una miriade di sotto sistemi luccicanti.
Imperia è soddisfatta di sé, in un certo senso, è riuscita a mascherare i suoi bisogni semplicemente smettendo di dichiarare la sua diversità come fosse qualcosa di unico e prezioso, come un dono che agli altri demoni, cechi per loro stessa volontà, era stato precluso.
Sobbalza leggermente quando sente provenire una risatina dal quadro al centro della parete, sopra la testata del letto, lei ha voluto farlo spostare lì cosicché la notte, anche solo emettendo un flebile fiato, Irene di Bisanzio possa subito sentirla e chiederle cosa non va.
In un certo senso Aethaer Wiselfort assomiglia più a un’amica che ad una madre, ma se tempo prima Imperia aveva avuto la chiara percezione di quale figura il ritratto assumesse le mansioni, ora è abbastanza confusa, quel limite che separa il consiglio da un ordine spesso valicato senza che se ne accorga.
- Perché ridi, Irene? –
- Io non rido, sogghigno. Ridere è qualcosa di assolutamente indegno, credo che tu lo sappia; d’altra parte, non che tu sia mai stata una demone particolarmente ligia al tuo dovere. –
- Stai parlando di qualcuno morto cento anni fa. – proferì lentamente la festeggiata – Ad ogni modo, per quale motivo sogghigni? –
Il ghigno di Aethael si stende lentamente sulla superficie della tela, i colori mutano di intensità per creare nuove ombre sul suo viso, e i suoi occhi, all’ombra dei capelli, si colorano di un bianco latte leggermente più scuro del solito. – Pensavo, – disse – che questa festa è stata organizzata per trovare un demone adatto a diventare tuo sposo. –
Imperia solleva gli occhi dai quattro vestiti davanti a lei, scrutando per qualche istante la donna. – Lo so benissimo, grazie. –
- Così – prosegue l’altra, imperterrita, dando segno di non aver udito la frase sputata della giovane – mi sono ritrovata a riflettere che non c’è davvero speranza. Dovrebbero scegliere due mariti invece di uno. –
- Posso sapere il perché? – s’informa educatamente Imperia.
- Certamente
. – fa Irene, sempre con quel particolare sorriso, no, sogghigno, a contorcerle i tratti del volto – Ce ne sarebbe bisogno di uno fortemente stupido per sposare la persona noiosa che fingi di essere, e di uno altrettanto pazzo per sposare quello che realmente sei. –
Imperia considera la frase per un abbondante minuto prima di rispondere. – Mi stai forse cautamente suggerendo di non trovarmi un marito, almeno per stasera? –
- Precisamente. – dice la donna, scuotendo affermativamente il capo. – Per le altre feste c’è tempo per inventarsi qualcosa, ma questa è veramente comparsa tra capo e collo. Temevo di non vederti più. – la sua voce è talmente tediata che non sembra le importi poi davvero tanto di quello che sta dicendo. – Se non altro dimostri una certa intelligenza; altrimenti, ti avrei dato per spacciata. –
- Grazie. – mormora tetra Imperia, cercando di dimenticare quello che le è appena stato detto. Forse Irene ha ragione, lei non è adatta per un matrimonio che, considerati i possibili candidati, le garantirebbe di certo una minore libertà rispetto a quella che la ragazza è andata costruendosi faticosamente in cento anni di menzogne e frasi cortesi pronunciate senza altra aspettativa che la ricompensa di poter, dopo, lasciarsi andare sul letto in camera e cominciare a chiaccherare con Askart senza la sorveglianza di Ethra.
Eppure sa che dimostrarsi restia alla compagnia di anche un solo pretendente farebbe scattare un sensibile allarme nella testa della madre, che immediatamente comincerebbe a rivolgerle domande fastidiose ed umilianti.
Ethra non si è mai scomodata per un suo bisogno, eppure quando c’è di mezzo la sua rispettabilità si affanna intorno alla figlia sommergendola di consigli e notizie; suo padre, pur non raggiungendo simili traguardi, ha una certa predisposizione nel capire i suoi desideri e nel reprimerli con altrettanta felicità.
- Comunque credo che mi divertirò un sacco. – esclama la voce di Irene – Non assisto ad un ballo da molto tempo. –
- Invece di fare inutili congetture quando sai benissimo che devo relazionare con gli ospiti, pensa a che vestito potrei mettermi, considerato che sono in ritardo di ben dieci minuti. –
Il quadro sbuffa sventolando una mano, come a voler minimizzare, sembra quasi che gli occhi della demone dicano “Rovini sempre tutto”, mentre la smorfia sul viso è chiaramente seccata.
- Non quello bianco, chissà a cosa pensava tua madre quando lo ha fatto confezionare, sembreresti una palla di neve con quei capelli dannatamente chiari. Per altrettanti motivi scarterei il nero, molto misterioso se devi conquistare qualcuno ma ti ricordo che cerchiamo di ottenere l’esatto opposto. – proferisce con tutta calma, mentre Imperia, impaziente, saltella da un piede all’altro. – Quello rosa ti farebbe sembrare una bambolina perfetta ed impeccabile, ci sono almeno dieci giovani demoni che cercano una pezza da pavimento al posto di una moglie, lo scarterei subito. Quello grigio non mi piace. –
- Beh, - mormora la demone seduta sul letto con aria sconsolata, ha i piedi che cadono sul tappeto e le braccia appoggiate dietro alle reni, per rimanere in equilibrio. – direi che ne è rimasto solo uno. –
Entrambi gli sguardi delle donne si posano sull’unico vestito rimasto adagiato sul letto, gli altri sono già stati fatti sparire, è di un azzurro chiaro ma intenso.
- Provalo. – suggerisce Irene, e Imperia l’accontenta.
Quando si rimira allo specchio c’è semplicemente una giovane demone dai capelli chiarissimi, lisci, che ricambia il suo sguardo leggermente spaurito. Irene ha scelto bene questa volta, pensa lei, osservando l’abito: ha una bella scollatura a V sul davanti, e le due maniche sono costituite da veli impalpabili di tessuto sottilissimo, trasparente, anch’esso azzurro.
Il corpetto termina appena sotto il seno con una riga di tessuto blu, e la gonna, in stile impero, cade dritta sul davanti, una sovrapposizione di tessuti semi-trasparenti di varie sfumature indaco, per poi chiudersi in un leggero strascico dietro.
Raccoglie i capelli mentre un’idea le affolla la testa, insidiosa. Apre un portagioie ed estrae i gioielli che suo padre le ha regalato tempo prima: sono semplicemente stupendi, acquemarine dalle sfumature vive ed intense legate fra loro da un nastro argento coi ricami in nero.
- Cosa fai? – sbotta Irene – Così attiri solo l’attenzione. –
- Proprio quello che ho intenzione di fare. – risponde con tono sibillino Imperia, una vago sorriso ironico ad aleggiarle sulle labbra e gli occhi lucidi, come sempre quando trama qualcosa.
Mentre si chiude la porta alle spalle, incurante dei borbottii del quadro, il piano è già delineato nella sua mente: vogliono una moglie solo per portarsela a spasso, così le aveva detto Irene.
Molto bene, pensa Imperia, si troveranno davanti qualcuno superiore a loro in tutto, che li spaventi talmente tanto da indurli a desistere. È semplice ma efficace, sa bene come ragionano i suoi coetanei.
Non come Askart.
Peccato che lui non possa proprio presentarsi qui, si dice affranta la ragazza. Quando tuttavia sente la musica farsi più vicina, quel pensiero sparisce immediatamente dalla sua testa, sostituito da qualcosa di più urgente.
Vogliono la mia vita e sputeranno sangue per averla.
Il ghigno che le deforma le labbra non è certo il suo solito sorriso gentile, ma bensì qualcosa di estremamente pericoloso che solo Irene ed Askart, in quanto suoi amici, sanno riconoscere come tale.
La smorfia di chi si sente minacciato e aspetta solo un cenno per attaccare e salvarsi.
Se fosse un essere umano combatterebbe per preservarsi l’anima, ma in mancanza d’altro, c’è pur sempre la propria libertà da difendere.


Capitolo 10
“Caesar”

Can anybody find me somebody to love?
Each morning I get up I die a little,
Can barely stand on my feet.
Take a look in the mirror and cry,
Lord, what you’re doing to me?
Queen, Somebody to love.

Sono le dieci di sera e Imperia sospira.
Si era aspettata una marea di gente silenziosa e composta, ma è ben evidente che la situazione sfugge decisamente al controllo dei padroni di casa. Il vociare è talmente forte che per un attimo Imperia si chiede se tutti i demoni presenti nella Sala non siano stati sostituiti da babbani, in ultima analisi tutti i pretendenti che aveva precedentemente incontrato avevano fatto sfoggio di un silenzio a dir poco tombale.
- Oh! – si lascia sfuggire nell’osservare intorno a sé persone mai viste, volti sconosciuti che le sorridono elegantemente, forse strabuzzando un po’ gli occhi, la demone ci mette un attimo a capire il motivo di tale gesto, poi comprende: sta sorridendo.
Sii superiore, si dice, ne va della tua salvezza.
- Imperia, cara
! – la giovane volge il capo per osservare suo padre che, disperato seppur impassibile, corre verso di lei in una leggera cadenza trottata.
È buffo, pensa lei. Non ha mai considerato suo padre come un demone buffo.
- Padre. – lo saluta, inclinando leggermente il capo.
- Sei molto elegante, - annuisce lui, poi sussulta brevemente, Imperia ne è sicura, non l’ha mai fatto in sua presenza. – ma temo che questa festa possa essere poco gradevole per te. –
Imperia Cassandra Glassharm lascia che il suo sguardo accarezzi l’intera area del Salone, incrocia per un attimo gli occhi ridenti di Irene, poi passa oltre, al tavolo del rinfresco ci sono demoni intenti a sorseggiare un liquido ambrato – il nettare degli dei, sicuramente -, mentre alcuni parlottano tra loro, sogghignando.
Poi nota quello che suo padre aveva cercato di nasconderle col suo corpo: c’è come una linea di separazione nella Sala, da una parte sua madre circondata da silenziosi giovani, e dall’altra un confuso sciamare proveniente appunto dal tavolo del buffet.
Vicino a questo sta Lord Demetrius insieme alla compagna di un giovane che, improvvisamente, si mette una mano sulla bocca ed inizia a ridere.
È bello.
La consapevolezza di quel pensiero si fa sempre più chiara mano a mano che lo osserva.
Non ha mai creduto che un demone potesse suscitarle tali pensieri, dei mille e più che è stata costretta ad incontrare, nessuno può vantare una simile reazione nella mente di lei.
Imperia è così fresca, ingenua a volte, che istintivamente pensa che desidererebbe che fra loro ci fosse qualcosa; in fondo, è giovane e può permettersi di tentare.
Infine alza la testa ad incontrare il viso del padre e schiocca la lingua, lasciandolo per un attimo in attesa. Infine ghigna brevemente – Non ne vedo il motivo, padre. D’altronde, devo pur trovare un fidanzato che mi sia congeniale, e non capisco perché non andare a cercarlo in questa festa. È questo lo scopo, giusto? –
Allister Glassharm la congela con lo sguardo, in tensione. È stato messo con le spalle al muro da una demone di duecento anni, se non lo sapesse impossibile, arrossirebbe. – D’accordo. – borbotta – Ma vedi di non deludermi. –
- Come sempre, padre. – risponde lei chinando il capo in un gesto umile che sa di derisione e sberleffo. Non smette di sorridere nemmeno per un istante.
- Bene. –
- Perfetto. – sottolinea Imperia mentre si allontana. – Davvero perfetto. – ripete scoccando un gesto d’intesa al dipinto che ancora sogghigna da due minuti prima. Irene di Bisanzio china il capo in un gesto di assenso.
Le basta scrutare un’ultima volta l’ambiente per decidere immediatamente dove dirigersi: così s’incammina alla sua destra, verso il buffet, immergendosi all’interno di una marea vociante a lei fino ad ora sconosciuta.
Sente lo sguardo penetrante di Ethra che le brucia la nuca, ma non si scompone e continua ad avanzare, fino a giungere davanti ad un duo di demoni che sghignazzano fra loro.
Questi, sentendosi osservati, spostano lo sguardo su di lei, che subito, nonostante le buona intenzioni, comincia ad arrossarsi in zona zigomi.
- Buonasera. – dice. Si sente troppo umile ed immediatamente rialza la testa, spostando indietro le spalle, come sempre quando si sente vulnerabile. – Cercavo proprio voi. – butta lì, con noncuranza.
- Ah si? – risponde quello che pare avere la sua stessa età, ha occhi ovviamente bianchi e capelli finissimi, albini. – E per quale motivo? –
- Caesar! – borbotta l’amico al suo fianco, posando poi lo sguardo su Imperia. – Lo scusi, signorina Glassharm. –
La giovane ruota lentamente il capo verso il più giovane, beandosi per un breve istante della sua aria smarrita, lo sente borbottare un – Ah! – nemmeno troppo convinto.
- Di nulla. – ghigna compiaciuta. – Piuttosto salve, Lord Demetrius. – aggiunge dopo una pausa infinitesimale. Non osserva l’altro, che ha capito essere Caesar Noah Cameron, nemmeno per sbaglio. In realtà vorrebbe, ma si sa, l’orgoglio a volte fa brutti scherzi.
- Dimitri andrà benissimo; piuttosto, vi ritenevo ormai perduta nella rete senza uscita dell’alta società. – rise facendo una smorfia – Devo dedurne forse che avete trovato un buco nel sistema? –
Quel modo di parlare del mondo in cui è cresciuta la fa scoppiare piacevolmente a ridere sotto l’occhio stranito del terzo demone, che ancora continua a fissarla di sottecchi. – Mentire ogni tanto fa bene alla salute, pensavo lo sapessi, Dimitri. –
Lo ha conosciuto anni prima, durante una cena di Capodanno, mentre cercava un po’ di riposo dalle chiacchere stordenti delle sue compagna. Lui era seduto sulla balaustra che dava sul mare, e, trovandosela improvvisamente di fianco, aveva immediatamente capito tutto.
Pareva che con una sola occhiata avesse inteso il suo profondo disagio interiore, forse lo stesso che tempo prima aveva provato anche lui; perciò le aveva sorriso, e da quel gesto si erano poi trovati a parlare dei propri sogni e aspettative.
Così era iniziata una sorta di amicizia basata più su sguardi, che veri e propri discorsi.
Lui scrolla le spalle in un gesto che lo fa apparire sgraziato ma che si rivela quanto mai efficace. – In effetti si, anche se il dire bugie è un’attività che preferisco lasciare al ragazzino. – borbotta. – A proposito, Imperia, lui è Caesar Cameron. –
- L’avevo capito, - afferma lei – la sua boria è riconoscibile a metri di distanza. –
Dimitri sghignazza senza ritegno mentre l’altro non trova nemmeno qualcosa di abbastanza offensivo da rispondere, rimanendo così senza fiato. – Stupida mocciosa. – sibila poi – Dovresti solo cercarti un marito stasera, non importunarci con le tue stupide battutine. –
- Appunto, - sibila lei – ero appunto venuta per questo. – poi lascia che un terribile, lento sogghigno le si apra sul viso diafano, alzando il mento in un tacito gesto di sfida, lui le ha fornita un’occasione unica di realizzare ciò che prima aveva solo pensato. – Ma devo dire che ho già scelto: ti piacerebbe sposarmi, Caesar Noah Cameron? –
Dal silenzio che è improvvisamente sceso nella Sala Imperia deduce rapidamente due cose: la prima è che, mentre lei si lasciava andare alla conversazione, parecchie orecchie indiscrete si sono avvicinate per ascoltare i loro discorsi; la seconda, immediatamente conseguente alla prima, è il ricordarsi che nel Galateo sono i demoni a chiedere la mano al padre della giovane, e non viceversa.
Fa saettare velocemente lo sguardo verso Irene e la smorfia che le vede stampata sul volto vale mille volte più del valore di tutti i gioielli che possiede: probabilmente se la demone non fosse morta, Imperia sarebbe già caduta al suolo, come minimo svenuta, a causa dello sguardo dell’altra.
Ha perso il controllo e lo sa benissimo, non avrebbe dovuto lasciarsi prendere dalla discussione e tantomeno non avrebbe dovuto dare spettacolo. Ma visto che ormai il danno è fatto, ha tutta l’intenzione di divertirsi un po’ prima del cataclisma che le si avventerà contro.
Afferra il braccio del giovane e lo strattona verso la balconata, visto che al momento Caesar non sembra avere alcuna intenzione di muoversi. – Lo porto un po’ via, Dimitri. – mormora allegramente.
La sigaretta che il demone si era precedentemente acceso gli pende dalle labbra ormai prossima a cadere, mentre la cenere della stessa ha ormai formato una piccola macchia a terra. Gli occhi bianchi sono ancora sgranati quando biascica un – Prego, fai pure. – che gli pare pura follia.
Una volta fuori lui l’aggredisce, fuori di sé – Ma ti si è completamente fuso quel poco cervello che avevi in testa? Sai che diavolo hai combinato, dicendo quella frase? È come se ora io e te fossimo davvero sposati! – urla spalancando le braccia.
Imperia nota che è arrossito, non certo per la rabbia, pensa, è altamente improbabile; rimane lì a fissarlo per un po’, completamente il silenzio, cercando di capire che cosa gli abbia preso: non è normale per un demone esternare tutta quella furia.
Poi forse, improvvisamente, capisce.
La sua è un’intuizione che ha ben pochi riscontri nella realtà, eppure, sente che ciò che dirà corrisponde al vero.
- Io ti piaccio. – dice semplicemente, a bassa voce, non preoccupandosi di rispondere alle sue precedenti esclamazioni. – Per questo sei venuto qui. Perché io ti piaccio. –
Sulle prime pensa che lui salterà in aria e ricomincerà a urlarle contro, perché il suo viso, prima paonazzo, è ora completamente congestionato. Apre la bocca e la richiude, svariate volte, prima di riuscire ad articolare qualcosa.
- Si. – mormora, e finalmente Imperia capisce: prima quel rossore era semplicemente… timidezza? – Sei contenta, ora? Mi hai umiliato a sufficienza? Sono anni che partecipo ad ogni tua festa, ma tua madre ti ha dirottato ogni volta lontano da me. È abbastanza? –
Imperia ride, e Caesar improvvisamente ammutolisce.
Negli occhi bianchi della demone scorge qualcosa che non credeva fosse possibile: vita, forse anche un briciolo di speranza. Si chiede che razza di demone sia.
Rimane a fissarla negli occhi fino a che lei, accorgendosene, non smette di ridere, improvvisamente, cominciando invece a mordersi con dedizione le labbra.
- Senti, - comincia Imperia – non volevo prenderti in giro, cioè… quando ti ho visto ho pensato che sei bello. –
Il suo carattere le impedisce di mentire se non a sua madre o a suo padre, lei è diretta e non può fare a meno di esserlo anche se a volte, per questo, prova dolore.
Ma quando inizia a parlare, velocemente, c’è una piccola speranza ad animarle la voce. – In fondo, cosa costa provare? Lo so, aspetta, non ti conosco nemmeno, potremmo risultarci insopportabili dopo pochi giorni appena, magari non ti piacerà nemmeno… che so, baciarmi! Ma nessuno lo verrà mai a sapere questo, vivremo insieme e avremo interessi diversi, se preferisci potremmo non incontrarci mai, stare in ali separ
- Solo per questo, dunque? Me lo hai chiesto solo per avere finalmente la tua libertà? –
Imperia sbarra gli occhi e, silenziosamente, china il capo verso terra; non avrebbe senso mentire: se proprio deve sposarsi, è necessario farlo con qualcuno che le possa garantire delle libertà, seppur minime.
La verità è che lei vorrebbe solo essere felice.
- Io vorrei solo essere felice. – mormora – e per essere felice non posso vivere rinchiusa in una casa come se fossi solo una serva. Vorrei che capissi solo questo. –
- Quello che hai fatto non ha senso.
- Quasi tutto quello che faccio non ha senso
. – ride lei, con una certa amarezza nel tono. – Quindi, nemmeno questo. –
Caesar tace per lunghi istanti, il suo cervello ragiona velocemente.
Imperia gli piace, come negarlo, ma ha solo duecento anni, è troppo presto per essere sposato; ma in fondo, quello che lui cerca è solo libertà dai suoi genitori.
E chissà mai che questo assurdo matrimonio non glielo permetta.
- Ehi. – la chiama – Accetto solo se non le dici a nessuno, le condizioni, intendo. –
La giovane rialza il capo di scatto e lo fissa, sorpresa. – Dici sul serio?
- Mh… ammesso che tu sia veramente sicura
. –
Lei pare confusa, sul momento, non avrebbe mai creduto che uno scherzo innocente la portasse fino a quel punto. – Non mi chiuderai in casa? –
- Certo che no.
- E non ti offenderai se… non ti piacerà baciarmi? – chiede arrossendo furiosamente, come forse nemmeno un essere umano saprebbe fare.
- No. -
- Ah. –
Rimangono alcuni istanti in silenzio, la luna brilla sopra di loro e un paio di rumorosi pipistrelli schiamazzano volando da un ramo all’altro.
- Senti, accettare è una delle cose più stupide che io abbia mai fatto. – dice lui. – Non ti amo, capisci? Nemmeno ti conosco. –
- Certo. –
- Però… -
Lei, che nemmeno lo ha fissato, ora alza lo sguardo per capire come mai non abbia terminato di parlare, e lo trova inaspettatamente vicino; non lo ha nemmeno sentito avvicinarsi.
- Cosa… cosa c’è? –
- Almeno di una cosa devo sincerarmi. – sussurra lui.
- Ah…- ripete
lei. – E di cosa? –
Caesar aspetta un attimo per parlare, godendosi i suoi occhi lucidi e le gota arrossate, quindi sorride con un largo ghigno. – Devo capire se proprio mi fa così schifo baciarti. –
Così, mentre Ethra si metteva simbolicamente le mani nei capelli, Imperia ebbe finalmente la sua libertà.
E quel pugnale, in camera sua, sparì per molto, molto tempo.


Capitolo 11
Sogno

I'm not a girl
Not yet a woman
All I need is time
A moment that is mine
While I'm in between
Britney Spears, I’m not a girl, not yet a woman.

Sono le nove di mattina quando Caesar Noah Cameron viene destato dal suo sonno con un grido che gli pare perfori anche le robuste pareti del suo maniero.
Con un fremito pensa che se è successo qualcosa ad Imperia non se lo perdonerà mai, così corre come un disperato fino alla porta del suo Salotto e spalanca la porta, facendo irruzione.
Tre istanti dopo è asfaltato al suolo, con un piede intrappolato tra i fili di quello che riconosce essere un manufatto babbano. Impreca e non ha decisamente timore di farlo.
- Oh accidenti, Caesar, lo hai spento. – la voce di Imperia, comodamente sdraiata sul divano, ha l’incredibile potere di metterlo, ancora una volta, di buon umore.
- Una volta per tutte, spero. – ringhia lui, rialzandosi con una certa, strascicata lentezza, il tutto per poterla osservare attentamente nascosto dai suoi stessi gesti.
- Ovviamente no. In linguaggio babbano, hai appena staccato la spina, inciampandoci. Niente a cui non si possa rimediare. –
- Dannazione. – grugnisce lui. – Piuttosto, tutto bene?- chiede, apprensivo.
Imperia Cassandra Glassharm Cameron lo guarda come se avesse appena annunciato di amare tutti i babbani. – Ma si, certo caro, cosa vuoi che sia successo? –
- Ti ho sentito urlare. –
Passa un attimo in cui le labbra di Imperia si tendono nell’ultimo, solenne sforzo di non scoppiare a ridere. – Oh Caesar, vieni qui. – mormora come se si stesse rivolgendo ad un bambino.
Lui, seppur diffidente visto il sadismo della moglie, si siede accanto a lei sul divano; subito Imperia gli prende la testa fra le mani e se la poggia sul seno, sospirando. – Era la televisione ad urlare, non io. –
- Ah. E cosa sarebbe? –
Lei ride e gli indica con un dito la scatola cubica davanti a lei. – Quella che tu hai provvidenzialmente spento qualche istante fa. – sussurra posandogli un bacio fra i capelli.
- Sono
contento di averlo fatto, allora. – risponde lui sollevando il capo per baciarla. – Faceva troppo rumore. –
È un secondo e la demone si trova schiacciata sotto il corpo di lui, che le sfiora il viso in tanti piccoli baci, sussurrando frasi che lei non riesce a comprendere.
- Imperia. – dice lui, fissandola negli occhi. – Mi hai mentito. –
Lei sbatte gli occhi, perplessa. – In che senso, Caesar? –
- Mi avevi detto che il tuo cuore aveva smesso di battere. –
Imperia sospira delicatamente, scuotendo il capo. È da quando che si è effettivamente sposata con suo marito che il suo cuore non ha mai smesso di battere; un’altra anomalia che però, la demone ne è consapevole, la espone ad un rischio di gigantesche proporzioni.
Caesar è stato il primo ad ammonirla, a riguardo: colpirla e ucciderla sarebbe stato estremamente facile, una volta scoperta la sua debolezza. E lui, come la aveva chiaramente detto, non era pronto a separarsi da lei.
È passato più di un secolo e mezzo da quella serata a Glass Manor, e i due, incredibilmente, si sono innamorati.
Non.
I primi anni erano stati incredibilmente turbolenti, con litigi e silenzi che ferivano più di un potente incantesimo; a volte Caesar, in preda all’ira, le aveva rinfacciato di averle rovinato la vita.
Voglio.
Ma poi, alla fine, avevano scoperto di piacersi reciprocamente, anche se ogni tanto, specialmente nei primi tempi, non avevano trovato sufficienti punti di incontro.
Separarmi.
In ultima analisi, in tutti quegli anni la libertà che aveva sempre desiderato Imperia se l’era sottratta da sola, troppo impegnata a stare con Caesar, a parlare con lui, a scherzare a volte.
Da.
Più volte si era chiesta se non aveva sofferto, per poi immediatamente rispondersi di no; in quella casa era finalmente riuscita ad essere se stessa, a sorridere quando ne aveva voglia e, specialmente, alla luce del sole.
In un certo senso, aveva scoperto che per essere felice occorreva davvero poco; e poi, anche se con riluttanza, Caesar aveva ogni tanto acconsentito ad accompagnarla nel mondo babbano.
Te.
- Mi spiace, Caesar ma… non dipende da me. Volevo solo rassicurarti. – dice sorridendogli, ben sapendo che quel gesto lo farà sbollire dalla rabbia.
- A volte mi chiedo cosa possa fare per non farti mai stare lontana da me. – mormora lui abbracciandola stretta, come sempre abbagliato da quel sorriso. – Sei così fragile… così… umana, Imperia. –
Lei sorride contro il suo petto, mentre sente le lacrime pungerle gli occhi. – Devi solo continuare ad essere te stesso, e niente di più. Non mi uccideranno. – dice, ed è vero. Lo ha deciso da tempo, che sarà lei stesso a privarsi della vita quando sarà stanca.
- Ho paura. –
- Non devi. Questa notte ti ho sognato. –
L’affermazione è così spontanea che al demone sembra completamente naturale. Così non si rende conto di quello che lei gli ha detto fino a che non vi riflette un attimo sopra. Sussulta e l’afferra per le spalle, per scrutarla in viso.
- Cosa…? Stai bene? –
- Ma si, certo che si. – dice, alzandosi poi dal divano. – Vado a farmi una doccia, tu fai colazione. –
Lui contrae il viso in una smorfia semi buffa. – Io non faccio colazione, Imperia. – brontola.
La demone ride e poi alza le spalle, facendogli un enorme sorriso. – Dovresti provare. – e scompare, lasciandolo immerso nel suono così piacevole di quelle risate.
Mentre si allontana dalla stanza, però, non può far a meno di scrollare il capo in un’espressione afflitta: ha mentito, ha mentito a suo marito nascondendogli i suoi problemi.
I sogni non sono che uno dei tanti sintomi che la porteranno lentamente verso il baratro: da qualche tempo ha notato di essere più sensibile. Come Irene le ha suggerito, probabilmente è il sentimento molto forte che prova a ridurla così.
Lei non può far altro che darle ragione e poi rinchiudere il suo dolore dentro di sé.
Non rinuncerà a Caesar, anche se sa che questo, probabilmente, la porterà alla fine


Capitolo 12
Oltre

Sometimes you picture me -
I'm walking too far ahead
You're calling to me, I can't hear
What you've said -
Then you say - go slow -
I fall behind -
The second hand unwinds
If you're lost you can look - and you will find me
Time after time
If you fall I will catch you - I'll be waiting
Time after time.
Cyndi Lauper, Time After Time.

Sono le… nemmeno Imperia lo sa.
Pensa che questo è l’ultimo ricordo del libro per chi mai lo leggerà, ed è anche l’ultimo ricordo di cui serberà memoria lei stessa.
Ha novecento anni, settecento dei quali passati insieme a Caesar: non ne ha mai rimpianto uno, nonostante sappia che è stato il suo amore a portarla alla rovina.
La guerra che i demoni si sono dichiarati anni prima è stato l’inizio della fine, per lei: la sensibilità della sua mente non la porta a sopportare tutto quel dolore e quella sofferenza che gli altri, freddi come statue, non possono sentire e tantomeno provare.
Sua madre e suo padre sono morti venti anni prima, uccisi da una famiglia di demoni benestanti che miravano a prendere il loro patrimonio.
Ethra ed Allister, i suoi genitori. Non li ha mai amati, eppure il dolore che ha provato nell’apprendere della loro morte l’ha condotta in un baratro da cui non è più riuscita ad uscire.
Il pugnale che lei stessa aveva stregato affinché ricomparisse non appena lei avesse finalmente preso la decisione definitiva è lì, appoggiato sul loggiato del castello.
Imperia se ne va non per vigliaccheria, bensì per l’attesa.
Se uccidessero Caesar, lei morirebbe lo stesso, precludendosi la possibilità di operare un ultimo, potente incantesimo.
Vuole solo andare oltre, scoprire nuovi mondi che, nonostante i suoi poteri, le sono stati fino ad ora preclusi. Di nuovo, vuole essere libera e felice.
Caesar l’ha costretta a rimanere chiusa in casa nell’ultimo secolo, poiché ben sa che il suo cuore non ha mai smesso di battere: ucciderla sarebbe stato troppo facile.
E così le ha impedito di viaggiare, costringendola a stare rinchiusa in un ambiente troppo piccolo per lei; sa di provocarle un dolore a lui sconosciuto, eppure l’egoismo del suo cuore non ha saputo fare una scelta diversa.
Cerca di farla vivere, non sapendo che così, invece, l’uccide.
Imperia sospira cautamente osservando quel tramonto di un’inutile quanto plastica mediocrità, aveva sperato in qualcosa di più magnetico ma non importa. La sua è una vita non troppo importante da meritarsi un riconoscimento celeste, pensa.
Non rinuncerà certo ad uccidersi per questo.
Afferra il pugnale con una mano e se lo punta al cuore; lo sente battere furiosamente, non capisce se di attesa o di rimpianto.
Vorrebbe stargli accanto ma ha compreso di non essere in grado di farlo.
Così, lo lascia senza un addio, sperando che lui non si accorga della sua assenza.
- Imperia. – troppo tardi, pensa amaramente lei vedendoselo comparire davanti. – Imperia, cosa stai facendo? –
Caesar Cameron non è assolutamente cambiato da quel giorno in cui lo ha conosciuto; lei, invece, si sente infinitamente più vecchia.
- Me ne vado, Caesar. Vado lontano da questo mondo in cui non so vivere. –
- Cosa stai dicendo, sciocca? – il terrore che Imperia gli legge negli occhi si trasforma in rabbia, è con rabbia che lui l’aggredisce, avvicinandosi. – Vuoi morire? –
- Si, Caesar… mi spiace, ma non vedo alternative. –
Imperia assume un’espressione dolce quando lui spalanca gli occhi bianchi pieni di lacrime che sanno di una vecchia ed amara consapevolezza. – Se è solo per le uscite… ti accompagnerò io, vedrai, potr
- Caesar. –
- Usciremo insieme, andrai nel mondo dei babbani, mi ricordo che ti è sem
- Caesar. –
- piaciuto così tanto, perché non ci torniamo, sul serio, potremo stare lì per un anno, che ne –
- Caesar, guardami. –
Il tono di quella richiesta è così debole e agghiacciante che lui non può far a meno di zittirsi immediatamente.
- Cosa vedi, Caesar? –
Il demone attende un attimo prima di rispondere. – Vedo la bellissima demone di cui mi sono innamorato che sta per fare una scelta sbagliata. –
Imperia scuote il capo, sempre sorridendo, gli è sempre piaciuto il suo sorriso, pensa lui. – Vedi una donna debole e fragile, dai lineamenti stanchi. Vedi qualcuno che non conosci più ormai, perché l’Imperia che tanto amavi è ormai morta, soppressa dalle cattiverie del suo mondo. – dice in un soffio, per poi aggiungere, infine – Io ti amo, Caesar. –
Non gli dice che è proprio il suo amore che la sta portando alla rovina, o forse lui lo ha già capito.
- Anche io ti amo, Imperia. Non morire. –
- Non muoio, Caesar. Vado semplicemente oltre. – risponde lei con una lacrima a bagnarle il viso pallido e liscio. – Vado solo oltre. –
- Oltre è dove non posso raggiungerti, Imperia. Non farmi questo, te ne prego. –
Improvvisamente la demone serra gli occhi e, con uno sforzo sovrumano, gli si rivolge in tono freddo. – Tu non dovrai seguirmi, Caesar, perché tu ti innamorerai ancora. Tu non morirai adesso. –
- Ma… -
- Ascoltami: in questo mondo non posso più essere felice… solo andando oltre troverò finalmente il mio mondo. –
- No. – sibila lui – Dammi solo una buona ragione per lasciarti andare. –
Imperia Cassandra Glassharm alza lo sguardo e per un secondo gli pare la ragazza bizzarra di un tempo, con gli occhi vivi ed accesi che ha imparato ad amare.
- Tu mi stai uccidendo, Caesar. – dice lentamente, guardandolo, affondando il suo sguardo nel suo.
È abbastanza perché lui indietreggi di un passo, affinché lei possa finalmente colpirsi.
Solo un istante, e scivola a terra, dolcemente, come un uccello che plana sulle acque del lago.
- Imperia… - mormora lui, sconvolto. Sente il cuore che gli batte forsennatamente come mai gli era successo. – Imperia, non lasciarmi solo… non andare via. –
Lei gli sorride fra le piccole lacrime che sono fiorite sul suo volto e gli lancia un piccolo bacio. – Vado oltre, Caesar. Se non ho voluto un figlio con te… era perché non mi somigliasse. – mormora un po’ sconclusionatamente. – Ma ti amo davvero. –
- Si. –
- Ascoltami, adesso. Io ho fatto un incantesimo, capisci…? Ho gettato un po’ di me in ogni demone di questo mondo, hai capito? – dice piano. – Non vorrei nessuna guerra, sai… è una cosa stupida. –
- Invece è una cosa bellissima. –
Poi lei piano piano chiude gli occhi e scivola nell’incoscienza, fino ad arrivare oltre.
Caesar Noah Cameron socchiude gli occhi annebbiati di dolore, e, semplicemente, piange.
Piange fino a che non vede qualcosa che gli assicura veramente che lei è davvero andata oltre.
Sul viso serio di Imperia è apparso un semplice, dolce sorriso.



Fine.



   
 
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