Una piccolo premessa. A suo tempo, quando la
pubblicai (cioè quasi un anno fa), dedicai questa fanfitcion a Kysa e al suo mondo.
Dedica
che tutt’oggi
vorrei rinnovare.
Mi
rendo conto che il problema in questo caso potrebbe apparire stilistico. Voglio dire, non è il mio solito stile.
Ma beh, non mi sento di cambiare la storia. Non
questa, no.
Ad Maiora!
LADL
***
Prologo
“Imperia”
She is jealousy and injury,
and
the hell wants her to lose.
Catch the pieces of the girl she was,
make the puzzle and
find the answer to the old same question.
“Beauty
is death?”
Lumic, She.
Mi chiamo Imperia Glassharm, e sono
fatta di essenza.
C’è stato un tempo in cui parole per me senza senso come estate mesi e anni si susseguivano davanti ai miei occhi stanchi. Ora non più.
Questa non è una confessione, così come non è un tentativo di discolpa agli
occhi di coloro che lo leggeranno. Negli infiniti anni che ho passato rinchiusa
dentro al mio corpo immortale c’è stato qualcosa che
non mi ha mai abbandonato, ed è stata la mia stessa mente. Mia fidata compagna
ed arma, nonostante ultimamente sia da molti sottovalutata.
Se poi vogliamo aprire una parentesi puramente
sentimentale, ricordo chi non mi ha mai abbandonato, e il suo nome è regale
esattamente come la sua persona. Caesar. Occhi fatti di ghiaccio che avevano conosciuto un tempo la
tenerezza della neve, marmo sulla pelle fresca e cipria di diamante sulle
labbra livide.
In molti si chiedono cosa ci sia dietro all’esistenza immortale di un demone, e
nonostante io l’abbia vissuta per circa novecento anni, ancora non so
rispondere a questa domanda. Chi siamo, perché siamo
stati creati, e perché siamo stati designati come incapaci di morire?
È così che io chiamo gli immortali, incapaci di morire, anche se a volte credo
che il coraggio più grande stia nell’affrontare quella vita piena di tedio e
ritiro eremitico. Siamo fatti così, un potere grandioso e una mente fragile
come cristallo incapace di contenere ciò che ci è
stato donato. Forse è più giusto dire che siamo
immortali e contemporaneamente incapaci di morire; la prima condizione ci è
stata imposta alla nascita, senza che noi avessimo il potere e il volere per
modificarla, allora, o anche solo rifiutarla cadendo nell’oblio, la seconda
invece è qualcosa che noi demoni puri accettiamo, codardi al pari degli uomini
che spesso ci troviamo a schernire.
Ho sempre pensato che annoiarsi più che una conseguenza fosse
una vera e propria attività. Altrimenti sarebbe
impossibile descrivere con quale zelo i miei compagni hanno sempre cercato di
porre fine a tutti i divertimenti di questo piccolo mondo. C’è stato un tempo
in cui mangiavo e un tempo ancora più remoto in cui ho
provato l’ebbrezza di un sogno. Ho cercato di essere diversa
e contemporaneamente simile a loro, e l’unico disastroso risultato che
sono riuscita a conseguire è stato quello di osservare due diverse facce di una
montagna, per poi capire che non appartenevo a nessuna e contemporaneamente ad
entrambe.
Quando nacqui mio padre decise di chiamarmi Imperanda,
dal latino “da ordinare”, un nome che non significava quasi niente e che forse
voleva proprio marcare questo aspetto. Mia madre si
mostrò decisamente contraria al nome, sebbene la
radice da cui derivava, il verbo impero, non le dispiacesse affatto. Fu così
che nacque Imperia, l’appellativo creato apposta per me, che traeva ispirazione
dal latino ma che in realtà era un incrocio di tale lingua con la vivida
fantasia della mia genitrice.
Omen nomen, e chi sa quanto questo dannatissimo proverbio aveva
ragione.
Il nome che mi fu affidato è esattamente come me: anche io appartengo al mondo
dei demoni, ma ho sicuramente qualcosa di più. Non posso chiamarla anima,
certo, ma forse non mi spingo troppo in là quando la
definisco intraprendenza. So di possedere qualcosa di raro anche per il mondo
degli umani, quel qualcosa che faticosamente sospinge avanti la tecnologia e la
cultura di un mondo di cui noi ci disinteressiamo, quel qualcosa che è la
capacità e la possibilità di lanciare uno sguardo attraverso al presente fino a
scrutare con occhi limpidi il futuro.
Vorrei tanto che il mio mondo, quello che ho osservato lentamente andare in
rovina, trovasse la forza per sollevarsi da quel
torpore che l’ha preso e specialmente trovasse il coraggio per guardare avanti.
Per una volta, in questo mio libro scritto in una giornata che potrei
vezzosamente definire importante, sento la necessità
impellente di riportare qui, nero su bianco, alcuni miei ricordi. E voglio dare significato a quella parola che mi è sempre
parsa irrilevante, anche se spesso nominata come qualcosa di incredibilmente
vitale. Il giorno. Addirittura, le ore.
Cosa sono, cosa siete…? Cosa
siamo?
Così, se qualcuno ritrovasse questo mio diario, si vedrebbe precipitare in
dodici piccoli ricordi, che io custodisco come preziosi e cari.
Essi sono stati vissuti in novecento anni di faticosa e trascinata esistenza.
Mi chiamo Imperia Glassharm, ultima della mia
famiglia, ho occhi chiari e capelli albini, e ho deciso di morire, non tanto
perché sia scontenta di quello che ho, quanto perché sono infinitamente stanca.
Chiunque tu sia, ricorda: a volte il potere non è abbastanza.
Capitolo 1
“Nascita”
There was a baby on flame,
his eyes burning on fire.
KnownWhO, Bible’s interview
Sono le tre di notte quando Imperia viene al mondo
nell’oscurità squarciata da qualche candela della stanza della madre, Ethra Letizia Rogister degli Hiddik.
È il 20 agosto del 990, ma questo per i demoni di stirpe non ha importanza; che
senso avrebbe festeggiare anno dopo anno l’avanzare di un’esistenza immortale?
Anche gli anni di età sono più che altro una mera
formalità, retaggio di un passato antico in cui a regnare erano i più anziani.
Come Imperia studierà in seguito, questa è l’unica
vera evoluzione che i demoni di stirpe hanno operato nella loro dura e rigida
casta sociale. Il potere è in mano a chi ne ha le possibilità, spazio ai
giovani, volendolo definire con uno slogan babbano.
Ad ogni modo, la bimba ha occhi di un bianco lattiginoso e capelli di un biondo
quasi accecante. Le viene imposto come secondo nome
Cassandra che, come le diranno più tardi, ha origine babbane.
Suo padre non si era certo dimostrato entusiasta ma Ethra era stata irremovibile: il nome è un omaggio ad
un’antica parente, Irene, che aveva ceduto al richiamo del potere e che si era
inoltrata in quel mondo precluso ai demoni per loro stessa scelta. Era
diventata famosa come Irene di Bisanzio, la quasi
sposa di Carlo Magno, accecatrice del suo unico
figlio per non subire la vergogna, appunto, di un figlio a metà fra due mondi.
Dare ad Imperia il secondo nome di Irene sarebbe stato
troppo evocativo, avevano concordato i genitori, e oltretutto di cattivo
augurio. In ultima analisi Cassandra non si sarebbe dimostrato meno sfortunato,
e l’anti eroina di Troia uccisa per il suo dono
infausto avrebbe portato alla morte anche una demone ben più
forte di lei.
Ma questo i due di certo non potevano saperlo; il
padre aveva riso davanti a quella tragedia, il libro bagnato dalle lacrime per
il gran ridere, e la madre leggendola aveva mantenuto un certo tedio
nell’espressione. Ma la figlia di Ecuba
e Priamo aveva avuto un dono magico, terribile ma magico, ed era quello che li
aveva convinti.
Non avrebbe riso Allister dei Glassharm,
sapendo della morte della primogenita.
È un momento fondamentale, e la camera bagnata di penombra gronda di demoni,
parenti e amici, per quanto così si possa chiamare un legame fra questi esseri.
- Io ti chiamo al mondo come Imperia Cassandra Glassharm,
discendente dalla famiglia materna degli Hiddik. -
Il nome fa discutere, lo avevano intuito, ma va bene così. Ha solo un paio di ore e la piccola già fa parlare di sé. È qualcosa che
sempre racconta una storia, come Ethra fu deciso da un’indovina potente mischiando lettere su un
tavolo di platino e Allister letto in un allineamento
eccezionale di pianeti lontani.
Questo di certo Imperia non può ricordarselo, per quanto eccezionale la memoria
di un demone non si spinge fino a così indietro nel tempo, impossibile che sia un ricordo di sua proprietà. È infatti
una memoria di sua madre, presa direttamente dalla sua mente, ed è questa che
apre la porta in fondo all’anticamera del libro della demone.
Non è un ricordo felice, bensì un vanto, e per quanto anomala sia Imperia, sa che la celebrazione è parte costante della
sua vita.
Capitolo 2
“Regalo”
But it’s you, so delicate, so pure,
Enough to seem unreal.
It’s so hard to believe.
I was so wrong, but now I see the truth.
Elisa,
So delicate so pure.
Sono le quattro del pomeriggio e Imperia ricorda di avere circa vent’anni. I tratti del suo volto perfettamente ovale sono
ovviamente ancora fanciulleschi, potrebbe avere si e
no sette anni, ma la mente racchiusa all’interno di quel corpo è capace di
ragionamenti incredibili.
Ha già cominciato a chiedersi se questo è veramente il
mondo che fa per lei, un mondo fatto di fredda e mera formalità, vissuto da
persone che non sanno apprezzare ciò che li circonda, e che vivono solo per
loro stesse.
- Madre, non vedo il mio regalo. - chiede cortese alla demone
che sosta sotto il porticato in legno, lei la guarda, i suoi freddi occhi
lattiginosi sono poco inclini alla voglia di conversazione, il corpo è rigido
in una posa plastica.
- Quale regalo, Imperia? Non ricordo di averti promesso nulla. -
- Certo madre, il premio per aver risolto
brillantemente il problema che mi avevate posto. - insiste blandamente con il
capo poco rispettosamente alto ad osservare il volto imperscrutabile della
donna, c’è come una coltre di gelo che le separa, la bimba ne
è consapevole. In 20 anni, non l’ha mai vista
diradarsi.
- Desideri intensamente questo regalo, figlia mia? - Ethra
la osserva, prova una certa preoccupazione per quella ragazzina troppo vivace
per la sua razza, è come se i suoi occhi bianchi
assumessero sfumature vive a volte, lei lo sa, non è normale.
- Certo madre, lo aspettavo come un riconoscimento delle mie indubbie capacità.
- dice, la sfida in quegli occhi non si è mai spenta, vuole sapere, conoscere,
ammirare, capire. Vuole vivere.
- Non è un bene essere così attaccati a qualcosa di materiale, devi ricordarlo,
Imperia, spesso ci sono cose che ci traggono in inganno. – la madre la
ammonisce col volto severo. La bimba la scruta intensamente
per alcuni istanti, gli occhi gelidi della donna sostengono quella muta
conversazione.
- E a mio padre, madre, non sei affezionata? –
Ethra non risponde, si limita a crollare il capo, la
testa le duole in maniera straordinariamente intensa per la giornata che fino
ad ora ha condotto.
- Madre… -
- Dimmi Imperia. –
- Madre, tu non ti annoi mai? –
La demone rimpiange di non aver saputo crescere quella
creatura con maggior severità, ha idee sbagliate che teme non possano più
essere corrette. Perché tutta questa curiosità verso
gli altri, si chiede, che senso ha?
- No Imperia, noi demoni non ci annoiamo mai. –
- Eppure io credo di essere annoiata da questo
pomeriggio, madre, siete certa di ciò che mi avete detto? –
Ancora una volta Ethra rimane senza parole, mai le
era venuto il pensiero che qualcuno potesse mettere in
dubbio la sua autorità così, se non suo marito. Eppure
pazienta ancora, troppo abituata ad una vita passiva per poter trovare la
voglia di imporsi.
Potrebbe chiederne un po’ ad Imperia, pensa prima di
serrare il volto in una smorfia inorridita al solo pensiero.
- Madre? –
- No Imperia, noi non ci annoiamo mai nella nostra vita
immortale, semplicemente, riflettiamo. –
La ragazzina ne deduce che dovrà passare molti e molti anni in questa
condizione, non vuole, o semplicemente vuole troppo
qualcosa a cui non può aspirare.
- E il regalo? – a questo punto la donna è esausta, non può che fare un cenno
del capo e indicare con la mano bianca, troppo bianca, il retro del giardino.
- Ti aspetta. –
Imperia annuisce e scuote la testa in maniera buffa. Un demone non dovrebbe mai
essere buffo, si dice Ethra, anche se il gesto di sua
figlia risulta essere comunque di una finezza estrema
e sconosciuta agli uomini.
Per un istante le è parso che fosse arrossita, e spera intensamente di aver
visto sbagliato.
- Grazie Madre! – esclama lei, forse con troppa foga per essere normale. Ciononostante
la donna fa una cosa incredibile, a cui Imperia non assisterà mai più in tutta
la sua vita.
China il capo e, seppur leggermente, sorride.
Nei suoi novecento anni di vita, non avrebbe saputo trovar risposta a quel
gesto, forse non ci provò neppure, limitandosi a conservare quel ricordo un po’
anomalo ma prezioso.
Ethra la osserva andare via, sa che Imperia sarà diversa da tutti i demoni che conosce, e questo
l’ha resa orgogliosa, tanto da sbilanciarsi e mostrarle una parte di sé
sconosciuta ai molti.
Ma dal quel pomeriggio, crebbe in lei la coscienza di
aver messo al mondo una figlia sbagliata.
Il dono di sua madre è un coniglietto bianco come la neve,
lo chiama Spuma perché tanto le ricorda le onde pallide del mare che una volta
aveva visto ad una festa dai Cameron.
Capitolo 3
“Spuma”
And now that her toy is broken, what will
she do?
But wait, listen to me, she’s a toy, too.
And where’s the silent player?
He’s gone, gone away.
But he’s
too far…
Mim_clash, Our Silent Toyland
Sono le undici della mattina e la testa di Spuma ricade senza vita sul
copriletto della bimba, sei anni sono passati dal pomeriggio in cui sua madre
gliel’aveva regalato con un piccolo sorriso. Il coniglio ha ormai passato il
suo tempo ed Imperia, abituata a vivere in un mondo senza lutti, assiste
all’unica morte della sua vita.
Questo perché del suo suicidio sarà protagonista e non
semplice spettatrice.
Non ha mai pensato all’eventualità che un tempo i suoi
giochi sarebbero stati privi di Spuma, del suo musetto tenero e di quei baffi
perennemente in movimento, semplicemente conosceva la morte solo a parole e mai
come una presenza allacciata al suo fianco.
C’è sangue sul lenzuolo, lo fa sparire con un gesto, vorrebbe che fosse così
semplice anche per Spuma, la verità è che sta per
mettersi a piangere e, ancora peggio, sa che non può permetterselo.
È stata brava sua madre con quel gioco subdolo che le aveva lentamente tessuto
intorno, sa che cosa vuol dire sfidare quella donna e intuisce che non vuole
più riprovare quello che sta passando ora, segno che la trappola si è richiusa
sulla sua testa senza possibilità di uscita.
Maledizione ad Ethra e alla sua anima nera.
Il messaggio è chiaro come non era stato invece quel
pomeriggio di anni prima: affezionarsi a qualcosa è un rischio che un demone
può permettersi poche volte in tutta la sua esistenza, venti anni sono troppo
pochi per un simile rischio, devi impararlo.
Imparare, certo, Imperia ha imparato, eppure riconosce come atipica quella
rabbia che le monta dentro, che fa esplodere finestre ed alambicchi, che crea un vuoto nella sua stanza e che, soprattutto, la fa
sentire stanca.
Poi inquadra il muso di Spuma e tutto sparisce in un lampo, ora c’è solo tanta
tenerezza a riempire un cuore che non batte.
- Spuma. – sussurra lievemente al suo indirizzo, magari sta solo dormendo e al
suo richiamo balzerà sul letto scuotendo il corpicino
esile. – Spuma, vieni qui Spuma, vieni da me.-
Ma il corpo del coniglio è immobile per sempre, lei lo sa e non riesce a
comprenderlo, d’improvviso la sua esistenza le pare assurdamente ridicola se
paragonata all’intensità con cui sta vivendo quegli istanti.
Vieni.
Che senso ha avere poteri così grandi se poi non ci sono occasioni in cui
poterli sfruttare, in cui poter fare del bene, perché possederli, allora?
Da.
Imperia sa di non poter porre rimedio alla morte, nemmeno il più potente dei
demoni oserebbe tanto, sfidare il destino è qualcosa di troppo rischioso perché
questi esseri possano esservi interessati. Eppure lei è tentata dal provare.
Me.
Lei. È Imperia stessa il problema, se ne rende conto.
Non può rimanere troppo a lungo con le sue coetanee perché immediatamente
tediata da quelle conversazioni senza senso, atte solo a passare del tempo che
si rivela comunque essere infinito.
Essere da sola vuol dire porre un freno alle sue illimitate capacità inventive,
che d’altra parte ella non può manifestare
apertamente. Sa che se fosse nata fra i Babbani tutto
sarebbe diverso, lei avrebbe potuto piangere, ridere e
pensare. Liberamente.
È chiusa fra quattro mura che la stringono impedendole di respirare.
È appena nata e comincia a pregare di essere una persona normale.
Vuole solo essere se stessa, solo con Spuma poteva, così si lascia avvolgere
dal torpore che l’assale e si lascia cadere sulla poltrona di damasco che
l’accoglie gentilmente.
E ricorda ogni istante passato col suo piccolo
coniglio, quando sentiva le guance tiepide e la voglia di sorridere scorrerle
sotto la pelle. Sente il suo cuore battere e non è la prima volta.
Tutto grazie a Spuma.
Quando si risveglia, il corpo del coniglio è scomparso, al suo posto un piccolo
cagnolino infiocchettato dagli occhi neri e teneri.
Imperia scuote il capo, farà il gioco di sua madre ma
non importa: con uno schiocco di dita, il cagnolino viene mandato nel mondo Babbano. Imperia può fare solo una cosa, mettere la sua
protezione sull’animale che gli consentirà una vita dura ma sana. La demone non vuole soffrire, ma neanche far penare altri
per la sua mancanza di coraggio.
È la prima regola della sua vita, e la manterrà fino a che potrà vivere, si
dice.
È come se già sapesse che sarà destinata, prima o poi,
a terminare la sua esistenza.
Capitolo 4
“Askart”
There's no sense in going on
and your pity now
would be more than I could bear
So I'm gonna be strong
I'll pretend I don't care
Cyndi Lauper, I’m Gonna Be
Strong.
Sono le cinque di mattina e Imperia
si chiude la porta della stanza alle spalle. Sono passati quasi ottant’anni da quando sua madre
l’ha messa al mondo e lei non vede ancora uno spiraglio di luce.
I “grandi” la trattano alla stregua di una bambina capricciosa che vuole sapere
troppo del mondo e la compagnia che le viene
affiancata non è sicuramente delle migliori.
Secondo la conta degli anni che i Babbani hanno è il
1068, forse settembre, quasi ottobre.
È un giorno speciale per Imperia, ragion per cui i
suoi genitori e conoscenti non devono venire a conoscenza di nulla, così sta
molto attenta a non fare rumore, cosa che infine le viene particolarmente bene
data la sua natura, e si avventura per le scale dell’enorme maniero che è
solita chiamare casa.
Le tende sono perennemente tirate, e la poca luce che ne filtra assume un
colore sanguigno, leggermente inquietante. Mille armature sono disposte ai lati
dello scalone, alcune si inchinano rispettosamente al
suo passaggio, altre sonnecchiano, altre ancora si svegliano con un sussulto e
si ricompongono.
Con un gesto imperioso della mano, Imperia fa loro segno di tacere, è un
piccolo segreto che rimarrà fra di loro, dicono i suoi
occhi bianchi.
Ai piedi dello scalone la demone scorge una figura
alta e magra, ma non per questo debole, può sentire la sua aura e anche se sa
che sarebbe comunque in grado di batterlo, preferisce tacere e aspettare.
Chi è?
Ma specialmente… cosa fa lì?
A prima vista non lo riconosce, ma l’odore parla chiaro: quello davanti a lei è
un vampiro di alta casta, sangue purissimo creato coi
migliori incroci fra casate che il mondo del buio ha saputo combinare. Un Leoninus, a giudicare dal tatuaggio,
giovane come lei, per i tratti del viso.
Imperia non ha mai visto un vampiro dal vivo, ma sa di essergli superiore e non
tarda a farglielo capire, i libri che ha studiato non mentono, in una lotta tra
un demone e un succhia sangue, sono i primi ad avere
sempre la meglio.
Per questo motivo finisce di scendere le scale con una certa studiata calma che
all’altro non sfugge, lo può leggere nei suoi occhi ambrati diffidenti, c’è
tensione e irritazione ma anche tanto, molto rispetto.
I gesti di lei sono legge, il suo viso una maschera di
perfezione, nessuno vedendola dubiterebbe del suo stato da bambina e del suo
sensibile disagio interno che non ha mai smesso di crescere.
Il vampiro l’attende e Imperia non può far a meno di notare la bellezza del
volto che esprime una vera e propria sensazione, non c’è tentativo da parte
dell’altro di rimanere troppo serio o composto, lei lo ammira, nel mondo dei
demoni tutto questo non è mai stato permesso.
Gli occhi gialli la scrutano silenziosamente e in loro sta una muta domanda.
- Messere, – lo saluta – posso esservi utile in qualche maniera? – ha già
superato il limite di parole concesse in una settimana probabilmente, spera che
nessuno oltre le armature la possano sentire.
- No Milady, non sono qui in cerca di favori o
richieste, semplicemente davo un’occhiata. – è la risposta
tranquilla di lui, forse un po’ troppo tranquilla perché Imperia ne sia
favorevolmente colpita; chi è il vampiro che si permette di prenderla in giro
in questa maniera?, forse gli sta concedendo un po’
troppo vantaggio.
- Vogliate perdonarmi se vi faccio notare che la vostra visita non è né
annunciata e tanto meno gradita; ditemi il vostro nome e tornate alla vostra
vita, che spero comprenderete, non è certamente la mia. –
Lui sorride apertamente, come Imperia non ha mai visto
fare a nessun altro tranne la sua immagine nello specchio in camera. Per un
istante, vorrebbe essere un vampiro e poter ridere ogni volta che ne ha voglia.
- Mi chiamo Askart Leoninus, ragazzina, e vedi di portarmi rispetto. –
Askart cambia timbro, è veloce e repentino e la demone certo non se l’aspettava. Ha fatto la voce grossa
e ora ne pagherà le conseguenze, si dice.
- Porta rispetto, vampiro, non sei certo nella condizione di dettar regole. –
- A chi porterei rispetto, ad una umile servetta? –
Imperia non capisce, dove è finita tutta quella ammirazione
di prima, quella che aveva letto nei suoi occhi gialli? Forse… forse la luce
troppo fioca gli impedisce di vedere i suoi occhi bianchi, di capire chi è, ma
è strano, pensa, molto strano, il fiuto dovrebbe
bastare ad individuare la sua essenza.
Dipende tutto dal fatto che è giovane, si dice lei, probabilmente è troppo
impegnato a discutere per ragionare con calma.
D’altra parte, ha una buona, ottima occasione per divertirsi e non vuole certo
lasciarsela scappare. Inclina la testa di lato in un leggero inchino e poi
accende nella sua mano un piccolo fuoco, che lentamente si porta al viso.
- Ebbene Askart dei Leoninus,
non credere di aver vinto con questo tuo sfoggio di vanità. – può vederlo
chiaramente, il sorriso del vampiro si è leggermente incrinato, ora lascia
spazio ad una smorfia semi comica che lei intende come smarrimento. – Se sei
convinto di aver ragione, spiegami ancora a chi ti stai
rivolgendo: la servetta si chiama Imperia Cassandra Glassharm, e ti ordina di inchinarti. Fallo! – aggiunge,
visto che Askart è talmente radicato al pavimento da
sembrare una statua di marmo con gli occhi gialli buffamente contratti.
- Io, non… io – balbetta, completamente incapace di altro. È il trionfo della demone che gongola con un sorrisino soddisfatto a
piegarle le labbra.
Tuttavia non resiste poi molto, è tempo di secondi e
lei scoppia sinceramente a ridere, divertita dalla situazione in cui si è
cacciata.
Dal canto suo, Askart è ancora più incredulo rispetto
a prima, vedere un demone ridere è quanto di più raro si possa
vedere sulla terra, stando a quello che gli è stato raccontato, eppure quella
fanciulla davanti a lui è chiaramente una appartenente a quella razza e si sta…
letteralmente sbellicando dalle risate.
Sarebbe cambiato Askart Leoninus,
passando gli anni l’avrebbero reso più acido e diffidente, ma al tempo ne aveva solo cinquanta , e una gran voglia di ridere.
Fu così che, inaspettatamente, Imperia trovò il suo primo vero compagno di
giochi, che non dimenticò mai.
Fu semplice, tra una risata e l’altra, scoprire che il giovane era giunto in quella casa spinto dalla sua infinita quanto dannosa
curiosità
Questo momento è il primo passo per accettare che, per quanto suoni strano, lei
non è più demone di quel vampiro che le sta accanto. È il primo passo verso la
morte ma anche verso la sua felicità, per quanto temporanea possa essere.
Capitolo 5
“Padre”
I want to tear out half the pages,
I want to create a different colour,
I want to roll your thoughts and smoke ‘em,
I want to crash this bitter softness
But Mr. want is dead
Elisa, Mr. Want.
Sono le sei di pomeriggio e Imperia
sta cercando di far passare la solita noiosa giornata. È trascorso quasi un
anno dal giorno in cui ha incontrato Askart, e non è
più riuscita a rivederlo, come prevedibile. La vigilanza dei suoi genitori è
aumentata in maniera direttamente proporzionale alla sua stravaganza, è normale
che lei non possa recarsi in nessun luogo senza sentire la presenza quasi
inquietante dei genitori alle sue spalle.
Ethra e Allister stanno
facendo crescere solo un lato della sua personalità, potando personalmente i
rami che non sono consoni alla demone. Via la libertà di parola, soppressa l’inconcepibile possibilità di
sorridere e quanto altro.
Imperia si sente triste, inutile negarlo, invidia ogni giorno di più il giovane
vampiro di cui ha fatto conoscenza, magari non si ricorda più nemmeno di lei.
Con estremo tedio, per una volta somiglia davvero a quello che sua madre
vorrebbe che fosse, legge la lettera che uno dei suoi numerosi pretendenti le
ha scritto.
Infatti, con grande sorpresa di sua madre che non sa
nemmeno spiegarsi tale stranezza, Imperia è favorevolmente vista da molte
famiglie di demoni che la considerano un buon partito.
Nonostante tutto, la ragazza ottiene un notevole
successo.
Suo padre conversa telepaticamente con chissà quale amico e sua madre guarda distrattamente l’aria davanti a sé, magari sta già
pianificando con mesi di anticipo quale stella far esplodere a capodanno, ne
sarebbe capace, riflette.
Lei non ha ancora ben deciso, di solito la scelta ricade inevitabilmente su un
astro piccolo come piccolo è il posto che le spetta
nella società, nemmeno ci tiene a suscitare l’invidia di tutti con un bel
botto, anche se a dirla tutta sua madre ne sarebbe contenta.
Rialza gli occhi dalla lettera con un piccolissimo sorriso al pensiero, in
ultima analisi veramente strano, di Ethra Glassharm che spalanca gli
occhi davanti alla figlia che per una volta si comporta come una demone
modello.
Poi si riscuote e scrolla la testa, è evidente che tutto ciò non succederà mai,
quindi tanto meglio mettersi l’anima (quale anima?,
pensa) in pace e tornare alla lettera di un certo banalissimo Ocean.
Suo padre adesso la osserva, gli occhi stranamente socchiusi. – Imperia, devo
dedurre dal tuo sorriso che la lettera è di un certo gradimento? – la cosa sa
dell’incredibile e lui è il primo fra tutti a stupirsene.
- No, cioè, si, magari. – la demone
aspetta un attimo per poi corrucciare il viso in una smorfia che è ben lontana
dall’essere soddisfatta. – Forse…? – abbozza sperando che il discorso si chiuda
lì.
La donna neanche li guarda, non si capisce bene se per una certa rassegnazione
che ormai si è impadronita di lei oppure per il cocente desiderio di non
tentare di strozzarla una volta per tutte come a suo
parere Imperia meriterebbe. Rimane quindi immobile, voltata di tre quarti
rispetto a loro, persa nei suoi malefici e distruttivi pensieri.
- Mi sembri triste ultimamente, Imperia. –
- Credo di essere triste da quando sono nata, padre. –
poi sobbalza penosamente e aggiunge – Non per colpa vostra, certo. –
- A volte mi sorprendo a chiedermi se tutto quello che facciamo sia giusto per…
una… una come te. – Allister sospira, sembra
combattuto e non è la prima volta.
- Una come me, padre? –
- Inutile fingere che tu sia come noi, Imperia. Il tuo modo di
comportarti, di essere, tutto indica che sei diversa,
non spiacevolmente diversa, ecco… - lui cerca di arrotondare il tiro,
inutilmente – In ogni caso, educarti come una demone normale non avrebbe senso.
–
Imperia apre e chiude la bocca a scatti alterni, troppo impietrita da quelle
parole anche solo per abbozzare una risposta che sappia
di rabbia o delusione.
Che.
Lo aveva sempre saputo, certo, non ci voleva suo padre perché lei capisse la
sua vera natura, eppure quelle parole amare sanno tanto di rifiuto e delusione
per non aver avuto un’erede in grado di sostenere il peso che le spetta.
Una cosa che dovrebbe essere accolta come una liberazione, improvvisamente le
pare come una piccola stanzina claustrofobica.
Sei.
Vorrebbe urlare ma quel poco di demone che è in lei glielo vieta,
la pietà nello sguardo di suo padre la farebbe esplodere ancora di più. Nemmeno
si accorge di essere balzata in piedi, di scatto, tanta è la furia che le
acceca la mente.
Diversa.
Lo è davvero, diversa, ma da come lo pronuncia suo
padre sembra che solo stare al mondo sia un enorme quanto incorreggibile
errore. Non le è mai importato niente, non vorrebbe
essere diversa da quello che è, eppure per una volta vorrebbe solo essere
felice.
- Forse, padre, - inizia lentamente – è ora di chiedersi se voi non mi avete
fatto crescere più diversa di quanto io sia. – la frase è quasi masticata,
tanta è la rabbia, eppure i fini lineamenti sono rilassati come sempre.
- Imperia. – la riprende Ethra, sconvolta. – Chiedi
immediatamente perdono a tuo padre. –
Lei ride e improvvisamente tutto le sembra più leggero. – Perdono, madre, che
bella parola detta da una come te. – sibila – Siete
voi a dovermi chiedere perdono per tutto quello che mi avete costretto a fare
contro la mia stessa volontà, ho quasi cento anni! Non
ho nemmeno il permesso di uscire da sola. –
La donna fa per tirarle un ceffone quando la voce di Allister, pigra, interrompe la scena. – Hai il permesso di
uscire, se lo desideri. –
- Ma Allister… -
- No Ethra, lascia. – poi si
rivolge alla demone, con studiata calma. – Forse, - dice – ho fatto degli errori con te. Sarai più libera da
oggi, ti prego solo di non essere fonte di imbarazzo
per te e tutta la tua famiglia. –
- Bene, - Imperia attende solo un attimo, poi pronuncia l’ultima sibilata
parola – padre. –
Prende la porta del salotto e la sbatte con ferocia dietro di sé, quasi che
quelle parole siano una vera e propria condanna. Sarà
fonte di imbarazzo per tutta la sua famiglia, certo,
ma non rinuncerà a fare ciò che desidera.
Per questo, nel buio della sua stanza a Glass Manor, la sua mente torna a quel progetto interrotto da Askart e dalla chiacchierata che ne era
seguita.
Dopo lunghi ripensamenti conclude che, per buona misura,
i controlli di sua madre aumenteranno ma si faranno più accorti e meno
visibili.
Se deve scegliere una giornata per scendere fra i Babbani, meglio non aspettare.
Capitolo 6
“La Corte”
Pain is Nowhere and Everywhere.
Remember this and go where you want.
Anonimo,
Vecchio proverbio.
Sono le otto di sera e la corte Leonina non è certo come Imperia se l’era
aspettata, cioè silenziosa e poco viva.
Quando invece si materializza nel centro del Salone Principale, ci sono almeno
cento paia di occhi che l’accolgono scrutandola in una
maniera che la demone definirebbe alquanto bizzarra.
Ancora una volta si chiede per quale motivo sia questa la prima destinazione
del suo viaggio; poi due occhi gialli le riempiono la mente e una risata dolce
risuona nelle sue orecchie, come se intorno a lei ci fosse solo il silenzio.
Ma forse avrebbe dovuto aspettarsi le perplessità
altrui.
Semplicemente, i vampiri che la scorgono ne rimangono abbagliati; anche se
Imperia non lo sa, sono più di 500 anni che un demone non si abbassa a scendere
nei meandri della Corte, e, in fondo, come dar loro torto, non c’è nulla in
quel luogo che possa veramente interessare elementi della sua stirpe. I gagia sono pur sempre divertenti, certo,
ma sono deboli e padroneggiano magie che Imperia conosce da quando aveva 30
anni.
Pertanto, quando la demone interrompe il silenzio che
è sceso all’interno del Salone con un blandissimo – Buonasera. -, per di più
condito da un breve sorriso, immediatamente intorno a lei scoppia quello che è
eufemistico definire un vero e proprio putiferio.
Imperia Cassandra dei Glassharm viene
osservata, analizzata e perfino annusata, cosa che un altro qualunque demone,
seppur di casta inferiore, troverebbe mortalmente offensiva, ma non si
scompone, attendendo paziente che tutti quegli occhi gialli smettano di
vorticarle intorno e decidano se può rimanere alla Corte.
Ancora non lo sa, ma è ovvio che la risposta sarà si.
Quando finalmente il Capostipite dei Leoninus scende
dal suo trono in porfido, gli occhi bianchi di Imperia
sono leggermente lucidi dall’apprensione, non può permettersi di sbagliare, lo
sa e questa consapevolezza pesa su di lei come un macigno.
- Sei una… una demone? – le chiede rispettosamente con il capo leggermente
chino per inquadrarla meglio.
- Si, ecco… mi spiace aver causato tutto questo, putiferio, insomma… -
Altri mormorii; una demone che si scusa forse è ancora
più raro di una demone che sorride. Lei è ancora parecchio confusa, possibile
che appartenere alla sua razza sia un così chiaro indice di superiorità?
Vorrebbe spiegare che lei è diversa, più… umana, ma
intuisce che tutti i vampiri che le stanno attorno hanno già compreso che non è
un personaggio qualunque.
- Ci stavamo solamente chiedendo cosa mai può spingere una tale potenza nella
nostra umile Corte. – c’è una certa umiltà nelle parole del decano
ma la ragazza sa benissimo che, sotto sotto, è
orgoglioso di quello che i suoi antenati hanno eretto e abbellito. In millenni,
- Cercavo una persona, decano… -
- Anthemas Leoninus, per
servirla, Milady, anche se non conosco il suo nome. –
- Imperia Cassandra Glassharm, Anthemas.
– è la volta del Leoninus di spalancare gli occhi con
una certa improvvisa paura, conosce Allister Glassharm per certi racconti che volano nella Corte, di
certo non è un personaggio da trattare senza precauzioni. Spera solo che la demone non sia fuggita da Glass
Manor o che, peggio ancora, il padre si convinca che
sono stati loro a rapirla.
- Una cucciola di demone, dunque. Mi giunse notizia della
vostra nascita, 90 anni or sono. Avete detto
che cercavate qualcuno, Milady, posso in qualche modo
rintracciarlo per voi? –
- Credo di si - risponde – dovrebbe essere un vostro
parente, a giudicare dal cognome… si chiama Askart, Askart Leoninus. –
Il Capostipite spalanca poco signorilmente la bocca e, una
volta ritrovata la parola, riesce a stento ad articolare una frase per
intero. – Milady, vi chiedo perdono a nome di mio figlio, se ha commesso uno sgarbo. È giovane e
non sa cosa dice, a volte. – con somma meraviglia di Imperia
si inchina davanti a lei, che improvvisamente diventa scarlatta. – No, no,
decano Anthemas! –
Lui alza il capo un po’ perplesso di vederla così in difficoltà. La demone scuote la testa e si lascia andare ad un risolino
vagamente comico, non sa bene come spiegare l’equivoco, ma tanto vale provarci.
È così che vuole essere, lontana da sua madre e da suo
padre, libera di esprimere le proprie sensazioni e forse, sotto sotto, anche un po’ riverita. – Vede, decano, lo incontrai un anno fa nella mia tenuta e ora avrei intenzione
di fargli una… una proposta, ecco. –
- Oh. – Anthemas è troppo stupito per fare qualsiasi
cosa – In tal caso lo farò chiamare. –
Passano due minuti di totale quanto imbarazzante silenzio, Imperia si sente
esposta alle occhiate ardite degli altri vampiri e mal sostiene gli sguardi
ammirati e stupiti che essi le rivolgono. Pertanto si limita a socchiudere gli
occhi bianchi e a lasciar cadere il suo sguardo verso terra, in modo tale che
non senta ancora la sgradevole sensazione che ha provato prima.
Quando sente risuonare dei passi dal corridoio di
fronte a lei, rialza lo sguardo colmo di gratitudine e vede, divertita, il
giovane vampiro avanzare verso di lei con gli occhi gialli leggermente
sgranati.
- Imperia, Imperia Glassharm. – mormora Askart. – Cosa ti porta da queste
parti? – chiede con un piccolo ghigno.
- Askart! –
- Oh, non è niente decano. Io e lui ci intendiamo
spesso così. – risponde Imperia con lo stesso tono, il mento alto a sfidare la
figura davanti a lei.
- Ah. – geme l’anziano, talmente basito da essere praticamente
ancorato al suolo.
- Allora, fredda demone, cosa mai ti porta ad avere interesse per un vampiro? –
la voce di Askart spazza via
il silenzio che si è creato, è bello vedere un volto conosciuto e, per certi
versi, è anche bello poter lasciar cadere il linguaggio su registri più normali
che non siano il Voi o il Lei. – Cercate delle esperienze nuove lontana dal
maniero? –
Ci siamo, pensa Imperia, sta tutto a lei e a come saprà giocarsi le sue
benedette carte, pertanto assume un’espressione estremamente
tediata e minimizza con una mano. – Potrei dire così, certo. Ho pensato subito
a te e visto che è sera… - butta lì casualmente - …che ne dici di fare un giro
fra i Babbani? –
Dalla faccia che tutta
- No! – esclama Askart dopo un paio di secondi. – Decisamente no! –
- Oh, ti prego, dai… che ti costa? – cerca di intenerirlo lei
assumendo un broncio di tale squisita fattezza che è davvero difficile
resisterle. Controllo Askart, controllo, pensa il vampiro, quel viso di porcellana lo sta
lentamente facendo cedere.
- No. – ripete prima che sia troppo tardi. – Dovessi
girare per i prossimi cent’anni alla Corte vestito
solo di rosso. –
Capitolo 7
“Babbani”
Here is the main thing that
I want to say:
I work 24 hours a day,
I fix broken hearts…
I’m your handy man.
James Taylor, Handy man.
Sono le dieci di sera e Imperia non sa assolutamente se scoppiare a ridere
oppure piangere.
- Forse…, - esordisce la demone dopo alcuni minuti di
silenzio – avresti dovuto puntare su un colore un po’ più scuro. Il nero ti
sarebbe stato bene. –
La luna non è particolarmente visibile e i due stanno camminando nel mezzo
della strada principale di Londra, numerosi carri passano al loro fianco
sollevando polvere e sporcizia e la gente, vestita a festa, si accalca davanti
ad un palco. Askart Leoninus
è vestito tutto di rosso, un bel rubino deciso che è assolutamente impossibile
non notare e, cosa non meno appariscente, la sua pelle bianca risalta come
fosse quella di un cadavere o di una persona senz’anima.
Non che si vada molto lontano dalla realtà, poi, pensa Imperia.
Al solo sentirla parlare la smorfia sul viso del principe si contorce in
qualcosa di veramente mostruoso: è arrabbiato con lei, furioso con suo padre e
prova al momento un odio feroce verso i Babbani,
giusto per essere imparziali e distribuire maledizioni un po’ su tutti.
- Al Diavolo. – sibila contraendo la mano destra.
- Oh, una volta l’ho incontrato. – Imperia si mette una mano sotto il
mento e alza gli occhi verso il cielo, come se stesse cercando di ricordare
qualcosa di estremamente lontano. - Mi ero persa e lui
mi ha riportato a casa. È stato davvero gentile, anche
se credo che abbia cercato di prendermi l’anima mentre
non guardavo. –
- Ma… - alita il vampiro – tu non hai un’anima. –
Lei ride di gusto, i fini lineamenti si contraggono un po’ e gli occhi sembrano
davvero sorridere. Lo guarda e in quello sguardo c’è qualcosa di vero, di vivo.
– Per questo si è accorto che ero una demone ed è
subito scappato. – ride ancora.
Il suo torace sussulta violentemente a causa dei singhiozzi, Askart non ha mai visto nemmeno una vampira
comportarsi così liberamente davanti a lui.
Su consiglio del padre i due si sono rivolti contro un incantesimo che fa
assomigliare ai Babbani, un incanto utile ma
dimenticato, chi fra vampiri e demoni avrebbe mai
avuto interesse per un mondo così lontano?
Ciononostante una natura demoniaca è ben altra cosa da nascondere rispetto ad un
essenza vampirica, pertanto Imperia ha ancora un
portamento e un aspetto decisamente superiore alla media umana.
Askart la guarda e non può fare a meno di sentirsi
abbagliato da tale bellezza: gli occhi sono di un chiarissimo azzurro che
somiglia molto al ghiaccio, e i capelli, per contrasto, sono neri e lunghi ben
oltre la vita. Sono vaporosi e ondeggiano ad ogni passo dei finissimi movimenti
di lei. È bassa, più bassa di lui, ma non si lascia
ingannare, conosce poteri ed incanti che lui non sarebbe mai in grado di
possedere, un suo gesto e finirebbe la sua esistenza, immediatamente.
In ultima analisi, Imperia non può certo ricorrere ai suoi poteri nel bel mezzo
di una cittadina umana, i suoi genitori verrebbero subito a conoscenza del
fatto e, in fondo, non odia i Babbani
così tanto da ucciderli per un motivo talmente sciocco.
Askart ha già i capelli scuri, eredità della madre
che la demone non ha fatto in tempo a conoscere, per
cui è bastato scurire i suoi occhi fino a farli diventare di un morbido color
castano. Tuttavia è pur sempre un vampiro e anche lui,
come la compagna, salta subito agli occhi.
- Cosa ci faccio, qui? –, si chiede con un pizzico di amarezza,
maledizione a suo padre e alle sue manie di protagonismo, l’ha praticamente
costretto a seguire quella ragazzina perché sa, come tutti d’altronde, che il
favore di un demone non è cosa da poco.
Specialmente se la demone in questione è erede della
fortuna dei Glassharm e degli Hiddik.
- Per farmi compagnia mentre giro in questo mondo sconosciuto. –
- Sarebbe dovuto rimanere tale. –
- Oh, sta zitto! – lo riprende Imperia, mentre lancia sguardi meravigliati tutt’attorno: è così che ha sempre immaginato il mondo dei Babbani, pieno di luci, colori e specialmente vita.
Non ha mai visto così tante persone parlare contemporaneamente e, in special
modo, con un tono di voce talmente alto da far rabbrividire qualunque regola di
buon gusto, ma non le importa, la cosa fondamentale è essere in mezzo agli
umani e sentirsi finalmente libera di essere se
stessa.
Prende Askart per mano e lo trascina verso la folla
nella piazza, vuole capire di cosa stanno parlando, magari qualcosa che la
aiuti a capire meglio le usanze di quel mondo; è talmente ebbra di felicità che
decide di abbandonare casa sua per continuare a vivere laggiù, in mezzo alla
gente.
Sorride e non ha paura di farlo, scorge un viso imbambolato che la fissa
insistentemente, per fortuna c’è Askart che, più
attento di lei, vigila costantemente sulla sua figura.
Il vampiro è giovane ma non certamente sciocco, se Imperia avrà dei problemi,
la colpa andrà sicuramente a lui.
- Askart, qui è bellissimo! – urla lei tutta rossa in volto e bella da provocare uno svenimento. – Non è
meraviglioso? – con un gesto della mano inquadra tutta la gente intorno a lei.
Lui crolla il capo con un’espressione sconvolta: il puzzo di sudore e malattia è talmente forte da provocargli un fastidioso cerchio alla
testa, tutti urlano come se stessero per morire e, come se non bastasse, una
ragazza gli si è incollata al fianco.
Poi un urlo zittisce improvvisamente la piazza e una donna crolla al suolo,
scossa da tremiti. Askart prende la mano di Imperia e la tira forte verso di sé, la demone urta
contro il suo petto e rimane schiacciata contro di lui, tutti sensi all’erta.
- Sta morendo! – grida una voce.
- Una cura, presto! – strepita un’altra.
Imperia solleva cautamente il volto verso il vampiro. – Askart,
io so curarla. Concedimi di salvarle la vita. –
- Non se ne parla nemmeno. – sibila lui in risposta.
–Vuoi che scoprano tutti i tuoi poteri? Sarebbe un gesto troppo avventato. –
- Ma sta morendo, Askart! –
lo supplica lei, gli occhi stranamente lucidi. – Lasciami
provare, almeno, starò attenta. –
- Non è affar nostro, Imperia. – conclude
voltandosi verso la periferia del paese. Cammina trascinandosi dietro il peso
recalcitrante della demone che, afflitta, continua a
scrutare dietro le sue spalle.
- Scusami. – la sente mormorare. – Scusami Askart. -
Il vampiro avverte una fastidiosa luce che si avvicina e poi più niente. Quando si riprende, un minuto più tardi, il rumore della
piazza è solo un ricordo. Ora sono tutti chini verso le figure della donna a
terra e di Imperia, che la sostiene curandola: il suo
gesto è semplice quanto intuitivo, le passa una mano sul petto, come se fosse
un massaggio, riuscendo a mascherare i gesti necessari per l’incantesimo
curativo.
Askart lancia un paio di imprecazioni
e poi si avvicina alla folla a passo di marcia. Si ferma solo a pochi metri da
lei, quella demone che in breve tempo gli ha
scombinato la giornata, con quel suo viso perfetto e gli occhi bianchi
attraversati da lampi di vita.
Imperia sorride e lui capisce quel sorriso: solo qui lei è libera di parlare e
sfogarsi come la sua bizzarra natura ha predisposto per lei. Altrove, nel suo
maniero, è solo e sempre infelice.
Sono passati pochi secondi e già la donna si sente sensibilmente meglio, il
volto ha più colore e si permette persino un sorriso.
Che in pochi secondi si trasforma in un urlo. Un
soffio di vento ha spinto via dal capo di Imperia il
cappuccio del mantello, e i capelli bruni si librano in aria come mossi da vita
propria.
Solo allora il vampiro nota qualcosa che non aveva notato
prima. Tutti i cittadini hanno si capelli scuri, ma
nessuno ha occhi meno chiari di un bel verde foresta.
Quelli di Imperia, chiari come solo il ghiaccio può
essere, rappresentano una chiara quanto spaventosa anomalia.
- Una strega!! – urla la donna – Ha tentato di
uccidermi per poi salvarmi, vuole conquistare la nostra fiducia. – poi
gattonando si allontana dalla demone, che cerca
inutilmente di aprire bocca.
- Strega! – fa eco un uomo.
- Diversa! -
- Demonio! – dice un altro ancora, e in meno di un minuto la via della
tranquilla cittadina si trasforma in un putiferio. Solo per miracolo Askart riesce a spintonare tutti lontano da Imperia che, in
lacrime, giace seduta per terra a capo chino.
- Imperia, andiamo via! – le afferra un lembo del
vestito e entrambi si smaterializzano via. Le urla
della cittadina rimbombano ancora nelle loro orecchi,
richieste di morte e accuse di diversità che la demone non può sopportare.
Sa di essere al sicuro a pochi metri dalla Corte, in piena foresta, si sente
spaurita e, cosa che ormai le è familiare, infelice.
- Perché, Askart, volevo solo aiutarla… - mormora
stringendo forte la casacca del vampiro, mentre mille lacrime le rotolano lungo
le guance. – Io non volevo ucciderla. –
- Lo so Imperia, devi capire che… -
- Certo, ho capito. – lei si tira in piedi con un gesto fluido e misurato, ha
un’espressione distante che l’altro non le ha mai
visto addosso. Quella sera è l’ultima volta che la vedrà piangere. – Ho capito
che, ancora una volta, io sono solo quella che è diversa. –
- No, aspetta… -
- Non cercherò più di essere quello che voglio. Ho
sofferto abbastanza. – con un breve gesto di saluto si allontana nei boschi,
l’amara consapevolezza di chi, ancora una volta, ha iniziato una gara non
essendo in grado di vincerla.
Capitolo 8
“Silenzio”
Now just let me sleep,
I don’t wanna talk
Have nothing nice to say.
Don’t wake me up too soon
I don’t want to see the world
I need to be no-one
All I want is just to be.
Elisa,
Sleeping in your hand.
Sono le due di notte e il silenzio che avvolge la camera di Imperia
non le è mai parso tanto derisorio quanto oggi, solo i quadri la guardano con
un’aria mista di comprensione, Irene di Bisanzio, in
particolare, non ha occhi che per lei.
La demone non riesce a sostenerne lo sguardo, si sente
stanca e per la prima volta il freddo che le alberga dentro non pare tanto
sgradito; forse sua madre ha sempre avuto ragione su tutto.
Che senso ha opporsi alla sua stessa natura quando
questa è più forte di lei?
Si lascia cadere sul letto socchiudendo gli occhi che ora sono tornati bianchi,
con una mano prende una ciocca di capelli biondi e la strattona un po’.
Nemmeno cambiare è servito a qualcosa.
- Anche io – una voce interrompe le sue riflessioni – sono stata come te. –
Imperia scatta a sedere. – Chi ha parlato? –
- Sono stata io. –
La ragazza fa vagare lo sguardo per tutta la stanza ma non all’altezza esatta,
quando capisce che deve alzare lo sguardo, la demone
ritratta nel quadro è parecchio spazientita.
Irene di Bisanzio piega la bocca in una smorfia
retaggio della vita passata, i capelli sono scuri e gli occhi di un bel verde
brillante, non è mai stata abituata ad attendere e anche ora che è morta il suo quadro conserva quella caratteristica.
- Irene…? – in tutti quei novant’anni di vita non
l’ha mai vista parlare.
- Oh ti prego, Irene è solo per coloro che mi rispettavano come regina. Il mio
nome è Aethaer Wiselfort. –
- Credevo che Irene fosse il tuo vero nome, mia madre ti ha sempre chiamato
così. –
- Questo perché ho operato una magia nelle menti di tutti quegli sciocchi
demoni che vivevano contemporaneamente a me, cancellando il mio nome dalla loro
memoria. – dice il ritratto, sventolando una mano nel gesto di chi,
ancora una volta, racconta qualcosa di estremamente
noioso.
Imperia, al contrario, trova la cosa parecchio interessante. – Fammi capire… - esita – tu sei riuscita ad operare nella
loro… testa? Credevo che fosse impossibile. –
Irene di Bisanzio, primogenita dei Wiselfort, si lascia andare ad una risata che sa tanto di
derisione verso tutti coloro che ascoltano. –Sbagliato
mia cara, è impossibile finché nessuno ci prova. L’ho sempre detto
che noi demoni non tendiamo mai a migliorarci. –
- Quindi nessuno aveva mai tentato una simile magia e,
per questo, essa è stata ritenuta impossibile da praticare? È questo che mi
stai dicendo? –
Lei annuisce – In un certo senso è proprio quello che tutti desiderano, continuare
a vivere la loro piatta vita lasciando che essa scorra senza sobbalzi ed
imprevisti. –
- Me ne sono accorta. – mormora Imperia, abbassando gli occhi. – Nessuno mi
lascia fare quello che vorrei e, in un certo senso, anche il mio desiderio mi
ha deluso. –
Irene annuisce in maniera buffa, e Imperia capisce immediatamente che la sta
prendendo in giro.
- Semplicemente perché stai sbagliando tutto, ragazzina.
–
- Ho quasi cento anni. – sibila Imperia in risposta,
aggrottando le sopracciglia fino a che quasi queste non si incontrano.
Aethaer la osserva e poi scoppia a ridere. – Quando
sono morta ne avevo circa milletrecento, direi che
posso rivolgerti ogni appellativo che io desideri. –
La demone scrolla la testa e le fa cenno
silenziosamente di proseguire.
- Dicevo, cara, sai perché me ne sono andata da questo mondo? – Imperia scuote
il capo, non lo sa, quella del soggetto del quadro è una storia proibita nei
suoi ambienti, il motivo per cui è impossibile
raccontarla non è nemmeno molto difficile da capire.
- Perché avevo sete di potere e questo universo non poteva soddisfarmi. Così
sono scesa fra gli umani e ho manipolato le loro menti
fino a che essi non mi hanno creduto figlia di re e regine mettendomi sul
trono. Ho ucciso mio figlio perché egli non provasse il dolore di essere diviso
tra due mondi. Diverso fra i demoni e diverso fra gli umani,
anche se di certo loro non potevano saperlo. –
- Che differenza c’è, allora, fra la tua e la mia
storia? –
- Che tu pretendi di trovare nel mondo dei Babbani
una parvenza di felicità, quando è chiaro che nessun universo può offrirti
quello che cerchi. –
Imperia sbatte gli occhi perplessa, non capisce il
ragionamento di Aethaer. – E
allora? Tu cercavi ricchezza e potere sugli altri. Perché tu si
e io no? –
- Sei una ragazzina testarda e molto sciocca. – la
ammonisce il dipinto.
- Non capisco!-
- Io avevo bisogno degli altri per soddisfare la mia voglia di potere, tu non
hai bisogno di persone per essere felice, sei pur sempre una
demone, dannazione! – sbotta la donna, prendendo a camminare per tutti i
quadri della stanza, sfrattando altri demoni e facendo sobbalzare alcuni
animali. – O meglio, non sarà certo il cambiamento, che ti
renderà felice. –
- Mi stai dicendo di comportarmi da demone fuori e da me stessa dentro? –
- Finalmente ci sei arrivata, pensavo di doverti
urlare tutto per farti capire. Sii ineccepibile nei
modi e nel comportamento, ma dentro non impedirti di ridere quando qualcuno
dice o fa qualcosa di sciocco. Prova qualcosa di nuovo senza cercare il confronto
e il conforto di altri. – dice. – Ma soprattutto, non far si
che il tuo desiderio si impossessi di te come mi successe. –
Imperia leva il capo di scatto, boccheggiando. – Per questo… sei morta? –
- Già. Avrei potuto sparire fingendo la mia morte, ma
non sarei stata la benvenuta nel mondo che avevo abbandonato, e così avrei
dovuto passare la mia eternità a comandare formiche in qualche eremo lontano. –
- Triste. – commenta solo la giovane demone,
continuando a guardarla.
- Già. – mormora nuovamente Irene di Bisanzio. – Ora
ti saluto, devo conferire con altri dipinti riguardo
alla tua scelleratezza di questa notte. –
- Cosa? – Imperia salta su dal letto, spaventata. –
Come fai a saperlo? –
La donna non impedisce ad un risolino ironico di piegarle la bocca. – L’odore,
avventata creatura. Si sente puzza di Babbani
fino a qui, ti consiglierei di fare un bagno. –
Poi senza un saluto né altro, sparisce dal suo dipinto inoltrandosi in chissà
quale angolo della casa.
- Oh, grazie. – geme Imperia salutando il vuoto.
Da quella sconclusionata conversazione ha tratto un paio di spunti
interessanti, tanto che per il momento il pugnale dentro al
diario rimarrà al suo posto, ci sono ancora almeno mille anni per
utilizzarlo, pensa la ragazza, avviandosi sconsolata verso il bagno.
Capitolo 9
“Festa”
That's all they really want
Some fun
When the working day is done
Girls-- they want to have fun
Oh girls just want to have fun
Cyndi Lauper, Girls Just Want to have fun.
Sono le nove di sera e Imperia non ha
ancora deciso che abito mettere. Sua madre deve aver supposto che a duecento
anni lei fosse in grado di indossare un abito
piuttosto che un altro, specialmente da quando, un secolo prima, pareva aver
perso ogni sussulto di anormalità che l’aveva contraddistinta.
Ethra degli Hiddik era
letteralmente rimasta senza fiato quando l’aveva vista
partecipare ad ogni cena ed evento mondano senza proferire parola, lamentela o
battuta ironica che fosse, e specialmente quando a Capodanno aveva fatto
esplodere una bella stella rossa in una miriade di sotto sistemi luccicanti.
Imperia è soddisfatta di sé, in un certo senso, è riuscita a mascherare i suoi
bisogni semplicemente smettendo di dichiarare la sua diversità come fosse qualcosa di unico e prezioso, come un dono che agli
altri demoni, cechi per loro stessa volontà, era stato precluso.
Sobbalza leggermente quando sente provenire una
risatina dal quadro al centro della parete, sopra la testata del letto, lei ha
voluto farlo spostare lì cosicché la notte, anche solo emettendo un flebile
fiato, Irene di Bisanzio possa subito sentirla e
chiederle cosa non va.
In un certo senso Aethaer Wiselfort
assomiglia più a un’amica che ad una madre, ma se
tempo prima Imperia aveva avuto la chiara percezione di quale figura il
ritratto assumesse le mansioni, ora è abbastanza confusa, quel limite che
separa il consiglio da un ordine spesso valicato senza che se ne accorga.
- Perché ridi, Irene? –
- Io non rido, sogghigno. Ridere è qualcosa di
assolutamente indegno, credo che tu lo sappia; d’altra parte, non che tu sia
mai stata una demone particolarmente ligia al tuo
dovere. –
- Stai parlando di qualcuno morto cento anni fa. – proferì lentamente la
festeggiata – Ad ogni modo, per quale motivo sogghigni? –
Il ghigno di Aethael si
stende lentamente sulla superficie della tela, i colori mutano di intensità per
creare nuove ombre sul suo viso, e i suoi occhi, all’ombra dei capelli, si
colorano di un bianco latte leggermente più scuro del solito. – Pensavo, –
disse – che questa festa è stata organizzata per trovare un demone adatto a
diventare tuo sposo. –
Imperia solleva gli occhi dai quattro vestiti davanti a lei, scrutando per
qualche istante la donna. – Lo so benissimo, grazie. –
- Così – prosegue l’altra, imperterrita, dando segno di non aver udito la frase
sputata della giovane – mi sono ritrovata a riflettere
che non c’è davvero speranza. Dovrebbero scegliere due mariti invece di uno. –
- Posso sapere il perché? – s’informa educatamente Imperia.
- Certamente. – fa Irene, sempre con quel particolare sorriso, no,
sogghigno, a contorcerle i tratti del volto – Ce ne sarebbe bisogno di uno
fortemente stupido per sposare la persona noiosa che fingi di
essere, e di uno altrettanto pazzo per sposare quello che realmente sei.
–
Imperia considera la frase per un abbondante minuto prima
di rispondere. – Mi stai forse cautamente suggerendo di non trovarmi un marito,
almeno per stasera? –
- Precisamente. – dice la donna, scuotendo affermativamente il capo. – Per le
altre feste c’è tempo per inventarsi qualcosa, ma questa è veramente comparsa
tra capo e collo. Temevo di non vederti più. – la sua voce è talmente tediata
che non sembra le importi poi davvero tanto di quello
che sta dicendo. – Se non altro dimostri una certa
intelligenza; altrimenti, ti avrei dato per spacciata. –
- Grazie. – mormora tetra Imperia, cercando di
dimenticare quello che le è appena stato detto. Forse Irene ha ragione, lei non
è adatta per un matrimonio che, considerati i possibili candidati, le
garantirebbe di certo una minore libertà rispetto a quella che la ragazza è
andata costruendosi faticosamente in cento anni di menzogne e frasi cortesi
pronunciate senza altra aspettativa che la ricompensa
di poter, dopo, lasciarsi andare sul letto in camera e cominciare a chiaccherare con Askart senza la
sorveglianza di Ethra.
Eppure sa che dimostrarsi restia alla compagnia di anche un solo pretendente
farebbe scattare un sensibile allarme nella testa della madre, che
immediatamente comincerebbe a rivolgerle domande fastidiose ed umilianti.
Ethra non si è mai scomodata per un suo bisogno,
eppure quando c’è di mezzo la sua rispettabilità si affanna intorno alla figlia
sommergendola di consigli e notizie; suo padre, pur non raggiungendo simili
traguardi, ha una certa predisposizione nel capire i suoi desideri e nel
reprimerli con altrettanta felicità.
- Comunque credo che mi divertirò un sacco. – esclama
la voce di Irene – Non assisto ad un ballo da molto
tempo. –
- Invece di fare inutili congetture quando sai benissimo che devo relazionare con gli ospiti, pensa a che vestito potrei
mettermi, considerato che sono in ritardo di ben dieci minuti. –
Il quadro sbuffa sventolando una mano, come a voler minimizzare, sembra quasi
che gli occhi della demone dicano “Rovini sempre
tutto”, mentre la smorfia sul viso è chiaramente seccata.
- Non quello bianco, chissà a cosa pensava tua madre quando lo ha fatto
confezionare, sembreresti una palla di neve con quei capelli dannatamente
chiari. Per altrettanti motivi scarterei il nero, molto misterioso se devi
conquistare qualcuno ma ti ricordo che cerchiamo di
ottenere l’esatto opposto. – proferisce con tutta calma,
mentre Imperia, impaziente, saltella da un piede all’altro. – Quello
rosa ti farebbe sembrare una bambolina perfetta ed impeccabile, ci sono almeno
dieci giovani demoni che cercano una pezza da pavimento al posto di una moglie,
lo scarterei subito. Quello grigio non mi piace. –
- Beh, - mormora la demone seduta sul letto con aria sconsolata, ha i piedi che
cadono sul tappeto e le braccia appoggiate dietro alle reni,
per rimanere in equilibrio. – direi che ne è rimasto
solo uno. –
Entrambi gli sguardi delle donne si posano sull’unico vestito rimasto adagiato
sul letto, gli altri sono già stati fatti sparire, è di un azzurro chiaro ma
intenso.
- Provalo. – suggerisce Irene, e Imperia l’accontenta.
Quando si rimira allo specchio c’è semplicemente una giovane
demone dai capelli chiarissimi, lisci, che ricambia il suo sguardo
leggermente spaurito. Irene ha scelto bene questa volta, pensa lei, osservando
l’abito: ha una bella scollatura a V sul davanti, e le due maniche sono
costituite da veli impalpabili di tessuto sottilissimo, trasparente, anch’esso azzurro.
Il corpetto termina appena sotto il seno con una riga di tessuto blu, e la
gonna, in stile impero, cade dritta sul davanti, una sovrapposizione di tessuti
semi-trasparenti di varie sfumature indaco, per poi chiudersi in un leggero
strascico dietro.
Raccoglie i capelli mentre un’idea le affolla la
testa, insidiosa. Apre un portagioie ed estrae i gioielli che suo padre le ha regalato tempo prima: sono semplicemente stupendi,
acquemarine dalle sfumature vive ed intense legate fra loro da un nastro
argento coi ricami in nero.
- Cosa fai? – sbotta Irene – Così attiri solo
l’attenzione. –
- Proprio quello che ho intenzione di fare. – risponde
con tono sibillino Imperia, una vago sorriso ironico
ad aleggiarle sulle labbra e gli occhi lucidi, come sempre quando trama
qualcosa.
Mentre si chiude la porta alle spalle, incurante dei borbottii del quadro, il
piano è già delineato nella sua mente: vogliono una
moglie solo per portarsela a spasso, così le aveva detto Irene.
Molto bene, pensa Imperia, si troveranno davanti qualcuno superiore a loro in
tutto, che li spaventi talmente tanto da indurli a desistere. È semplice ma efficace, sa bene come ragionano i suoi
coetanei.
Non come Askart.
Peccato che lui non possa proprio presentarsi qui, si dice affranta la ragazza.
Quando tuttavia sente la musica farsi più vicina, quel
pensiero sparisce immediatamente dalla sua testa, sostituito da qualcosa
di più urgente.
Vogliono la mia vita e sputeranno sangue per averla.
Il ghigno che le deforma le labbra non è certo il suo solito sorriso gentile, ma bensì qualcosa di estremamente pericoloso che solo Irene
ed Askart, in quanto suoi amici, sanno riconoscere
come tale.
La smorfia di chi si sente minacciato e aspetta solo un cenno
per attaccare e salvarsi.
Se fosse un essere umano combatterebbe per preservarsi
l’anima, ma in mancanza d’altro, c’è pur sempre la propria libertà da
difendere.
Capitolo 10
“Caesar”
Can anybody find me somebody to love?
Each morning I get up I die a little,
Can barely stand on my feet.
Take a look in the mirror and cry,
Lord, what you’re doing to me?
Queen, Somebody
to love.
Sono le dieci di sera e Imperia sospira.
Si era aspettata una marea di gente silenziosa e composta, ma è ben evidente
che la situazione sfugge decisamente al controllo dei
padroni di casa. Il vociare è talmente forte che per un attimo Imperia si
chiede se tutti i demoni presenti nella Sala non siano stati
sostituiti da babbani, in ultima analisi tutti i
pretendenti che aveva precedentemente incontrato avevano fatto sfoggio di un
silenzio a dir poco tombale.
- Oh! – si lascia sfuggire nell’osservare intorno a sé persone mai viste, volti
sconosciuti che le sorridono elegantemente, forse strabuzzando un po’ gli
occhi, la demone ci mette un attimo a capire il motivo
di tale gesto, poi comprende: sta sorridendo.
Sii superiore, si dice, ne va della tua salvezza.
- Imperia, cara! – la giovane volge il capo per osservare suo padre che,
disperato seppur impassibile, corre verso di lei in una leggera cadenza
trottata.
È buffo, pensa lei. Non ha mai considerato suo padre
come un demone buffo.
- Padre. – lo saluta, inclinando leggermente il capo.
- Sei molto elegante, - annuisce lui, poi sussulta brevemente, Imperia ne è sicura, non l’ha mai fatto in sua presenza. – ma temo che questa festa possa essere poco gradevole per te.
–
Imperia Cassandra Glassharm lascia che il suo sguardo
accarezzi l’intera area del Salone, incrocia per un attimo gli occhi ridenti di Irene, poi passa oltre, al tavolo del rinfresco ci sono
demoni intenti a sorseggiare un liquido ambrato – il nettare degli dei,
sicuramente -, mentre alcuni parlottano tra loro, sogghignando.
Poi nota quello che suo padre aveva cercato di
nasconderle col suo corpo: c’è come una linea di separazione nella Sala, da una
parte sua madre circondata da silenziosi giovani, e dall’altra un confuso
sciamare proveniente appunto dal tavolo del buffet.
Vicino a questo sta Lord Demetrius insieme alla
compagna di un giovane che, improvvisamente, si mette una mano sulla bocca ed
inizia a ridere.
È bello.
La consapevolezza di quel pensiero si fa sempre più chiara mano
a mano che lo osserva.
Non ha mai creduto che un demone potesse suscitarle tali pensieri, dei mille e
più che è stata costretta ad incontrare, nessuno può vantare una simile
reazione nella mente di lei.
Imperia è così fresca, ingenua a volte, che istintivamente pensa che
desidererebbe che fra loro ci fosse qualcosa; in fondo, è giovane e può
permettersi di tentare.
Infine alza la testa ad incontrare il viso del padre e schiocca la lingua,
lasciandolo per un attimo in attesa. Infine ghigna
brevemente – Non ne vedo il motivo, padre. D’altronde,
devo pur trovare un fidanzato che mi sia congeniale, e
non capisco perché non andare a cercarlo in questa festa. È questo lo scopo,
giusto? –
Allister Glassharm la
congela con lo sguardo, in tensione. È stato messo con le spalle al muro da una demone di duecento anni, se non lo sapesse impossibile,
arrossirebbe. – D’accordo. – borbotta – Ma vedi di non
deludermi. –
- Come sempre, padre. – risponde lei chinando il capo in un gesto umile che sa
di derisione e sberleffo. Non smette di sorridere nemmeno per un istante.
- Bene. –
- Perfetto. – sottolinea Imperia mentre si allontana.
– Davvero perfetto. – ripete scoccando un gesto d’intesa al dipinto che ancora
sogghigna da due minuti prima. Irene di Bisanzio china il capo in un gesto di assenso.
Le basta scrutare un’ultima volta l’ambiente per decidere immediatamente dove
dirigersi: così s’incammina alla sua destra, verso il buffet,
immergendosi all’interno di una marea vociante a lei fino ad ora sconosciuta.
Sente lo sguardo penetrante di Ethra
che le brucia la nuca, ma non si scompone e continua ad avanzare, fino a
giungere davanti ad un duo di demoni che sghignazzano fra loro.
Questi, sentendosi osservati, spostano lo sguardo su di lei, che subito,
nonostante le buona intenzioni, comincia ad arrossarsi
in zona zigomi.
- Buonasera. – dice. Si sente troppo umile ed immediatamente rialza la testa,
spostando indietro le spalle, come sempre quando si sente vulnerabile. –
Cercavo proprio voi. – butta lì, con noncuranza.
- Ah si? – risponde quello che pare avere la sua stessa età, ha occhi
ovviamente bianchi e capelli finissimi, albini. – E
per quale motivo? –
- Caesar! – borbotta l’amico al suo fianco, posando
poi lo sguardo su Imperia. – Lo scusi, signorina Glassharm.
–
La giovane ruota lentamente il capo verso il più giovane, beandosi per un breve
istante della sua aria smarrita, lo sente borbottare un – Ah! – nemmeno troppo
convinto.
- Di nulla. – ghigna compiaciuta. – Piuttosto salve, Lord Demetrius.
– aggiunge dopo una pausa infinitesimale. Non osserva l’altro, che ha capito
essere Caesar Noah Cameron, nemmeno per sbaglio. In realtà vorrebbe, ma si sa,
l’orgoglio a volte fa brutti scherzi.
- Dimitri andrà benissimo; piuttosto, vi ritenevo
ormai perduta nella rete senza uscita dell’alta società. – rise facendo una
smorfia – Devo dedurne forse che avete trovato un buco
nel sistema? –
Quel modo di parlare del mondo in cui è cresciuta la
fa scoppiare piacevolmente a ridere sotto l’occhio stranito del terzo demone,
che ancora continua a fissarla di sottecchi. – Mentire ogni tanto fa bene alla
salute, pensavo lo sapessi, Dimitri. –
Lo ha conosciuto anni prima, durante una cena di Capodanno, mentre cercava un
po’ di riposo dalle chiacchere stordenti delle sue compagna. Lui era seduto sulla balaustra che dava
sul mare, e, trovandosela improvvisamente di fianco, aveva immediatamente
capito tutto.
Pareva che con una sola occhiata avesse inteso il suo profondo disagio
interiore, forse lo stesso che tempo prima aveva provato anche lui; perciò le
aveva sorriso, e da quel gesto si erano poi trovati a parlare dei propri sogni
e aspettative.
Così era iniziata una sorta di amicizia basata più su
sguardi, che veri e propri discorsi.
Lui scrolla le spalle in un gesto che lo fa apparire sgraziato ma che si rivela
quanto mai efficace. – In effetti si, anche se il dire
bugie è un’attività che preferisco lasciare al ragazzino. – borbotta. – A
proposito, Imperia, lui è Caesar Cameron.
–
- L’avevo capito, - afferma lei – la sua boria è riconoscibile a metri di
distanza. –
Dimitri sghignazza senza ritegno mentre l’altro non
trova nemmeno qualcosa di abbastanza offensivo da rispondere, rimanendo così
senza fiato. – Stupida mocciosa. – sibila poi – Dovresti
solo cercarti un marito stasera, non importunarci con le tue stupide battutine.
–
- Appunto, - sibila lei – ero appunto venuta per questo. – poi lascia che un
terribile, lento sogghigno le si apra sul viso
diafano, alzando il mento in un tacito gesto di sfida, lui le ha fornita
un’occasione unica di realizzare ciò che prima aveva solo pensato. – Ma devo dire che ho già scelto: ti piacerebbe sposarmi, Caesar Noah Cameron?
–
Dal silenzio che è improvvisamente sceso nella Sala
Imperia deduce rapidamente due cose: la prima è che, mentre lei si lasciava
andare alla conversazione, parecchie orecchie indiscrete si sono avvicinate per
ascoltare i loro discorsi; la seconda, immediatamente conseguente alla prima, è
il ricordarsi che nel Galateo sono i demoni a chiedere la mano al padre della
giovane, e non viceversa.
Fa saettare velocemente lo sguardo verso Irene e la smorfia che le vede
stampata sul volto vale mille volte più del valore di tutti i gioielli che
possiede: probabilmente se la demone non fosse morta,
Imperia sarebbe già caduta al suolo, come minimo svenuta, a causa dello sguardo
dell’altra.
Ha perso il controllo e lo sa benissimo, non avrebbe dovuto
lasciarsi prendere dalla discussione e tantomeno non
avrebbe dovuto dare spettacolo. Ma visto che ormai il danno è fatto, ha tutta
l’intenzione di divertirsi un po’ prima del cataclisma che le
si avventerà contro.
Afferra il braccio del giovane e lo strattona verso la balconata, visto che al
momento Caesar non sembra avere alcuna
intenzione di muoversi. – Lo porto un po’ via, Dimitri. – mormora
allegramente.
La sigaretta che il demone si era precedentemente acceso
gli pende dalle labbra ormai prossima a cadere, mentre la cenere della stessa
ha ormai formato una piccola macchia a terra. Gli occhi bianchi sono ancora sgranati quando biascica un – Prego, fai pure. – che gli pare pura follia.
Una volta fuori lui l’aggredisce, fuori di sé – Ma ti
si è completamente fuso quel poco cervello che avevi in testa? Sai che diavolo hai combinato, dicendo quella frase? È come se ora io e te fossimo davvero sposati! – urla spalancando le braccia.
Imperia nota che è arrossito, non certo per la rabbia, pensa, è altamente improbabile; rimane lì a fissarlo per un po’,
completamente il silenzio, cercando di capire che cosa gli abbia preso: non è
normale per un demone esternare tutta quella furia.
Poi forse, improvvisamente, capisce.
La sua è un’intuizione che ha ben pochi riscontri nella realtà, eppure, sente
che ciò che dirà corrisponde al vero.
- Io ti piaccio. – dice semplicemente, a bassa voce, non preoccupandosi di
rispondere alle sue precedenti esclamazioni. – Per questo sei venuto qui. Perché io ti piaccio. –
Sulle prime pensa che lui salterà in aria e ricomincerà a
urlarle contro, perché il suo viso, prima paonazzo, è ora completamente
congestionato. Apre la bocca e la richiude, svariate volte, prima di riuscire
ad articolare qualcosa.
- Si. – mormora, e finalmente Imperia capisce: prima quel
rossore era semplicemente… timidezza? – Sei contenta,
ora? Mi hai umiliato a sufficienza? Sono anni che partecipo ad ogni tua festa, ma tua madre ti ha dirottato ogni volta lontano da
me. È abbastanza? –
Imperia ride, e Caesar improvvisamente ammutolisce.
Negli occhi bianchi della demone scorge qualcosa che
non credeva fosse possibile: vita, forse anche un briciolo di speranza. Si
chiede che razza di demone sia.
Rimane a fissarla negli occhi fino a che lei, accorgendosene, non smette di
ridere, improvvisamente, cominciando invece a mordersi con dedizione le labbra.
- Senti, - comincia Imperia – non volevo prenderti in giro, cioè…
quando ti ho visto ho pensato che sei bello. –
Il suo carattere le impedisce di mentire se non a sua madre o a suo padre, lei è diretta e non può fare a meno di esserlo
anche se a volte, per questo, prova dolore.
Ma quando inizia a parlare, velocemente, c’è una
piccola speranza ad animarle la voce. – In fondo, cosa costa provare? Lo so,
aspetta, non ti conosco nemmeno, potremmo risultarci
insopportabili dopo pochi giorni appena, magari non ti piacerà nemmeno… che so,
baciarmi! Ma nessuno lo verrà mai a sapere questo,
vivremo insieme e avremo interessi diversi, se preferisci potremmo non
incontrarci mai, stare in ali separ –
- Solo per questo, dunque? Me lo hai chiesto solo per avere finalmente la tua
libertà? –
Imperia sbarra gli occhi e, silenziosamente, china il capo verso terra; non
avrebbe senso mentire: se proprio deve sposarsi, è necessario farlo con
qualcuno che le possa garantire delle libertà, seppur minime.
La verità è che lei vorrebbe solo essere felice.
- Io vorrei solo essere felice. – mormora – e per
essere felice non posso vivere rinchiusa in una casa come se fossi solo una
serva. Vorrei che capissi solo questo. –
- Quello che hai fatto non ha senso. –
- Quasi tutto quello che faccio non ha senso. – ride lei, con una certa
amarezza nel tono. – Quindi, nemmeno questo. –
Caesar tace per lunghi istanti, il
suo cervello ragiona velocemente.
Imperia gli piace, come negarlo, ma ha solo duecento anni, è troppo presto per
essere sposato; ma in fondo, quello che lui cerca è solo libertà dai suoi
genitori.
E chissà mai che questo assurdo matrimonio non glielo
permetta.
- Ehi. – la chiama – Accetto solo se non le dici a nessuno, le condizioni,
intendo. –
La giovane rialza il capo di scatto e lo fissa, sorpresa. – Dici sul serio? –
- Mh… ammesso che tu sia veramente sicura. –
Lei pare confusa, sul momento, non avrebbe mai creduto
che uno scherzo innocente la portasse fino a quel punto. – Non mi chiuderai in
casa? –
- Certo che no. –
- E non ti offenderai se… non ti piacerà baciarmi? – chiede arrossendo
furiosamente, come forse nemmeno un essere umano saprebbe fare.
- No. -
- Ah. –
Rimangono alcuni istanti in silenzio, la luna brilla sopra di loro e un paio di
rumorosi pipistrelli schiamazzano volando da un ramo
all’altro.
- Senti, accettare è una delle cose più stupide che io abbia mai fatto. – dice
lui. – Non ti amo, capisci? Nemmeno ti conosco. –
- Certo. –
- Però… -
Lei, che nemmeno lo ha fissato, ora alza lo sguardo per capire come mai non
abbia terminato di parlare, e lo trova inaspettatamente vicino; non lo ha
nemmeno sentito avvicinarsi.
- Cosa… cosa c’è? –
- Almeno di una cosa devo sincerarmi. – sussurra lui.
- Ah…- ripete lei. – E di cosa? –
Caesar aspetta un attimo per parlare, godendosi i
suoi occhi lucidi e le gota arrossate, quindi sorride
con un largo ghigno. – Devo capire se proprio mi fa così schifo baciarti. –
Così, mentre Ethra si metteva simbolicamente le mani
nei capelli, Imperia ebbe finalmente la sua libertà.
E quel pugnale, in camera sua, sparì per molto, molto tempo.
Capitolo 11
“Sogno”
I'm not a girl
Not yet a woman
All I need is time
A moment that is mine
While I'm in between
Britney Spears, I’m not a girl, not yet a woman.
Sono le nove di mattina
quando Caesar Noah Cameron viene destato dal suo sonno con un grido che gli
pare perfori anche le robuste pareti del suo maniero.
Con un fremito pensa che se è successo qualcosa ad
Imperia non se lo perdonerà mai, così corre come un disperato fino alla porta
del suo Salotto e spalanca la porta, facendo irruzione.
Tre istanti dopo è asfaltato al suolo, con un piede
intrappolato tra i fili di quello che riconosce essere un manufatto babbano. Impreca e non ha decisamente
timore di farlo.
- Oh accidenti, Caesar, lo hai spento. – la voce di Imperia, comodamente sdraiata sul divano, ha
l’incredibile potere di metterlo, ancora una volta, di buon umore.
- Una volta per tutte, spero. – ringhia lui, rialzandosi con una certa,
strascicata lentezza, il tutto per poterla osservare attentamente nascosto dai
suoi stessi gesti.
- Ovviamente no. In linguaggio babbano,
hai appena staccato la spina, inciampandoci. Niente a cui non si possa rimediare. –
- Dannazione. – grugnisce lui. – Piuttosto, tutto bene?- chiede, apprensivo.
Imperia Cassandra Glassharm Cameron
lo guarda come se avesse appena annunciato di amare
tutti i babbani. – Ma si,
certo caro, cosa vuoi che sia successo? –
- Ti ho sentito urlare. –
Passa un attimo in cui le labbra di Imperia si tendono
nell’ultimo, solenne sforzo di non scoppiare a ridere. – Oh Caesar,
vieni qui. – mormora come se si
stesse rivolgendo ad un bambino.
Lui, seppur diffidente visto il sadismo della moglie, si siede accanto a lei
sul divano; subito Imperia gli prende la testa fra le mani e se la poggia sul
seno, sospirando. – Era la televisione ad urlare, non io. –
- Ah. E cosa sarebbe? –
Lei ride e gli indica con un dito la scatola cubica davanti a lei. – Quella che tu hai provvidenzialmente spento qualche istante fa.
– sussurra posandogli un bacio fra i capelli.
- Sono contento di averlo fatto, allora. – risponde lui sollevando il
capo per baciarla. – Faceva troppo rumore. –
È un secondo e la demone si trova schiacciata sotto il
corpo di lui, che le sfiora il viso in tanti piccoli baci, sussurrando frasi
che lei non riesce a comprendere.
- Imperia. – dice lui, fissandola negli occhi. – Mi hai mentito. –
Lei sbatte gli occhi, perplessa. – In che senso, Caesar?
–
- Mi avevi detto che il tuo cuore aveva smesso di
battere. –
Imperia sospira delicatamente, scuotendo il capo. È da quando che si è
effettivamente sposata con suo marito che il suo cuore non ha mai smesso di
battere; un’altra anomalia che però, la demone ne è
consapevole, la espone ad un rischio di gigantesche proporzioni.
Caesar è stato il primo ad ammonirla, a riguardo:
colpirla e ucciderla sarebbe stato estremamente
facile, una volta scoperta la sua debolezza. E lui,
come la aveva chiaramente detto, non era pronto a separarsi da lei.
È passato più di un secolo e mezzo da quella serata a Glass
Manor, e i due, incredibilmente, si sono innamorati.
Non.
I primi anni erano stati incredibilmente turbolenti, con litigi e silenzi che
ferivano più di un potente incantesimo; a volte Caesar,
in preda all’ira, le aveva rinfacciato di averle rovinato
la vita.
Voglio.
Ma poi, alla fine, avevano scoperto di piacersi
reciprocamente, anche se ogni tanto, specialmente nei primi tempi, non avevano
trovato sufficienti punti di incontro.
Separarmi.
In ultima analisi, in tutti quegli anni la libertà che aveva sempre desiderato
Imperia se l’era sottratta da sola, troppo impegnata a stare con Caesar, a parlare con lui, a scherzare a volte.
Da.
Più volte si era chiesta se non aveva sofferto, per poi immediatamente
rispondersi di no; in quella casa era finalmente riuscita ad essere se stessa,
a sorridere quando ne aveva voglia e, specialmente, alla luce del sole.
In un certo senso, aveva scoperto che per essere felice occorreva davvero poco;
e poi, anche se con riluttanza, Caesar aveva ogni
tanto acconsentito ad accompagnarla nel mondo babbano.
Te.
- Mi spiace, Caesar ma… non dipende da me. Volevo solo rassicurarti. – dice
sorridendogli, ben sapendo che quel gesto lo farà sbollire dalla rabbia.
- A volte mi chiedo cosa possa fare per non farti mai
stare lontana da me. – mormora lui abbracciandola stretta, come sempre
abbagliato da quel sorriso. – Sei così fragile… così… umana,
Imperia. –
Lei sorride contro il suo petto, mentre sente le lacrime pungerle gli occhi. –
Devi solo continuare ad essere te stesso, e niente di più. Non mi uccideranno.
– dice, ed è vero. Lo ha deciso da tempo, che sarà lei stesso a privarsi della vita quando sarà stanca.
- Ho paura. –
- Non devi. Questa notte ti ho sognato. –
L’affermazione è così spontanea che al demone sembra completamente naturale.
Così non si rende conto di quello che lei gli ha detto fino a che non vi
riflette un attimo sopra. Sussulta e l’afferra per le spalle, per scrutarla in
viso.
- Cosa…? Stai bene? –
- Ma si, certo che si. – dice, alzandosi poi dal
divano. – Vado a farmi una doccia, tu fai colazione. –
Lui contrae il viso in una smorfia semi buffa. – Io non faccio colazione,
Imperia. – brontola.
La demone ride e poi alza le spalle, facendogli un
enorme sorriso. – Dovresti provare. – e scompare,
lasciandolo immerso nel suono così piacevole di quelle risate.
Mentre si allontana dalla stanza, però, non può far a
meno di scrollare il capo in un’espressione afflitta: ha mentito, ha mentito a
suo marito nascondendogli i suoi problemi.
I sogni non sono che uno dei tanti sintomi che la porteranno lentamente verso
il baratro: da qualche tempo ha notato di essere più
sensibile. Come Irene le ha suggerito, probabilmente è
il sentimento molto forte che prova a ridurla così.
Lei non può far altro che darle ragione e poi rinchiudere il suo dolore dentro
di sé.
Non
rinuncerà a Caesar, anche
se sa che questo, probabilmente, la porterà alla fine
Capitolo 12
“Oltre”
Sometimes you picture me -
I'm walking too far ahead
You're calling to me, I can't hear
What you've said -
Then you say - go slow -
I fall behind -
The second hand unwinds
If you're lost you can look - and you will find me
Time after time
If you fall I will catch you - I'll be waiting
Time after time.
Cyndi Lauper,
Time After Time.
Sono le… nemmeno Imperia lo sa.
Pensa che questo è l’ultimo ricordo del libro per chi mai lo leggerà, ed è
anche l’ultimo ricordo di cui serberà memoria lei stessa.
Ha novecento anni, settecento dei quali passati insieme a Caesar:
non ne ha mai rimpianto uno, nonostante sappia che è
stato il suo amore a portarla alla rovina.
La guerra che i demoni si sono dichiarati anni prima è stato l’inizio della fine, per lei: la sensibilità della sua mente
non la porta a sopportare tutto quel dolore e quella sofferenza che gli altri,
freddi come statue, non possono sentire e tantomeno
provare.
Sua madre e suo padre sono morti venti anni prima,
uccisi da una famiglia di demoni benestanti che miravano a prendere il loro
patrimonio.
Ethra ed Allister, i suoi
genitori. Non li ha mai amati, eppure il dolore che ha provato nell’apprendere
della loro morte l’ha condotta in un baratro da cui non è più riuscita ad
uscire.
Il pugnale che lei stessa aveva stregato affinché
ricomparisse non appena lei avesse finalmente preso la decisione definitiva è
lì, appoggiato sul loggiato del castello.
Imperia se ne va non per vigliaccheria, bensì per l’attesa.
Se uccidessero Caesar, lei
morirebbe lo stesso, precludendosi la possibilità di operare un ultimo, potente
incantesimo.
Vuole solo andare oltre, scoprire nuovi mondi che, nonostante i suoi poteri, le
sono stati fino ad ora preclusi. Di nuovo, vuole
essere libera e felice.
Caesar l’ha costretta a rimanere chiusa in casa nell’ultimo
secolo, poiché ben sa che il suo cuore non ha mai smesso di battere: ucciderla
sarebbe stato troppo facile.
E così le ha impedito di viaggiare, costringendola a
stare rinchiusa in un ambiente troppo piccolo per lei; sa di provocarle un
dolore a lui sconosciuto, eppure l’egoismo del suo cuore non ha saputo fare una
scelta diversa.
Cerca di farla vivere, non sapendo che così, invece, l’uccide.
Imperia sospira cautamente osservando quel tramonto di un’inutile quanto
plastica mediocrità, aveva sperato in qualcosa di più
magnetico ma non importa. La sua è una vita non troppo
importante da meritarsi un riconoscimento celeste, pensa.
Non rinuncerà certo ad uccidersi per questo.
Afferra il pugnale con una mano e se lo punta al cuore; lo sente battere furiosamente,
non capisce se di attesa o di rimpianto.
Vorrebbe stargli accanto ma ha compreso di non essere
in grado di farlo.
Così, lo lascia senza un addio, sperando che lui non si accorga
della sua assenza.
- Imperia. – troppo tardi, pensa amaramente lei vedendoselo
comparire davanti. – Imperia, cosa stai facendo? –
Caesar Cameron non è
assolutamente cambiato da quel giorno in cui lo ha conosciuto; lei, invece, si
sente infinitamente più vecchia.
- Me ne vado, Caesar. Vado lontano da questo mondo in
cui non so vivere. –
- Cosa stai dicendo, sciocca? – il terrore che Imperia
gli legge negli occhi si trasforma in rabbia, è con
rabbia che lui l’aggredisce, avvicinandosi. – Vuoi morire? –
- Si, Caesar… mi spiace, ma non vedo alternative. –
Imperia assume un’espressione dolce quando lui
spalanca gli occhi bianchi pieni di lacrime che sanno di una vecchia ed amara
consapevolezza. – Se è solo per le uscite… ti
accompagnerò io, vedrai, potr –
- Caesar. –
- Usciremo insieme, andrai nel mondo dei babbani, mi ricordo che ti è sem –
- Caesar. –
- piaciuto così tanto, perché non ci torniamo, sul
serio, potremo stare lì per un anno, che ne –
- Caesar, guardami. –
Il tono di quella richiesta è così debole e agghiacciante che lui non può far a
meno di zittirsi immediatamente.
- Cosa vedi, Caesar? –
Il demone attende un attimo prima di rispondere. –
Vedo la bellissima demone di cui mi sono innamorato
che sta per fare una scelta sbagliata. –
Imperia scuote il capo, sempre sorridendo, gli è
sempre piaciuto il suo sorriso, pensa lui. – Vedi una donna debole e fragile,
dai lineamenti stanchi. Vedi qualcuno che non conosci più ormai, perché
l’Imperia che tanto amavi è ormai morta, soppressa dalle cattiverie del suo
mondo. – dice in un soffio, per poi aggiungere, infine – Io
ti amo, Caesar. –
Non gli dice che è proprio il suo amore che la sta
portando alla rovina, o forse lui lo ha già capito.
- Anche io ti amo, Imperia. Non morire. –
- Non muoio, Caesar. Vado semplicemente oltre. –
risponde lei con una lacrima a bagnarle il viso pallido e liscio. – Vado solo
oltre. –
- Oltre è dove non posso raggiungerti, Imperia. Non farmi questo, te ne prego.
–
Improvvisamente la demone serra gli occhi e, con uno
sforzo sovrumano, gli si rivolge in tono freddo. – Tu non dovrai seguirmi, Caesar, perché tu ti innamorerai
ancora. Tu non morirai adesso. –
- Ma… -
- Ascoltami: in questo mondo non posso più essere felice… solo andando oltre
troverò finalmente il mio mondo. –
- No. – sibila lui – Dammi solo una buona ragione per
lasciarti andare. –
Imperia Cassandra Glassharm alza lo sguardo e per un
secondo gli pare la ragazza bizzarra di un tempo, con gli occhi vivi ed accesi
che ha imparato ad amare.
- Tu mi stai uccidendo, Caesar. – dice lentamente,
guardandolo, affondando il suo sguardo nel suo.
È abbastanza perché lui indietreggi di un passo, affinché lei possa finalmente
colpirsi.
Solo un istante, e scivola a terra, dolcemente, come un uccello che plana sulle
acque del lago.
- Imperia… - mormora lui, sconvolto. Sente il cuore che gli batte forsennatamente
come mai gli era successo. – Imperia, non lasciarmi solo… non
andare via. –
Lei gli sorride fra le piccole lacrime che sono fiorite sul suo volto e gli
lancia un piccolo bacio. – Vado oltre, Caesar. Se non ho voluto un figlio con te… era perché non mi somigliasse.
– mormora un po’ sconclusionatamente. – Ma ti amo
davvero. –
- Si. –
- Ascoltami, adesso. Io ho fatto un incantesimo, capisci…?
Ho gettato un po’ di me in ogni demone di questo mondo, hai
capito? – dice piano. – Non vorrei nessuna guerra, sai… è
una cosa stupida. –
- Invece è una cosa bellissima. –
Poi lei piano piano chiude gli occhi e scivola
nell’incoscienza, fino ad arrivare oltre.
Caesar Noah Cameron socchiude gli occhi annebbiati di
dolore, e, semplicemente, piange.
Piange fino a che non vede qualcosa che gli assicura veramente che lei è
davvero andata oltre.
Sul viso serio di Imperia è apparso un semplice, dolce
sorriso.
Fine.