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Autore: DewPrincess    02/11/2012    0 recensioni
"Smettila di vivere senza vivere. Smettila di morire. Non è giusto. Non è umano. Non è democratico. Non è rispettoso. Non è educato. Non è normale. Non è nemmeno originale. Sai quanti ne muoiono? MILIONI. "
Storia di un sonno che si scatena all'improvviso.
Genere: Introspettivo, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’ULTIMA RISPOSTA
Forse quel silenzio d'immondizia in cortile 
Forse quel destino spento da incatenare 
Dentro un giorno sempre uguale 
Quelle luci fredde o una corsia d'ospedale.
(Subsonica)

 
Se non ti muovi, entro quarantotto ore siamo nella merda. Vorrei avere qualcosa di migliore da dirti, ora che non c’è più il vetro, ma mi sento ridicolo causa equipaggiamento. Mi hanno dato una cuffia, delle pantofole di carta e un camice che mi va leggermente stretto. Sono abituato a ben altre situazioni. Insomma, cercavo di buttarla sul ridere, non so nemmeno io perché. Forse sono sopravvissuto per arrivare a questo giorno e scoprire che quelle che credevo fossero le mie forze in realtà si riducono alla mia spiritosaggine e alla mia capacità di dire stronzate in qualunque momento. Persino in questo. Questo bip è allucinante. Non ti dà fastidio? Io alzerei questo fantastico braccio abbronzato e lo zittirei con un bel cazzotto ben assestato. Poi mi sorriderei, se fossi in te. Mi farebbe sentire proprio meglio. Invece tu non mi ascolti. Che palle. Mi sembra uno di quei giorni in cui sei di malumore, che di mattina sembrano dei giorni inutili. Ti spiego. Tu ti alzi e vieni in cucina seguendo la scia del caffè. Io sono già vestito perché vado al lavoro prima, per questo ti faccio la colazione. Tu arrivi e ti stropicci gli occhi con le mani e premi in mezzo alle sopracciglia, per cercare di far passare il sonno. Se dici “Buongiorno” e chiudi lo sportello dello zucchero con la caviglia, posso strapparti alla tazzina di caffè e baciarti, perché è un buon giorno. Se non parli, ti guardo con la coda dell’occhio e aspetto di capire perché. Magari sul calendario c’è l’asterisco. Allora è tutto chiaro. Ma se l’asterisco non c’è, fingo di leggere la Repubblica e intanto indago. Fuori piove? Devi vedere quello stronzo del tuo dannato editore che io ucciderei a mani nude? Vai a lavorare al museo dall’altra parte della città e devi farti quindici minuti di bus in cui ti viene voglia di dormire? Ma, abbi pazienza, contessa, io che ne so del perché ti girano? Quando ti girano mi sento escluso. Così succede che passo tutta la giornata ad orbitarti attorno, studiandoti col mio telescopio. Poi la sera, quando ritorno, tu hai apparecchiato la tavola e mi hai cucinato il pollo al curry e stai in silenzio, però fai tutte le piccole cosa che dicono che mi ami lo stesso.
Mi sento contento come un bambino.
Chissà a che punto esattamente ho perso la dignità e sono diventato un tuoamoredipendente. A te succede? No, tu sei la stoica. La donna del silenzio. Mannaggia a te. Insomma, io ti inseguo, facendo operazioni inutili come tagliare il pane e condire l’insalata, in realtà cerco solo di sfiorarti, di entrare come un meteorite nella tua atmosfera. Ti serve l’olio. Lassù. Entro in azione e lo prendo, molto più agilmente di te, te lo passo. Tu mi sorridi, anche se non mi guardi e l’olio rimane lì tra le punte delle nostre dita che si sfiorano e finisce che mangiamo parlandoci sopra, come sempre, come se il silenzio non esistesse, come all’inizio. Venire a cercarti dove ti rinchiudi in quei giorni all’inizio era faticoso. Porca, se lo era! Non trovavo strade, vie, indicazioni e tu non mi hai aiutato mai, nemmeno per un secondo. Poi un giorno ho capito. L’hai scritto in uno dei tuoi libri, il terzo per esattezza. “Quel malessere che le donne si portano dentro nei giorni e che gli uomini non afferrano mai”. Roba di seni e ovaie, che richiede una sensibilità sopraffina e supersonica, capace di una visuale a 360°. Sono stato felice di non poterlo fare per natura, intendo, capire che cos’è quel malessere. Per fortuna, non sei quasi mai di malumore. È proprio raro. Non credo riuscirei a vivere diversamente, è proprio che l’allegria mi serve come contrappeso, come sottofondo, come scenografia.
Bip. Ancora. Dai, ti svegli? Oggi è venuta perfino tua nonna. Mi ha messo ancora più tristezza. Non si ricordava il mio nome, non si ricordava il tuo, non capiva che l’avevano portata a fare, eppure era stata lei a chiederlo, stranamente. Non esce mai tua nonna. Come un tuo malumore perpetuo. Si è trovata venticinque malattie e le cura tutte, contemporaneamente. E dice di non vedere l’ora di morire. Da quindici anni, lo dice. Mi sa che prima era un tipetto. Prima che si deprimesse e cominciasse a pensare solo alla morte e a guardare tutto il giorno la tv spazzatura, deve essere stata un soggetto.
Allora, ti svegli? Tra un po’ devo andarmene. Bip. Sai cosa dice il bip? Che sei viva. Perché se uno non fosse allenato al tuo respiro, come lo sono io che lo sento forte e chiaro sempre,  potrebbe anche pensare che non sei più viva. È proprio un suono flebile. Assomiglia ad un qualche tipo di vento caldo e carezzevole. Di certo non assomiglia a un bip.
Ecco, sta per scadere il tempo e devo uscire. Mi sa che stasera torno a casa. Domani ti porto un po’ dei tuoi oggetti, così questa specie di caverna bippante diventa un posto un po’ più carino, colorato, accogliente. E tu per l’occasione magari ti svegli. Vero, Bip?
   
 
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