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Autore: Il Romanticismo Perduto    02/11/2012    1 recensioni
Nelle lontane terre dell'Ovest, la Casta Reggente degli Elfi sta per fronteggiare il suo declino, richiamato dalla politica scellerata di uno dei figli di Avenor. Ad intrecciarsi con queste vicende, una storia fuori dal comune vedrà un'umana e un'elfa, Sam e Loole, accavallare le proprie esistenze.
Genere: Fantasy, Guerra, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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I Signori delle Terre dell’Ovest

 

12. Una Nuova Alba

 

La Sala del Trono era in preda ad un viavai frenetico, intermezzato dal brusio delle persone che giungeva all’orecchio in ampie onde. Uno stuolo di cortigiani e funzionari prendeva posto nell’ampio spazio, misti agli esponenti del Consiglio che tra poche ore sarebbero stati eletti dalla carica regia. Come illuminata di magia naturale, la Sala sfilava in verticale con sinuose colonne d’ebano e racchiudeva gli astanti nella parte bassa del suo budello, facendoli sembrare ancor più piccoli con setosi nastri di polvere dorata che brillavano nel gioco di luci che rimbalzava sulle pareti.

Il pavimento pareva uno specchio d’acqua, pronto ad accogliere la danza di un cigno. Tutti i presenti calpestavano alti tappeti pelosi e gonfi d’oli, e solo una persona avrebbe solcato la lastra perfettamente lucidata di marmo.

Loole, oltre una porticina di legno scuro, attendeva. Sentiva l’odore pesante dell’ebano antico azzuffarsi con i suoi capelli, acconciati in una sola lunga treccia punteggiata di perle. Le sue orecchie, prese d’assalto dai pensieri, erano cullate dai sussurri di chi prima di lei era stato chiuso come un bambino in quella stanzina segreta di fianco alla porta d’ingresso alla Sala. Sentiva suo padre, e come doveva starci stretto in quell’angusto spazio. Sentiva suo nonno e il tintinnio delle sue medaglie. Sentiva suo fratello, e quello che non sarebbe tornato mai più.

Sentiva, oltre alle melodie del passato, gli echi della Sala che andavano spegnendosi. Sedie scricchiolanti spostate, mezze imprecazioni, sussurri scambiati con le guardie. E, quando il silenzio fu totale, tre colpi.

Loole scivolò fuori dal suo pertugio, e con passi lunghi e gravi sfilò nella sala.

Gli occhi di tutti i presenti scivolavano sulla sua veste preziosa, che ricordava quella d’una sposa nella fattura e negli sbuffi di colore bianco che si facevano intravedere ad ogni movimento, scambiandosi con toni ora verdi ora lilla, in una danza affascinante che rendeva ancor più palpabile l’atmosfera ultraterrena.

In piedi sopra al primo dei cinque scalini che portavano al Trono, il valletto che aveva battuto i colpi sul pavimento ostentava severità in un completo nero come il corvo. Nessuno dei colori della festa era stato portato in parata per salutare la nuova Reggenza. Al collo di Loole, brillava la Pietra del Dolore.*

Dopo cinque passi, Loole si fermò, e lentamente piegò le gambe. Tutto venne seguito con attenzione dai presenti. L’elfa trasse da una piega del vestito una pigna di bronzo, perfetta nella fattura, corredata di piccoli pinoli che occhieggiavano attraverso le sue squame, e la posò a terra.

Così annunciava di perdere ogni desiderio di ricchezza personale.

Era strano come, vestiti di ori e preziosi, i Reggenti di quelle terre fossero per prima cosa costretti a rinunciare alle ricchezze. Troppo spesso questa promessa era stata infranta, a discapito del frutto sacro lasciato sul pavimento come isoletta di detriti in un potente fiume.

Loole percorse altri cinque passi e si chinò ancora a depositare un oggetto sul marmo. Stavolta si trattava un falcetto d’oro, pegno di fedeltà al popolo di Inveia. L’elfa vi aveva apposto un lungo nastro di seta nera, a ricordo di suo fratello e del suo patto violato.

Alzandosi, i suoi occhi color del quarzo si riflessero brevemente nella superficie preziosa del falcetto. Una punta di spillo si conficcò nelle sue carni, ma Loole si costrinse a continuare a camminare.

Altri cinque passi, e fu dinanzi agli scalini foderati di tappeti che Loole lasciò l’ultimo oggetto della scalata regale verso il potere. Lasciò un piccolo cuore lacerato interamente intagliato nel diamante. Promessa di battaglia.

Attese un poco prima di salire in gradini. I suoi calzari erano talmente lievi che poteva avvertire la consistenza calorosa delle pelli sotto di sé. Il trono, una cattedra in ebano intagliata di arabeschi, era allestito a lutto con un ampio guanciale di velluto nero. Ma alla sua sommità vi era stata incastonata una splendente lacrima di quarzo, che richiamava le pupille di colei che stava per essere insignita del titolo di Reggente.

Loole sedette con grazia su quel trono di giganti, e alcune ballate risuoneranno ancora per anni ricordando quanto la sua minuta maestà si incastrasse alla perfezione in quel quadro fatato.

Il viso severo e pallido che s’apriva alla Sala con coraggio, l’elfa attese.

Un argentino squillar di trombe scosse l’aria. Loole si alzò dal trono come da protocollo, e scese sino a sfiorare il leggio che alcuni cortigiani avevano portato.

La Sala intera aspettava di sentire la sua voce.

«Cittadini d’Inveia» parlò l’elfa, con voce insabile. L’agitazione le stava percorrendo la schiena trascinandosi dietro una scopa saggina, come una strega, attenta a graffiare con lingue elettriche ogni parte del suo sistema nervoso. La donna si schiarì piano la gola, chiudendo gli occhi sui visi scocciati dei cortigiani.

Già iniziavano a parlare. A convincersi che una donna avrebbe solo portato sfortuna. A trovare nei suoi colori traccia di una stregoneria cruenta e senza cuore.

Nel buio, l’occhio della mente di Loole vide profilarsi un volto. Coraggio, Loole. Devi farlo anche per me. Sam la osservò solo per un istante, e di nuovo il dolore di spillo si fece vivo nel suo petto. Spalancò gli occhi, e riprese a parlare: stavolta con tono fermo e sicuro, solo in fondo provato da una sottile ansia.

«Questo è un giorno di morte ancor prima d’essere di celebrazione. Mio fratello ci ha lasciati come può farlo una farfalla, spegnendo la sua luce sotto una goccia di egoista pioggia. Ma dobbiamo ricominciare senza esitazione, e unire le qualità che i padri d’ognuno di noi hanno lasciato a segnare questa nostra terra. Popoli d’Inveia, unitevi quest’oggi per rendere questo paese un luogo migliore, e accettate che io scenda tra voi, a portare la mia minuscola parte a dar man forte al vostro sapere. Nessuno di noi è trascurabile nel dipinto della nostra terra; nessuno di noi si porrà al di sopra di nessun altro per glorificare se stesso. Ho giurato con i nostri simboli sacri per i nostri deschi, e anche se so che in molti hanno preso a male l’intero evento, ho giurato anche di scendere in battaglia per Inveia se mai fosse necessario».

I presenti ascoltavano in silenzio le parole di Loole, che per quanto cariche di speranza e coraggio, non riuscivano a farsi apprezzare da tutti. In molti ancora la guardavano con sospetto, ed ella stessa se ne avvide. Prese un respiro silenzioso, e poi finì il discorso.

«Non importa quanti leoni dovrò combattere a mani nude; non importa quante volte dovrò perire nel mio operato. Per Inveia»

 

Si narra che, al termine di quelle parole, la Reggente Loole sedette al trono con la maestà di una regina, e che il diadema che le venne posto in capo splendesse tanto quanto una costellazione nel cielo notturno.

Si vociferava che un nano avesse plasmato quel fine filo di argento per due giorni, senza mai fermarsi a dormire, bere o mangiare. Ne aveva scolpito con semplici e sinuose linee un diadema leggerissimo, incastonato di perle nere ruvide e deformi provenienti da mari esotici. Vi aveva impresso con le rudi mani tutto il sapere del suo antico popolo, come rispondendo al discorso non ancora pronunciato da Loole in quella sala d’ebano.

Si narra che la Reggente brillasse di tutte le polveri più preziose del mondo conosciuto, ma nessuno di coloro i quali si tramandarono queste leggende vide mai il suo spettacolo.

La videro solo al di là dei cancelli del Palazzo d’Onice, sorvegliati da guardie corazzate in metalli scintillanti. La videro in un gesto che suo fratello non aveva mai voluto compiere, ma che suo padre aveva fatto proprio come lei nel giorno della sua nomina. La videro che alzava una mano bianca al cielo, ritta come l’intero suo corpo. Al saluto della Reggente, i popolani della terra d’Inveia esplosero in un boato festante.

 

Loole tamburellò nervosamente le lunghe dita affusolate sul tavolo. Sedeva composta sulla cattedra della sala circolare e aveva dinanzi a sé i componenti del nascituro Consiglio d’Inveia. O meglio, quelli che sembravano voler essere i suoi più sfegatati oppositori.

«Con tutto il rispetto, mia Dama…» disse con voce severa un semiuomo dai lunghi e crespi capelli color natura.

Loole lo interruppe con un gesto.

«Mi hai chiamata per nome sino al giorno prima della mia nomina, ti prego di continuare a farlo. Anzi, siete pregati tutti di farlo. Non sono diventata parte integrante dello strapotere di mio fratello, prendendone il posto».

Il cortigiano, vestito dei colori del suo popolo – un misto di verde e marrone che simboleggiava il popolo nato dall’unione tra uomini e ninfe silvestri -, si mosse sulla sedia per poi riprendere la parola.

«Bene, Loole, tu ben sai che sei stata nominata perché sei l’ultima della tua discendenza. Ma non puoi pretendere di ricoprire il tuo ruolo come farebbe un uomo. La vostra intelligenza è di natura subordinata a quella maschile, anche nell’eccelsa razza degli elfi. Non ti pare saggio che qualcuno indirizzi le tue scelte, come sta al tuo sesso, almeno per i primi tempi?»

«Perché nessuno mi ha mai insegnato come comportarsi al potere, vero?» ribatté piccata l’elfa, «e non ero io quella che si è imposta a far ragionare i consiglieri quando al potere c’era mio fratello. Se non fossi stata io a convincere chi di merito, ora saremmo in guerra su tutti i fronti.»

Guillome, che era tutt’ora rappresentante degli umani di Inveia, alzò gli occhi dalla pergamena che reclamava – apparentemente – tutta la sua attenzione.

«In realtà la Dama d’Inveia ha ragione, Shonn» mormorò. «Non si può negare che sia stata molto valida da molti anni nella partecipazione alla vita politica del paese…»

«Voi umani siete ciechi!» esclamò con voce aspra uno degli abitanti delle lagune. «Come si può dare fiducia ad una persona che invita in un consiglio una simile sciagura!» e indicò con un gesto sprezzante la donna dall’aspetto felino che sedeva al suo fianco. Era vestita di pelle e cuoio, e i suoi lunghi e setosi capelli rossi avrebbero potuto arrivare sino al pavimento, se non fossero stati fermati dalla cinta che teneva legata attorno ai fianchi. I suoi occhi magnetici erano grigi come la roccia.

La Gwyllion battè con violenza lo stivale sul pavimento.

«Solo perché c’è qualcuno che ci considera non devi sentirti attaccato nella tua virilità, Maelstraw» rispose ghignando. «Il nostro popolo è stato riconosciuto sul suolo di Inveia troppi anni or sono perché il tuo assembramento di zotici possa ricordare.»

Maelstraw fece per alzarsi con violenza, e Loole scattò in piedi.

«Non intendo omettere nessuno da questa seduta, perciò che vengano posate le asce da guerra. Nessuno qui rappresenta un popolo migliore di un altro, e se non vi è chiaro, allora siete pregati di prendere la porta subito» impose con voce autoritaria. Gli occhi di tutti la fissavano, ma in maniere diverse, dall’ira profonda dell’abitante delle lagune alla calma felina della Gwyllion, sino ad arrivare all’approvazione di due dei presenti: Guillome e il rappresentante dei nani, che masticava pensieroso il bocchino della sua tozza pipa spenta.

Cadde il silenzio, e Loole sedette. Sospirò, e prese in mano i fogli della seduta del giorno.

«Vogliamo iniziare a scalfire i noccioli delle questioni più importanti?» chiese, strofinandosi gli occhi.

Mai avrebbe pensato che il compito di una reggente elfa dai colori inusuali fosse così arduo.

 

 

 

 

 

 

 

*Un medaglione d’oro e rubino dalla forma a stalattite che il maggiore esponente della Casta dei Reggenti deve indossare per dieci giorni a seguito di un lutto avvenuto nel circuito governativo.

   
 
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