I Signori delle
Terre dell’Ovest
12. Una Nuova
Alba
La
Sala del Trono era in preda ad un viavai frenetico, intermezzato
dal brusio delle persone che giungeva all’orecchio in ampie onde. Uno stuolo di
cortigiani e funzionari prendeva posto nell’ampio spazio, misti agli esponenti
del Consiglio che tra poche ore sarebbero stati eletti dalla carica regia. Come
illuminata di magia naturale, la Sala sfilava in verticale con sinuose colonne
d’ebano e racchiudeva gli astanti nella parte bassa del suo budello, facendoli
sembrare ancor più piccoli con setosi nastri di polvere dorata che brillavano
nel gioco di luci che rimbalzava sulle pareti.
Il
pavimento pareva uno specchio d’acqua, pronto ad accogliere la danza di un
cigno. Tutti i presenti calpestavano alti tappeti pelosi e gonfi d’oli, e solo
una persona avrebbe solcato la lastra perfettamente lucidata di marmo.
Loole, oltre una porticina di legno scuro,
attendeva. Sentiva l’odore pesante dell’ebano antico azzuffarsi con i suoi
capelli, acconciati in una sola lunga treccia punteggiata di perle. Le sue
orecchie, prese d’assalto dai pensieri, erano cullate dai sussurri di chi prima
di lei era stato chiuso come un bambino in quella stanzina segreta di fianco
alla porta d’ingresso alla Sala. Sentiva suo padre, e come doveva starci
stretto in quell’angusto spazio. Sentiva suo nonno e il tintinnio delle sue
medaglie. Sentiva suo fratello, e quello che non sarebbe tornato mai più.
Sentiva,
oltre alle melodie del passato, gli echi della Sala che andavano spegnendosi.
Sedie scricchiolanti spostate, mezze imprecazioni, sussurri scambiati con le
guardie. E, quando il silenzio fu totale, tre colpi.
Loole scivolò fuori dal suo pertugio, e con
passi lunghi e gravi sfilò nella sala.
Gli
occhi di tutti i presenti scivolavano sulla sua veste preziosa, che ricordava
quella d’una sposa nella fattura e negli sbuffi di colore bianco che si
facevano intravedere ad ogni movimento, scambiandosi con toni ora verdi ora
lilla, in una danza affascinante che rendeva ancor più palpabile l’atmosfera
ultraterrena.
In
piedi sopra al primo dei cinque scalini che portavano al Trono, il valletto che
aveva battuto i colpi sul pavimento ostentava severità in un completo nero come
il corvo. Nessuno dei colori della festa era stato portato in parata per
salutare la nuova Reggenza. Al collo di Loole,
brillava la Pietra del Dolore.*
Dopo
cinque passi, Loole si fermò, e lentamente piegò le
gambe. Tutto venne seguito con attenzione dai presenti. L’elfa
trasse da una piega del vestito una pigna di bronzo, perfetta nella fattura,
corredata di piccoli pinoli che occhieggiavano attraverso le sue squame, e la
posò a terra.
Così
annunciava di perdere ogni desiderio di ricchezza personale.
Era
strano come, vestiti di ori e preziosi, i Reggenti di quelle terre fossero per
prima cosa costretti a rinunciare alle ricchezze. Troppo spesso questa promessa
era stata infranta, a discapito del frutto sacro lasciato sul pavimento come
isoletta di detriti in un potente fiume.
Loole percorse altri cinque passi e si chinò
ancora a depositare un oggetto sul marmo. Stavolta si trattava un falcetto
d’oro, pegno di fedeltà al popolo di Inveia. L’elfa vi aveva apposto un lungo nastro di seta nera, a
ricordo di suo fratello e del suo patto violato.
Alzandosi,
i suoi occhi color del quarzo si riflessero brevemente nella superficie
preziosa del falcetto. Una punta di spillo si conficcò nelle sue carni, ma Loole si costrinse a continuare a camminare.
Altri
cinque passi, e fu dinanzi agli scalini foderati di tappeti che Loole lasciò l’ultimo oggetto della scalata regale verso il
potere. Lasciò un piccolo cuore lacerato interamente intagliato nel diamante.
Promessa di battaglia.
Attese
un poco prima di salire in gradini. I suoi calzari erano talmente lievi che
poteva avvertire la consistenza calorosa delle pelli sotto di sé. Il trono, una
cattedra in ebano intagliata di arabeschi, era allestito a lutto con un ampio
guanciale di velluto nero. Ma alla sua sommità vi era stata incastonata una
splendente lacrima di quarzo, che richiamava le pupille di colei che stava per
essere insignita del titolo di Reggente.
Loole sedette con grazia su quel trono di
giganti, e alcune ballate risuoneranno ancora per anni ricordando quanto la sua
minuta maestà si incastrasse alla perfezione in quel quadro fatato.
Il
viso severo e pallido che s’apriva alla Sala con coraggio, l’elfa attese.
Un
argentino squillar di trombe scosse l’aria. Loole si
alzò dal trono come da protocollo, e scese sino a sfiorare il leggio che alcuni
cortigiani avevano portato.
La
Sala intera aspettava di sentire la sua voce.
«Cittadini
d’Inveia» parlò l’elfa, con
voce insabile. L’agitazione le stava percorrendo la
schiena trascinandosi dietro una scopa saggina, come una strega, attenta a
graffiare con lingue elettriche ogni parte del suo sistema nervoso. La donna si
schiarì piano la gola, chiudendo gli occhi sui visi scocciati dei cortigiani.
Già
iniziavano a parlare. A convincersi che una donna avrebbe solo portato
sfortuna. A trovare nei suoi colori traccia di una stregoneria cruenta e senza
cuore.
Nel
buio, l’occhio della mente di Loole vide profilarsi
un volto. Coraggio, Loole.
Devi farlo anche per me. Sam la osservò solo per un istante, e di nuovo il
dolore di spillo si fece vivo nel suo petto. Spalancò gli occhi, e riprese a
parlare: stavolta con tono fermo e sicuro, solo in fondo provato da una sottile
ansia.
«Questo
è un giorno di morte ancor prima d’essere di celebrazione. Mio fratello ci ha
lasciati come può farlo una farfalla, spegnendo la sua luce sotto una goccia di
egoista pioggia. Ma dobbiamo ricominciare senza esitazione, e unire le qualità
che i padri d’ognuno di noi hanno lasciato a segnare questa nostra terra. Popoli
d’Inveia, unitevi quest’oggi per rendere questo paese
un luogo migliore, e accettate che io scenda tra voi, a portare la mia
minuscola parte a dar man forte al vostro sapere. Nessuno di noi è trascurabile
nel dipinto della nostra terra; nessuno di noi si porrà al di sopra di nessun
altro per glorificare se stesso. Ho giurato con i nostri simboli sacri per i
nostri deschi, e anche se so che in molti hanno preso a male l’intero evento,
ho giurato anche di scendere in battaglia per Inveia
se mai fosse necessario».
I
presenti ascoltavano in silenzio le parole di Loole,
che per quanto cariche di speranza e coraggio, non riuscivano a farsi
apprezzare da tutti. In molti ancora la guardavano con sospetto, ed ella stessa
se ne avvide. Prese un respiro silenzioso, e poi finì il discorso.
«Non
importa quanti leoni dovrò combattere a mani nude; non importa quante volte
dovrò perire nel mio operato. Per Inveia»
Si
narra che, al termine di quelle parole, la Reggente Loole
sedette al trono con la maestà di una regina, e che il diadema che le venne
posto in capo splendesse tanto quanto una costellazione nel cielo notturno.
Si
vociferava che un nano avesse plasmato quel fine filo di argento per due
giorni, senza mai fermarsi a dormire, bere o mangiare. Ne aveva scolpito con
semplici e sinuose linee un diadema leggerissimo, incastonato di perle nere
ruvide e deformi provenienti da mari esotici. Vi aveva impresso con le rudi
mani tutto il sapere del suo antico popolo, come rispondendo al discorso non
ancora pronunciato da Loole in quella sala d’ebano.
Si
narra che la Reggente brillasse di tutte le polveri più preziose del mondo
conosciuto, ma nessuno di coloro i quali si tramandarono queste leggende vide
mai il suo spettacolo.
La
videro solo al di là dei cancelli del Palazzo d’Onice, sorvegliati da guardie
corazzate in metalli scintillanti. La videro in un gesto che suo fratello non
aveva mai voluto compiere, ma che suo padre aveva fatto proprio come lei nel
giorno della sua nomina. La videro che alzava una mano bianca al cielo, ritta
come l’intero suo corpo. Al saluto della Reggente, i popolani della terra d’Inveia esplosero in un boato festante.
Loole tamburellò nervosamente le lunghe dita
affusolate sul tavolo. Sedeva composta sulla cattedra della sala circolare e
aveva dinanzi a sé i componenti del nascituro Consiglio d’Inveia.
O meglio, quelli che sembravano voler essere i suoi più sfegatati oppositori.
«Con
tutto il rispetto, mia Dama…» disse con voce severa
un semiuomo dai lunghi e crespi capelli color natura.
Loole lo interruppe con un gesto.
«Mi
hai chiamata per nome sino al giorno prima della mia nomina, ti prego di
continuare a farlo. Anzi, siete pregati tutti di farlo. Non sono diventata
parte integrante dello strapotere di mio fratello, prendendone il posto».
Il
cortigiano, vestito dei colori del suo popolo – un misto di verde e marrone che
simboleggiava il popolo nato dall’unione tra uomini e ninfe silvestri -, si
mosse sulla sedia per poi riprendere la parola.
«Bene,
Loole, tu ben sai che sei stata nominata perché sei l’ultima
della tua discendenza. Ma non puoi pretendere di ricoprire il tuo ruolo come
farebbe un uomo. La vostra intelligenza è di natura subordinata a quella
maschile, anche nell’eccelsa razza degli elfi. Non ti pare saggio che qualcuno
indirizzi le tue scelte, come sta al tuo sesso, almeno per i primi tempi?»
«Perché
nessuno mi ha mai insegnato come comportarsi al potere, vero?» ribatté piccata
l’elfa, «e non ero io quella che si è imposta a far
ragionare i consiglieri quando al potere c’era mio fratello. Se non fossi stata
io a convincere chi di merito, ora saremmo in guerra su tutti i fronti.»
Guillome, che era tutt’ora rappresentante degli
umani di Inveia, alzò gli occhi dalla pergamena che reclamava
– apparentemente – tutta la sua attenzione.
«In
realtà la Dama d’Inveia ha ragione, Shonn» mormorò. «Non si può negare che sia stata molto
valida da molti anni nella partecipazione alla vita politica del paese…»
«Voi
umani siete ciechi!» esclamò con voce aspra uno degli abitanti delle lagune. «Come
si può dare fiducia ad una persona che invita in un consiglio una simile
sciagura!» e indicò con un gesto sprezzante la donna dall’aspetto felino che
sedeva al suo fianco. Era vestita di pelle e cuoio, e i suoi lunghi e setosi
capelli rossi avrebbero potuto arrivare sino al pavimento, se non fossero stati
fermati dalla cinta che teneva legata attorno ai fianchi. I suoi occhi
magnetici erano grigi come la roccia.
La
Gwyllion battè con violenza
lo stivale sul pavimento.
«Solo
perché c’è qualcuno che ci considera non devi sentirti attaccato nella tua
virilità, Maelstraw» rispose ghignando. «Il nostro
popolo è stato riconosciuto sul suolo di Inveia
troppi anni or sono perché il tuo assembramento di zotici possa ricordare.»
Maelstraw fece per alzarsi con violenza, e Loole scattò in piedi.
«Non
intendo omettere nessuno da questa seduta, perciò che vengano posate le asce da
guerra. Nessuno qui rappresenta un popolo migliore di un altro, e se non vi è
chiaro, allora siete pregati di prendere la porta subito» impose con voce
autoritaria. Gli occhi di tutti la fissavano, ma in maniere diverse, dall’ira
profonda dell’abitante delle lagune alla calma felina della Gwyllion,
sino ad arrivare all’approvazione di due dei presenti: Guillome
e il rappresentante dei nani, che masticava pensieroso il bocchino della sua
tozza pipa spenta.
Cadde
il silenzio, e Loole sedette. Sospirò, e prese in
mano i fogli della seduta del giorno.
«Vogliamo
iniziare a scalfire i noccioli delle questioni più importanti?» chiese,
strofinandosi gli occhi.
Mai
avrebbe pensato che il compito di una reggente elfa
dai colori inusuali fosse così arduo.
*Un medaglione d’oro e rubino dalla forma a
stalattite che il maggiore esponente della Casta dei Reggenti deve indossare
per dieci giorni a seguito di un lutto avvenuto nel circuito governativo.