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Autore: ciocco    21/05/2007    1 recensioni
A volte ci si ritrova da soli, alla luce di un tramonto in una sera di maggio e s'inizia a pensare. E i ricordi invadono la mente, e quella vita passata che si era creduto aver scordato improvvisamente torna, e pare più vivida che mai. Così succede anche a Fabio, che si ritrova a ripercorre la sua vita al contrario, passo dopo passo, in una sequenza di ricordi sull'amicizia, l'amore, la musica, il sesso e la vita.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3: Every you Every me

E la notte di maggio ormai è calata sulla mia casa, e ha portato con sé altri ricordi, altre sensazioni di quel tempo andato, altri odori che hanno attraversato la mia vita, altri sapori che ho sentito in bocca, altre pelli che ho toccato, altre note che hanno risuonato.

E finisco la mia birra, e la butto, così come butto me stesso in quell’oceano di rammenti nostalgici.

Una leggera brezza entra dalla finestra aperta, e porta con sé sempre lo stesso profumo di ciliegi e roseti in fiore, e che presto si andranno a confondere nelle mie narici con il profumo della pelle, del sudore, della passione.

E questo vento leggero che mi accarezza me ne fa ricordare un altro, di vento, un vento che non sapeva di fiori, che era il vento del mare, ed era forte, era rumoroso, era caldo.

Ed eccomi lì, su quella spiaggia dimenticata dove ho passato tutte le estati della mia infanzia e della mia prima giovinezza.

Ho un anno di più dal mio ultimo ricordo e la scuola media è stata appena conclusa.

Il mio volto sta cambiando, inizia a farsi più marcato, i tratti infantili vanno pian piano scomparendo, assottigliandosi, gli occhi iniziano ad avere un’espressione diversa, i capelli più scuri, più ricci, più lunghi, più arruffati, il corpo resta sempre magro, dai muscoli poco accennati, poco sfruttati, e sono alto, e il pantalone nero che porto pare scivolarmi dalla vita, e allora io stringo la cintura, e la copro con quella maglia grigia che sembra esser passata attraverso un cespuglio di rovi per quanto è rovinata.

E’ mattina, ma il cielo è grigio, scuro, oppresso da nubi cariche di pioggia, e il mare è in tempesta, le onde alte, il vento forte, l’aria afosa. E io sono seduto sulla sabbia appena bagnata, e sono solo, sto contemplando il mare in burrasca, e non sto pensando a niente, la mia mente è vuota, riempita solo dal rumore delle onde che si confonde con quello del vento. E a un tratto sento dei passi al mio fianco, e una figura che si avvicina a me, ed è una ragazza quella che si siede affianco a me, in un silenzio dalle sembianze fittizie, rotto dallo stridio dei gabbiani.

E’ bella. Ha una bellezza semplice, delicata, quasi infantile. I capelli biondi le cadono sulle spalle come una cascata in movimento, e ondeggiano al vento, finendole davanti al volto dai tratti angelici, fini, morbidi. Ha gli occhi chiari, di un colore che sembra riprodurre esattamente quello del mare che ho davanti. Un colore che và dal blu al verde, al grigio, all’azzurro più chiaro, al viola. E ha un corpo da ninfa, esile, sottile, dalle curve poco accennate, e la sua pelle è bianca, e le labbra sembrano fatte da petali di rosa.

E mi guarda, mi guarda fissandomi negli occhi e non dicendo nulla, lasciando che sia il mare, che sia il vento a parlare per lei. E mi prende una mano, e la stringe nella sua, più piccola, più liscia, più bianca, e continua a guardarmi, e io sembro perdermi nei suoi occhi color del mare, e non capisco cosa voglia da me, perché questa ninfa marina mi stia stringendo la mano e mi stia fissando. E poi lei si avvicina ancora di più a me, e i suoi occhi sembrano liquefarsi nei miei, e sento il suo respiro che mi accarezza la pelle del volto, e i suoi capelli che mi sfiorano, mossi dal vento, e le sue labbra si avvicinano alle mie, e premono contro le mie, le sfiorano, le mordono, le accarezzano.

E io mi lascio guidare da lei, in balia completa delle sue azioni, dei suoi movimenti, e non capisco nulla, lascio che le sue labbra bacino le mie, e la sua lingua cerchi la mia, e la trovi, e ci giochi in un bacio che non ha nulla di reale, in un bacio che sembra accompagnare i movimenti delle onde e lo strepito del vento, in un bacio che non è mio, non è voluto, non è desiderato, in un bacio che di mio non ha proprio nulla. E non basta che la ragazza che mi stia baciando sia la creatura più bella che io abbia mai visto, questo non basta, e non basta il colore dei suoi occhi, la bellezza dei suoi capelli, la morbidezza delle sue labbra, il candore della sua pelle, non basta l’innocente sensualità del suo corpo, non basta niente di tutto questo. E io mi stacco da lei dopo qualche attimo, e la guardo senza un’espressione precisa sul volto, e lei pare stupita, ha le labbra rosse, umide, e lo sguardo perplesso. E io corro via, corro lontano da lei, da quella ninfa che mi ha appena baciato, corro lontano da quella spiaggia che all’improvviso mi pare stretta, strana, dalle fattezze irreali.

Strano come un episodio del genere possa esser ricordato in una maniera tutt’altro che positiva. E’ strano, come sono strani quasi tutti i miei ricordi. Sono strani quasi quanto queste chitarre stonante che lo stereo fa riecheggiare per tutta la casa, chitarre stonate come lo era la mia un tempo, chitarre distorte, rabbiose, aggressive.

Chitarre che paiono urlare fuori tempo, che sembrano gridare nel buio esattamente come stanno facendo adesso, chitarre che vanno a tempo con i miei ricordi storti e strani, chitarre che mi fanno ricordare di tutto e mi fanno scordare ogni cosa.

Come quella notte. E’ settembre, il mio ultimo settembre da ragazzino delle medie, il settembre che vedrà l’inizio del mio primo anno di liceo, il mio primo anno da ragazzo.

L’aria odora ancora di sole e salsedine, tra i capelli c’è ancora sabbia, il sole si ostina a non voler tramontare e la musica risuona fino a tardi nelle case, dagli sterei dei ragazzi seduti a un falò sulla spiaggia. E’ settembre, e io sono a letto, fermo, immobile, ascoltando il cicaleccio dei grilli che si confonde col rumore del mio respiro, che a sua volta si mescola con il suono distorto della chitarra di Jimi Hendrix che suona nel mio stereo e che pare andare a tempo con i miei pensieri, altrettanto distorti, altrettanto urlati, altrettanto violenti.

Non so a cosa penso, la sequenza dei miei pensieri è troppo sconclusionata per capirci qualcosa, per cavare alcunché di buono, alcunché di utile, qualsiasi cosa che possa servire a capire il perché del mio umore, il perché della mia ansia, la risposta alle domande che mi frullano in testa. E la chitarra smette di suonare per un attimo, lasciando il posto alla batteria, ed è allora che mi viene in mente la risposta. E’ allora che capisco cosa sto cercando, cosa sto agognando, cosa mi farebbe star bene. Mio padre.

E’ a lui che sto pensando, e mi accorgo che per la prima volta da anni non c’è odio in me, non c’è rabbia, non c’è dolore, non c’è rimpianto. C’è solo tristezza. Tristezza di non avere un padre accanto a me, di non poter vedere i suoi occhi o udire la sua voce, di non potergli dare fraternamente la mano come Luca la dà a suo padre quando questi ritorna dal lavoro, la tristezza di non poter litigare con lui per il volume troppo alto, per il poco studio, per il poco sport praticato, la tristezza di non poter vedere insieme la partita di calcio alla domenica, il calcio che a me neanche piace, che non mi interessa, ma che vorrei poter guardare insieme a lui, magari sgolandoci per la nostra squadra, facendo il tifo insieme. Ed è quella la sensazione che ho in quella notte di fine estate, mentre la canzone cambia e ne arriva una più veloce, più ritmata, una che non sta troppo bene con il mio umore. E così cambia il tempo, e all’improvviso non mi piace più l’odore della salsedine, il canto dei grilli notturni, le stelle luminose, ma vorrei le nuvole, la pioggia, il vento, perché è così che mi sento io dentro, così che sento la tempesta.

Il campanello suona, interrompendo il mio ricordo con il suo suono stonato e sgradevole, e mi costringe ad alzarmi. Apro la porta, sorridendo per un attimo, sapendo già chi sta suonando, chi è lì fuori ad aspettare che io gli apra. E quando la apro, quella porta, il mio sorriso non si spegne, ma anzi, diventa più largo, più vero, addirittura più bello. Perché lì, dietro la porta, c’è lui, c’è lui che mi guarda e mi sorride a sua volta e il suo sorriso è diecimila volte più bello del mio, e i suoi occhi paiono illuminare tutta la stanza con quel loro sguardo profondo, con quella luce così diversa, così affascinante, così misteriosa, quella luce che pare avvolgere tutta la sua persona, che pare accompagnare ogni suo passo, che pare infondersi in ogni sua parola, in ogni suo gesto. E, Dio mio, non riesco ancora a capire come io possa restare qui immobile davanti a lui senza parlare, senza muovere un solo muscolo, fermo a guardarlo, fermo a guardare colui che mi ha fatto scoprire la vita e la morte con un solo sguardo, che mi ha fatto salire in paradiso e discendere all’inferno con una sola carezza, che mi ha reso immortale e cadavere con il solo tocco delle sue labbra.

Quanto tempo è passato dalla prima volta. Quanto tempo.

Piove. E’ il mio primo giorno di liceo e piove, piove a dirotto, piove in una maniera incessante, continua, violenta. Non c’è freddo, non c’è vento, non c’è rumore, c’è solo pioggia che scende dal cielo e cade su di me, e mi bagna, mi penetra fino alle ossa, mi inzuppa, mi impregna, bagna le mie scarpe, i miei pantaloni stretti e sdrucii, i miei capelli coperti dal cappuccio della felpa nera, pioggia che cade ovunque, che lava ogni cosa, che batte contro i vetri delle finestre, contro le portiere delle macchine, contro la stoffa degli ombrelli. E io vado avanti,cammino sotto la pioggia senza alcun riparo che non sia la mia felpa leggera, e sono a pochi metri dalla scuola, dal liceo, e vedo Luca che arriva in lontananza, che mi vede, che si sbraccia per farsi vedere a sua volta, che mi sorride, che urla il mio nome. Luca. Mi strappa un sorriso constatare che ancora una volta sembra che i nostri vestiti facciano a cazzotti, che i miei siano l’opposto dei suoi, che le mie Converse inzuppate, sporche, nere, siano l’esatto contrario delle sue scarpe da ginnastica bianche, pulite, nuove di zecca, che la mia felpa nera sia l’ opposto della sua t-shirt arancio brillante, che i miei jeans stretti, neri, siano la perfetta antitesi dei suoi larghi, blu, vagamente sformati, che i nostri volti siano così diversi, nonostante tutti gli anni passati insieme, che i nostri occhi siano specchi dai colori opposti, che perfino i nostri sorrisi parlino così diversamente. Ed è un abbraccio la prima cosa che mi dà Luca appena arriva abbastanza vicino a me, un abbraccio forte, sincero, che parla di un’estate di lontananza, di avventure non vissute insieme, di voglia di parlare, di raccontare, di spiegare, di narrare.

E poco ci importa della pioggia che cade sulle nostre teste, che ci bagna sempre di più, che macchia le scarpe immacolate di Luca e increspa ancora di più i miei capelli.

E parlando con dei grossi sorrisi stampati in faccia, parlando accalorati, vivaci, felici di esserci ritrovati, parlando così, entriamo a scuola quasi senza accorgercene, camminiamo per i corridoi senza una meta precisa, ci dirigiamo verso una classe che non sappiamo dove sia e non ce ne importa nemmeno, e parliamo, parliamo, ridiamo e scherziamo, come se questi mesi di distanza non si siano ridotti ad altro che a pochi giorni.

E ci ritroviamo in classe quasi per caso, senza sapere bene come ci siamo finiti, e ci sediamo ad un banco vicino alla finestra, in modo che si possa guardare fuori durante i momenti di noia, momenti che si sa, sono parecchi, momenti che hai bisogno di guardare fuori, di respirare aria e osservare le macchine che sfrecciano sotto di te, i passanti, le mamme che portano a passeggio i bambini, le donne che escono dai negozi all’ora di pranzo, gli impiegati che si affrettano ad andare in ufficio. Ci sediamo lì e continuiamo a parlare sorridendo, e Luca è sempre lo stesso, sempre con quel sorriso felice sul volto, quel sorriso che è uno dei miei più cari ricordi, quel sorriso che solo ripensandoci mi mette di buon umore. Perché questo faceva Luca, questo era Luca: era buon umore, era allegria, era felicità, era gioia, era riso, riso che partiva dal cuore e prorompeva in gola, riso che era impossibile trattenere, che stessi facendo matematica in classe o passeggiando al parco, dovevi ridere, ridere, ridere e non smettere più. Luca.

E ci sei tu qui, davanti a me, seduto su una poltrona foderata di rosso con una gamba ripiegata sotto di te e l’altra penzoloni, e mi stai guardando sorridendo, un sorriso che non accenna a scomparire dal tuo volto, un sorriso obliquo, un sorriso malizioso, un sorriso che so perfettamente cosa voglia dire. E so cosa succederà tra poco, appena poserai la tua birra e ti avvicinerai a me, lo so perché è successo già centinaia di volte, e spero che succederà ancora altre cento, e poi altre mille, e poi ancora cento, e poi ancora mille, e comunque non saranno mai abbastanza,* perché io non ne avrò mai a sufficienza di te, perché io non mi stancherò mai di vederti sorridere così, con quelle tue labbra rosse, gonfie, che è un piacere mordere ancora e poi ancora, che è un piacere baciare, leccare, succhiare, quasi fino a vederle insanguinate, rotte. E io non mi stancherò mai di vederti ondeggiare leggermente verso di me, i capelli lunghi che ti coprono gli occhi, che non lasciano intravedere quell’espressione che io conosco a menadito, non lasciano vedere quegli occhi che sono il mio incubo e il mio sogno, quegli occhi che popolano le mie notti e i miei giorni, non mi stancherò di vederti avvicinare a me, di concedermi pian piano quella vicinanza che tanto bramo, non mi stancherò dei tuoi jeans strappati che ti coprono le gambe lunghe e magre, non mi stancherò del tuo giubbotto di pelle buttato in un angolo, non mi stancherò del tuo odore, quell’odore così particolare, quell’odore che è tuo, solo tuo, fatto di pelle, di fumo di sigaretta, di alcol, quell’odore che si mescola al mio, che si ogni volta si fonde e crea lo stesso aroma inebriante.

Siamo ragazzi ormai. Siamo cresciuti, siamo cambiati, siamo liceali insicuri e fragili, ma ormai siamo ragazzi. Ed è in quella sera che me accorgo, in quella sera così speciale, in quella sera che poi segnerà la mia vita, la mia intera esistenza, che sarà la sostanza stessa della mia esistenza.

La prima prova del nostro gruppo. Siamo nel mio garage, siamo quattro ragazzi con i loro strumenti in mano, quattro ragazzi che per la prima volta provano a suonare insieme, provano a riversare in una sola cosa tutte le loro emozioni, la loro rabbia, la loro gioia, il loro riso, le loro grida. E c’è Luca che fa scorrere le mani eleganti lungo la tastiera, mani esercitate da tanti anni di pianoforte obbligato, mani abituate a Mozart che ora provano a suonare il rock, mani che scorrono veloci quanto le emozioni del loro proprietario che sembra il meno adatto a quel garage, sembra il più spaesato, il più distante da quello che sta succedendo lì dentro. E c’è Giulio seduto dietro la sua batteria, portata lì qualche ora prima con sudore e fatica, Giulio che è alto, robusto, Giulio che ascolta il metal, Giulio che fuma, Giulio che ha lunghi capelli neri lisci, liscissimi, che gli cadono dietro la schiena, raccolti in una bassa coda di cavallo, Giulio che è diverso, Giulio che ha dieci in matematica e tre in latino, Giulio che è sempre serio, Giulio che non ride mai, Giulio che ha una ragazza di cui non sappiamo il nome ma che abbiamo visto diverse volte abbracciata a lui nei corridoi della scuola, nascosti dietro una colonna a baciarsi, Giulio.

E poi lì, appoggiato al muro consumato dall’umidità e dal tempo, c’è Alessio, il basso in mano, gli occhi bassi, le lunghe trecce rasta che gli sfiorano il volto, il labbro superiore che gioca con il piercing di quello inferiore, Alessio che ha già suonato con altri gruppi in passato, Alessio che è bello, bellissimo, Alessio che fa girare tutti quando passa per i corridoi, Alessio che non studia, non vuole studiare, che vuole solo suonare, suonare e suonare per tutto il giorno, Alessio che si fa le canne a scuola nascosto nel cortile durante l’ora di educazione fisica, Alessio che alla sua giovane età, solo sedici anni, sedici miseri anni, ha già girato il mondo, Alessio che vuole vivere in Irlanda, Alessio che suona come un Dio, Alessio che non si è nemmeno fatto pregare per entrare nel gruppo. E io sono lì, davanti alla batteria, mentre collego gli ultimi fili all’amplificatore, mentre decido cosa suonare, come comportarmi con gli altri, perché io sono una specie di leader in quel gruppo, sono io che l’ho messo su, sono io che ci metterò l’anima per portarlo avanti, sono io che darò sangue, sudore, voce e mani per quel gruppo. E mi rialzo, afferro la mia chitarra e guardo Alessio che mi sorride, Alessio che mi vuole mettere alla prova, che vuole vedere quanto io sia pronto, quanto sia bravo, che vuole ascoltarmi cantare con tutte le mie forze, che vuole vedermi suonare come non ho mai suonato prima. E faccio un cenno agli altri, accenno alla canzone, e guardo per l’ultima volta Alessio, e poi inizio a suonare, e la mia voce parte piano, sussurrandola quasi quella canzone, e poi aumenta di volume, e poi scende di nuovo, e la batteria di Giulio mi accompagna, mi dà il ritmo, e il basso di Alessio è come un martello nelle orecchie, e siamo fuori tempo, siamo poco pratici, poco esperti, ma quella canzone pare uscire perfetta, pare esser stata scritta apposta per noi, per essere suonata da noi, urlata da noi, e vedo Luca con la coda dell’occhio che ci segue arrancando con le dita sulla tastiera, che non ha il nostro stesso ritmo, la nostra stessa carica, ma che la acquisterà, dovessi suonare e cantare con lui giorno e notte, ma sarà pronto anche lui, saremo pronti tutti, saremo perfetti.

Ti pieghi su di me, come hai fatto mille altre volte, e i tuoi capelli mi sfiorano il volto, il tuo profumo mi invade le narici, sento il tuo respiro caldo sulla mia guancia, vedo i tuoi occhi che fissano i miei e non osano lasciarli. Le tue mani salgono, si posano sotto la mia maglietta e un brivido mi corre lungo la spina dorsale. E’ meraviglioso che dopo così tanti anni, così tante notti, le tue mani riescano ancora a farmi rabbrividire solo con il loro contatto sulla mia pelle. E quando le tue labbra si poggiano sulle mie, e sento il tuo sapore mescolarsi con il mio, sento la tua lingua che cerca la mia, che ci gioca, come succede ogni notte, come succede in ogni mio sogno, la mia mente vola oltre le pareti di questa stanza, torna a molti anni fa, torna a percorrere quella vita che mi ha portato fin qui, fin da te, fino a questo divano dove mi stai baciando.

Foto. E’ una foto del mio primo concerto quella che mi torna davanti agli occhi. Ho circa sedici anni, una maglietta nera che pare incollata al mio torace per quanto è sudata, un sorriso estatico sul volto. E’ il 1989, sono a Venezia, e sul palco davanti a me, su quel palco memorabile, ci sono loro. I Pink Floyd. Sono lì, sono davanti a me, sono su quel parco con le loro chitarre, con la loro musica, quella loro musica incredibile, allucinante, completamente fuori dagli schemi, quella musica che mi fa accelerare il battito cardiaco, che mi fa uscire dal mondo, che mi lancia in una situazione psichedelica, di estasi completa, dove il delirio è normale, dove non c’è più tempo, non c’è più spazio, c’è solo musica, e io sono lì, faccio parte di quella musica, sono in mezzo a quelle tremila persone che sono ferme, a bocca aperta, incapaci di muoversi, di parlare, di reagire a quella cosa meravigliosa che sta avvenendo proprio su quel palco davanti a noi. E in quella foto la mia faccia è esattamente quella di una persona estasiata, una persona che ha l’impressione di non trovarsi più semplicemente a un concerto rock, ma in un altro mondo, un mondo che ha sempre sognato, un mondo fatto di luci e di colori, di note, di suoni, dei rintocchi della batteria e le profondità del basso, un mondo dove si vive, dove si respira, un mondo che fino ad allora non avevo mai visto.

* Non ho potuto fare a meno di riprendere una citazione qui, mi dispiace. A chi interessasse si tratta di Catullo, e più esattamente del Carmen V. Perdonate questo piccolo riferimento, ma ci stava meravigliosamente.

Beh, che dire. Come avete notato si tratta di un capitolo piuttosto importante per lo sviluppo della vicenda. Vengono introdotti nuovi personaggi, anche se di qualcuno non sappiamo il nome, e succedono cose che porteranno ad delle inevitabili conseguenza.

Il titolo è una canzone dei Placebo (scusa se l'ho usato anche io dopo di te, Lem, ma era quello che ci voleva) e come potete vedere ci sono riferimenti al rock e ai suoi personaggi più importanti sparsi un pò ovunque.

Nonostante la povertà di commenti spero che a qualcuno piaccia questa storia (se vi piace, vi prego, ditemelo, che sto cominciando ad avere il blocco dello scrittorre!)

E, passando all'unica anima pia che ha commentato questo delirio...

Lem: Oddio, addirittura un incrocio tra Virginia Woolf e James Joyce?!? Beh, mi sento persino imbarazzata solo a pronunciare i nome di due geni del genere nella stessa frase dove c'è il mio... Onestamente non ho mai letto qualcosa della Woolf, ma provvederò al più presto, e per quanto riguarda Joyce...Ammetto che l'uso del flusso di coscienza è tutta opera sua (adoro Joyce), è uno stile che sento particolarmente affine. Per quanto riguarda le tue ipotesi ti dico solo che si, hai ben capito di chi si trattava nel capitolo antecedente, e che si, potresti fare la detective! Per sapere chi sia il "consumatore" del yaoi dovrai aspettare un pò, però! XD

Spero che questo capitolo sia stato all'altezza delle tue aspettative!

Per tutti gli altri che leggono grazie lo stesso, e ricordate i commenti (positivi e non) sono sempre bene accetti!!

Ciocco

  
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