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Autore: Narcis    05/11/2012    7 recensioni
Lui con la pistola puntata sotto il mento.
Lei con la lama lucente poggiata sul collo.
[...] Basterebbe un attimo ad entrambi: una piccola pressione di spada di lui, un minuscolo movimento di indice di lei; il più veloce uscirebbe vincitore, il più lento cadrebbe a terra con la gola squarciata in due o la testa forata da una parte all’altra.
Eppure nessuno dei due si muove.
« Ti uccido? Premo il grilletto e BUM!, finisci di patire, bastardo. »
« Potresti avermi già ucciso, piuttosto. »
« Lo stesso vale per te. »

[ Tratta da "Karakuri 卍 Burst" ]
Genere: Azione, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Len Kagamine, Rin Kagamine
Note: What if? | Avvertimenti: Violenza
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« Credi di essere scaltro? »
 
 
 
 
Una frazione di secondi, un lampo talmente veloce e furtivo da non essere visto da nessuno.
In un istante il colpo del ragazzo viene previsto ed evitato dall’assassina che, con uno scatto veloce, ci mette poco a piroettare in parte e sfiorare la lunga ed affilata lama della katana, evitando di essere trafitta.
Poi, con la stessa velocità di un ghepardo all’assalto della sua preda, la giovane estrae da sotto il kimono la propria pistola, una vecchia Nambu Tipo 14, ardente dalla voglia di sputare proiettili a raffica contro chiunque gli si pari davanti.
Ma è una battaglia ad armi pari, questa, non tanto per l’armamentario usato di per sé –una spada ed un’arma da fuoco non sono poi così simili- quanto, piuttosto, per l’astuzia e la mentalità con la quale viene affrontata da entrambe le parti.
Il giovane soldato, infatti, con un movimento rapido di braccia e gambe, ritira a sé di poco la katana, avvicinando pericolosamente e con un gesto furtivo la spada all’avversaria.
 
 
Lui con la pistola puntata sotto il mento.
Lei con la lama lucente poggiata sul collo.
 
 
 
 
« Tu sei prevedibile, invece. »
 
« Touché. »
 
 
 
 
La ragazza scoppia a ridere.
Una risata malvoluta, malsana, di cui l’altro avrebbe fatto volentieri a meno, tanto nervoso l’avrebbe potuto rendere.
 
Basterebbe un attimo ad entrambi: una piccola pressione di spada di lui, un minuscolo movimento di indice di lei; il più veloce uscirebbe vincitore, il più lento cadrebbe a terra con la gola squarciata in due o la testa forata da una parte all’altra.
Eppure nessuno dei due si muove.
 
 
 
 
« Ti uccido? Premo il grilletto e BUM!, finisci di patire, bastardo. »
 
« Potresti avermi già ucciso, piuttosto. »
 
« Lo stesso vale per te. »
 
 
 
 
Un duello, quello, che sembra più una contesa tra due bambini.
Due bambini che si litigano il turno per un gioco, o che fanno a gara per vedere chi dei due è il più forte, uscendone poi solo con qualche livido al massimo per andare subito dopo a giocare insieme con un pallone fatto di stracci.
Immagine che, tra l’altro, non sembra tanto diversa dal ricordo del giovane soldato biondo dalla benda sull’occhio, che a differenza della ragazza troppo simile a lui per essere vista come sconosciuta non ha la mente annebbiata dall’odio; non ha il cuore marcito dalla rabbia; non ha il bramoso desiderio di uccidere che gli scorre nelle vene e che funge da droga incurabile, dalla quale non si può tornare indietro.
 
 
 
 
« Uccidimi. »
 
 
 
 
Un’altra malata risata da parte della ragazza, la quale parola, più che una provocazione, sembra un invito vero e proprio, o forse un obbligo; o un’esigenza personale; tanto che arriva perfino a minacciarlo, premendo ancora di più la piccola canna della pistola sotto il mento dell’avversario.
 
 
 
 
« Uccidimi, ho detto! »
 
 
 
 
Dal suo unico occhio buono –bada che anche lei può vedere solo con uno-, scarlatto come il sangue delle tante vittime innocenti alla quale ha privato la vita, strabocca come acqua da un fiume in piena una malvagità ostile al suo stesso corpo, alla sua stessa mente, la quale sembra da una parte schiava di questo impulso di uccidere, da un’altra bisognosa di vedere qualcun altro soffrire, da un’altra ancora non pienamente cosciente di quello che le mani sono in grado di fare, tingendosi di quel color cremisi affascinante e tremendamente allietante.
 
 
 
 
« Non ha senso che io rimanga qui, no? So che lo stai pensando.
So di essere una bambola malvagia e senza cuore, spietata ed assassina.
Non merito di vivere. »
 
« Non ha senso uccidere ciò che è già morto. »
 
 
 
 
L’occhio turchese e severo del biondo, dalla quale trapela una sottile punta di vaga tristezza mista a malinconia, si riflette prepotentemente in quello rosso della giovane. Quest’ultima sembra sussultare, quasi non capire le parole dell’altro. Bene o male, lei è lì, in piedi, respira e si muove. Quindi non è morta.
 
Non fisicamente, almeno.
Moralmente, mentalmente,… beh.
È un altro conto, quello.
 
 
Lo sguardo del giovane soldato è vigile, attento, pronto a cogliere ogni movimento dell’altra.
L’attenzione che ripone su di lei è pari a quella di un padre verso la propria figlia, o di un fratello maggiore verso la propria sorellina.
 
 
Sorellina che rischia di essere portata via.
Sorellina che viene portata via.
Sorellina che maltrattano, dopo aver maltrattato il maggiore.
Sorellina che non vedrà mai più, se non in una situazione di tremendo conflitto.
Sorellina che si è persa, che non sa quello che fa, che non sa dove andare, che non sa a chi chiedere aiuto tanto è finita in un vicolo cieco, buio e senza fine.
Sorellina che forse perfino la morte non può salvare, non può rendere lieta.
 
 
 
 
« Perché non mi tagli la gola e basta? »
 
« …Perché? »
 
 
 
 
Stavolta è la lama del ragazzo a gravare sulla pelle dell’altra, tanto che quest’ultima, presa talmente tanto alla sprovvista da non essere nemmeno in grado di reagire sparando, è costretta a fare mezzo passo indietro, spinta dalla katana dell’altro. Il giovane non mira a sgozzarla, né tantomeno a torturarla. Gira in parte la spada, così da non fare del male alla bambola assassina, premendo comunque violentemente non dalla parte della lama sul suo collo, tanto che l’altra, sentendosi spinta e colta dal senso di soffocamento, finisce per barcollare all’indietro sui suoi stessi geta, cadendo rovinosamente a terra, sui glutei.
Non si fa male, ma di certo non riesce a reagire per la sorpresa nonostante tenga sempre stretta in una mano la pistola giapponese. Alza il viso, il suo sguardo confuso ed interrogativo incontra quello agghiacciante del gemello.
E’ arrabbiato, lui. Ma la sua non è una rabbia mista ad odio, bensì a compassione, a pena, a quella voglia di gridare al cielo tutte le imprecazioni possibili ed immaginabili, alternando offese ad interrogativi senza risposta volti a quella parte del passato che vorrebbe fosse cancellata, resettata e riscritta, così che il presente non sia davvero quello che sta vivendo ma che sia più roseo e pacifico; e soprattutto in compagnia di sua sorella.
 
Digrigna i denti, la lunga cicatrice sul naso che sbuca da dietro la benda si contorce sotto il rattrappimento della pelle del volto, il suo unico occhio buono è lucido di rabbia e risentimento, probabilmente dovuto da quel normale ma ingiustificato senso di colpa di chi si rammenta che avrebbe potuto fare qualcosa di più affinché non vi fossero riscontri negativi ahimé avvenuti.
 
Butta la katana a terra, in parte, lasciandola ricadere al suolo con un tintinnio metallico.
Stringe i pugni coperti dai guanti di pelle nera, nuovi di zecca, mai macchiati col sangue altrui; a differenza delle mani della ragazza, morbide e nivee, dalle dita esili ed affusolate, chissà quante volte lavati dal liquido scarlatto ancora caldo delle numerose vittime le cui grida disperate possono essere ancora percepite all’esplodere di ogni proiettile da quella maledetta Nambu Tipo 14.
 
 
 
 
« Tu osi chiedermi perché io non uccida mia sorella?! »
 
 
 
 
Il silenzio che ne segue viene interrotto solo dallo sbattere d’ali di pipistrelli, forse spaventati dall’impeto di rabbia del giovane soldato e quindi in corsa per spiccare il volo ed andarsene altrove.
 
Uno scambio intenso di sguardi diversi tra facce simili, troppo simili per considerarsi tra di sé aliene.
Il respiro affannoso di lui copre quello sottile e lieve di lei, ancora a terra, attonita, dalle labbra rosee schiuse per lo stupore o forse addirittura per l’imbarazzo di non aver preso in considerazione quel profondo legame di fratellanza che intercorre da anni tra di loro; tra quelle due anime crudelmente separate in un’età troppo innocente e tenera per riuscire a conciliarle insieme nuovamente con poco e soprattutto in poco tempo, soprattutto per le strade diverse ed opposte intraprese da entrambe.
Ma loro erano fratelli.
Loro sono fratelli, e sempre lo saranno.
E questo l’ha capito perfino la bambola assassina.
 
 
La ragazza chiude un attimo il proprio occhio buono, contemplando il silenzio.
Il giovane soldato, nel vederla in quel modo, si rilassa, rilassa i nervi, rilassa i muscoli, ed onora insieme a lei l’attimo, troppo bello per essere reale, in cui i ricordi di una dolce infanzia passata mano nella mano confluiscono da una mente all’altra, unendo le due povere anime pellegrine e perse, strappate dai loro destini in malo modo.
 
Un ghigno, una mezza risata; ma non di gioia.
Un angolo della bocca della ragazza si piega verso l’alto, ed ella riapre l’occhio.
Adesso il suo sguardo è rigido, fermo, irremovibile, forse tremante perché mosso da un leggero sentimento di pietà per sé stessa, ma comunque sicuro e deciso.
 
Il giovane la guarda dall’alto, incantato dalla sua iride scarlatta, tanto bella quanto peccaminosa, segnata per sempre dalla vista di centinaia di persone soffocate dalla morte imposta da quella stessa ragazza che è sua sorella.
 
 
 
 
« …Scusami, fratello…. »
 
 
 
 
Il cuore del giovane soldato perde forse un battito, più per l’emozione che per la sorpresa di quelle due semplici parole, cui non sa a quale delle due attribuire un valore più grande. Forse vuole essere perdonata, forse questa notte non finirà con uno spargimento di sangue, forse nessuno scapperà.
 
 
Il braccio della ragazza si muove lento, ed il fratello, improvvisamente allarmato, non sa se tenere lo sguardo fisso sul suo volto rilassato e coronato da un timido sorriso o se puntarlo sulla pistola, che la giovane punta alla propria tempia.
Il biondo trema. Vorrebbe gridare, vorrebbe fare qualcosa, ma è pietrificato. Per la prima volta dopo tanto tempo ha paura, e teme la morte corporale.
La morte per quella sorella che non solo era stata disconosciuta da lui e perfino da lei stessa, ma che adesso rischia di rimanere solo un ricordo vagamente candido per lui e un’immagine da oscurare nei libri di storia per chiunque l’avesse sempre vista soltanto come bambola assassina e senza cuore.
 
 
 
 
« ….Ma l’hai detto anche tu: sono già morta. »
 
 
 
 
 
 
 
I pipistrelli volano di nuovo, spauriti da quel boato e da quel grido disperato, spiegando le ali ed andandosene lontani.
 
Ed è silenzio nella notte.
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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