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Autore: elecam28    23/05/2007    3 recensioni
"Dove sono Bartemius, Regulus, Aberforth, Nicholas e Tom,
il rigido, il secondogenito, l’originale, il dotto e l’arrogante?
Tutti, tutti, dormono sulla collina."
Fanfic liberamente ispirata al capolavoro di Edgar Lee Masters “Antologia di Spoon River”, una rivisitazione personale in chiave HarryPotteriana. Da collocarsi anni dopo la sconfitta di Voldemort. E Harry? Vedrete alla fine.
Genere: Generale, Malinconico, Poesia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harry Potter, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Ginevra Weasley

 

 

Cosa volete?

Via, andatevene!

Non voglio parlare con voi.

Ancor mi fissate?

Via, v’ho detto!

Non voglio che anche voi mi odiate.

E non fate quella facce,

non guardatemi come se vedeste un folle!

Voi non capite,

nulla sapete.

Giudicate?

Ebbene, fatelo.

Mi può importar di più delle gocce di rugiada.

Conoscete la mia storia?

No.

Tacete, dunque!

Come dite, la sapete?

Voi sapete di ciò che ero,

delle mie lentiggini prepotenti,

della mia famiglia povera,

dei miei fratelli.

Questo è nulla.

Sì,

son io la piccola Ginny,

l’ultima figlia di una serie infinita,

l’ultima considerata da Harry Potter,

se non come sorella,

l’ultima per importanza in qualsivoglia cosa.

Non so chi scrisse di me,

ma tralasciò molto.

Harry, la Speranza.

L’odio.

A voi sembrava che lo amassi?

Vedete quanto poco vi è noto?

Lasciate che vi dica, dunque,

e poi andate.

L’amai dell’amore infantile e dolce

del primo arrossir d’infanzia.

Ignorata, allora.

Poi l’ebbi,

ancor non so come,

e mi sembrò la favola.

Oh sì,

lo sembrò davvero.

E d’un tratto,

quando le mie dita sembravano poterlo afferrare appieno,

mi lasciò,

sulle labbra parole d’onore, di rispetto, di responsabilità.

Allora l’odiai,

e mai smisi.

Sciocco, stupido, crudele!

Credeva che non sarei morta lontana da lui?

Mi disse di fuggire, di lasciare la mia terra,

di non morir in uno scontro incerto.

Mi condannò senza saperlo.

Per odio, per disperazione, per desiderio di vita,

decisi di ascoltare la sua voce forte

– oh, tanto forte;

almeno questo lo sapete –,

incurante delle lacrime materne,

della voce disperata dei fratelli,

di ogni altra cosa.

Me ne andai.

Codarda?

Non osate, sciocchi.

Solo io ho il diritto di accusarmi.

Sì, lo fui.

Ma ero ferita,

ferita a morte, credevo.

Sbagliavo, come sempre,

perché morii dentro in un altro momento,

di lì a poco.

Seppi che si era innamorato.

S’innamorò come non aveva mai sognato,

s’innamorò come non avrebbe mai dovuto.

Il conflitto ci divise tutti,

tutti ci disperdemmo,

e loro fuggirono nell’Europa straziata dal Marchio Nero.

Li seguii.

Non volevo, non potevo tornare indietro.

Il mio cuore sanguinante gridava odio,

gridava amore,

e i miei occhi avevano un’unica luce,

un unico viaggio.

Non seppe mai di me.

Passarono Roma,

passarono Parigi,

e io,

l’ombra dannata,

la figlia dispersa e mai tornata,

con loro.

Poi, la battaglia finale.

Morti, grida,

un orrore che ancor vivo,

che ancor vedo.

Ricordo bene l’odore acre,

la vista offuscata di lacrime e stille purpuree,

le mani intrise di fango, di capelli, di carne,

e il premere dei corpi sul mio.

Caddi perché,

come lui sapeva,

non ero pronta:

un Esercito segreto non è la guerra.

Caddi perché ero giovane,

caddi perché odiavo troppo;

e come me,

caddero i nemici.

Uno ad uno,

cuore a cuore.

Cadde Lui,

il Lui di cui ancor non oso dire il nome.

E tutti gli altri,

tutti noi,

tutti loro.

Chi non venne non morì,

chi non volle sporcarsi le mani insieme alla Speranza non perse la vita.

Noi che fummo,

che scegliemmo di seguire la nostra unica via,

per primi giungemmo sulla Collina.

Ma io vi giunsi con un peso in più sul cuore,

perché quand’egli mi vide,

sulla nuda terra madre,

mi prese tra le braccia e pianse.

Pianse anche me,

mi pianse perché credette che fosse sua la colpa.

Mi pianse allo stesso modo di tutti gli altri,

il suo amore perduto,

i suoi amici,

il suo mondo.

E io,

che tanto l’avevo ferito con le fredde parole,

che tanto l’avevo odiato per avermi voluta salvare,

venni amata e rimpianta anche nella morte,

come non meritavo.

Ancor adesso maledico il Fato,

credete alle mie parole.

Lo maledico per me e per lui,

per chi come me d’amore s’è dannato,

per chi come lui dall’amore è stato soltanto usato.

E maledico lui,

Harry,

maledico i suoi occhi,

le dannate lacrime che versa per il mio nome,

le vecchie rughe sul suo viso stanco,

i minuti che ogni giorno trascorre a sussurrarmi scuse.

Maledetto, maledetto eroe,

non capisci che io fui l’assassina?

Non capisci che io mi lasciai trasportare dall’amore

per morir nell’odio?

Tu mi volesti salvare, maledetto, maledetto...

ed io morii perché t’odiavo,

perché volevo con ogni fibra del mio essere poterti dire

che ti sbagliavi,

che ero viva ed ero forte,

che ero diversa da come tutti mi vedevano.

Me misera, me stolta, me sciagurata!

Non ero forte,

ero come tutti mi vedevano

– piccola, debole, stupida e immorale –,

e non rimasi in vita.

Cosa dite ora, astanti?

Piaciuta la commedia, la tragedia, il dramma?

Non v’è un lieto fine.

Paghereste un’altra volta il biglietto per la mia storia?

Sacrifichereste la vita per interpretare un ruolo?

Nessuno parla di me,

l’Elena innamorata del suo lontano Demetrio.

Questo non è un sogno di mezza estate,

io non sono attrice,

ne’ fanciulla innocente,

e la mia è una notte eterna.

Ma andatevene, andatevene, giudici ciechi!

Lasciatemi,

lasciatemi sola,

come fui e come sono.

Ora che sapete andate a narrare,

raccontate dell’ingrata,

della folle,

della bambina viziata.

Ricordate? Rugiada, rugiada.

E tu,

tu che hai sacrificato tutto per un amore che non hai ottenuto,

tu che hai perso e dato,

tu che cammini tra noi spettri e ci parli come ai vivi,

tu che mi guardi e piangi e ti maledici,

non senti le mie parole?

Io ti maledico,

essere perfetto,

Speranza dei morenti,

Speranza dei vinti e dei vincenti.

Perché mi piangi ora,

perché t’incolpi ancora,

perché mi strazi l’animo infangando il tuo,

e perché tua era la ragione,

e mio il torto.

  
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