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Autore: WhiteWinterLady2    08/11/2012    1 recensioni
“È strano”.
“Cosa?”.
“Come sia tutto più semplice quando ci sei tu”.
Angela ha fatto una scelta: a vent'anni ha deciso di abbandonare la casa dove ha sempre vissuto per avventurarsi in una città nuova e sconosciuta. Ha inscatolato per bene le sue cose e i suoi sogni e si è lanciata verso l'ignoto.
Il suo tempo scorre uguale e monotono tutti i giorni: sveglia puntata sulla stessa ora, lavoro, affitti da pagare, spese da sostenere, luoghi in cui ambientarsi. La solita routine. La solita vita che si ripete. Le solite scene già viste. Mentre la felicità, quella vera, sembra essere solo un'utopia.
Finché non accade un incidente... Un bell'incidente.
PS: Non siate timidi, fatemi sapere le vostre opinioni ;D
Genere: Commedia, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Quando la sveglia suonò, come tutte le mattine, pensai che sarebbe stata una giornata stancante di lavoro, come sempre. Avevo sempre amato dormire; purtroppo per me, però, il dovere dettava legge, imponendomi un numero limitato di ore di sonno, sempre non sufficienti, secondo il mio parere. Così mi alzai di malumore dal letto e mi diressi nel bagno.

Lo specchio restituì il mio riflesso: già immaginavo Rossella che come tutti i giorni osservava: “Che brutta cera che hai, Angela. Ti trovo stanca”.

“ Non è nulla, Ross. Solo il mio solito pallore”.

Lei scuoteva la testa, con disapprovazione. “È che non mangi abbastanza, dolcezza”.

“Oh, no, te l'assicuro. Per fortuna c'è chi mi vizia”, replicavo allegra. Evidentemente mi riferivo a lei e a pochi altri, così la grossa signora della macelleria del supermercato sorrideva e, per l'imbarazzo, diventava rossa come il sangue che impregnava il suo grembiule.

Lavoravo là, al Super Market Sempre Pronto, come cassiera. Ero stata fortunata, perché, quando mi trasferii nella mia nuova casa, ebbi quasi immediatamente un impiego sicuro a pochi passi dall’appartamento. Non che ricevessi uno stipendio da favola, certo, però a vent’anni era già molto aver trovato in poco tempo una sistemazione e i soldi con cui iniziare a pagare l’affitto, anche se non bastavano mai e a stento riuscivo a coprire tutte le spese.

E qui arrivò la mia seconda fortuna: la signora Esposito, proprietaria insieme al marito e al figlio di una pizzeria, La Bella Napoli, che, neanche a farlo apposta, si trovava di fronte al mio appartamento.

La signora faceva rifornimento tutti i giorni al supermercato degli ingredienti necessari per le pizze. Le bastò un colpo d'occhio per capire che non ero del posto. Infatti mi domandò: “Sei nuova di qui, non è vero?”. Una domanda retorica, ovviamente.

Fu così che attaccò a raccontare dei tempi in cui anche la sua famiglia si era stabilità lì da poco, di come i clienti fossero inizialmente diffidenti e di come la qualità eccellente della sua pizzeria li avesse successivamente convinti e conquistati. Ricordo ancora la coda immensa che si era creata dietro di lei alla cassa, e di quanto, convinta di avere un pubblico assai numeroso, la signora Esposito fosse su di giri, tanto che prese a parlare a voce ancora più alta e con più enfasi. Alla fine del suo comizio, senza che avessi proferito parola, annunciò di avermi preso in simpatia, e giurò che, se avessi avuto delle difficoltà, non dovevo esitare a chiedere aiuto a lei. Presi la palla al balzo: avevo bisogno di un secondo lavoro.

Così iniziai a lavorare in pizzeria, tutti i mercoledì, i venerdì e i sabato sera, come pure le domeniche mattine.

Audaces fortuna iuvat, la fortuna aiuta gli audaci. Decisamente, la sorte era dalla mia parte e per ora non osavo sperare di meglio. Poteva bastare.

Mantenere un ritmo del genere, comunque, si rivelò un’impresa folle: fu chiaro un paio di mesi dopo. Ogni giorno ero in piedi alle sei; alle sette del mattino iniziavo il mio turno e staccavo alle sette di sera, con una pausa pranzo di circa un’ora. In totale, erano più di otto ore di lavoro giornaliere. In effetti, gli affari non giravano tanto bene per i proprietari, poiché la costruzione dei nuovi centri commerciali aveva alimentato una concorrenza dalla quale il Super Market Sempre Pronto era uscito evidentemente sconfitto. Perciò il personale scarseggiava e una delle poche persone disposte a rimanere tutto il giorno lì, non avendo né famiglia né amici, ero io.

L’unica mia compagnia in quella nuova città desolata era Elena, mia collega al supermercato: trentenne, divorziata e con una figlia dodicenne da crescere. Insomma, una vera donna guerriera del XXI secolo, la signora che porta i pantaloni e i soldi a casa, profondamente femminista e fumatrice accanita, nonché armata sempre della risposta pronta come un soldato per la guerra. Era forte, battagliera, sembrava in uno stato di perenne autocontrollo. Non appena la conobbi, mi imposi subito di prenderla come modello: era l'unico modo che avevo per sopravvivere. Però avrei giurato che ogni tanto, di notte, da sola nel suo letto, anche lei come me avesse pianto.

Una volta finito con il primo lavoro, subito mi aspettava l’altro. La pizzeria era straordinariamente famosa, sia nei dintorni che fuori, e perciò sempre straordinariamente affollata. Le ordinazioni si susseguivano senza sosta; c’erano tavoli da pulire, pizze da consegnare, e di nuovo ordinazioni. In genere la signora Esposito si occupava della cassa e delle stoviglie sporche, mentre il marito e il figlio erano addetti alla cucina. Restavamo spesso aperti fino a notte inoltrata, anche se accadeva quasi esclusivamente il sabato sera, quando coppiette di ogni età, gruppi di amici adolescenti, amanti, parenti, si davano appuntamento per quattro chiacchiere e per gustare il frutto delle magiche mani del signor Esposito (e degli ingredienti del Super Market Sempre Pronto).

 

Uscita di casa, fui subito investita dall’aria fresca e pungente del mattino. Il sole non era ancora riuscito a scavalcare i tetti dei palazzi, ma se ne poteva avvertire comunque la presenza grazie agli splendidi giochi di luce sulle nuvole: rosse, rosa e azzurre insieme.

Per strada non incontrai nessuno. Nell'era della tecnologia, era scontato che la gente preferisse la macchina ai propri piedi; la vita frenetica della città le aveva rubato il tempo, dunque anche la possibilità di scegliere. Ai giorni nostri, il tempo è un lusso per pochi eletti. O almeno così si dice.

Il mio ritmo aveva dovuto adeguarsi: passo svelto, pochi sguardi in giro, nessuna confidenza. Ma, nonostante tutto, non potevo evitare di lanciare qua e là occhiate affascinate, meravigliata del fatto che ancora, sebbene seguissi lo stesso percorso quotidianamente, alcuni dettagli mi erano sfuggiti, fosse soltanto il nuovo allestimento delle vetrine. Del resto, io, andando a piedi, avevo il privilegio di gustarmi un po’ la vita di una città indaffarata.

Per cui camminavo con aria sognante.

Ma subito lo stridio acuto dei freni di un'auto mi fece sobbalzare: un gatto nero le aveva appena tagliato la strada, rifugiandosi poi tra i cassonetti. Non potei trattenere le risate alla vista del guidatore, una donna, che si faceva il segno della croce e altri tipi di spergiuri. Ah, la superstizione!

Arrivata all’angolo della strada, m’imbattei nel primo essere umano che viaggiasse senza l'ausilio di una scatola di latta con le ruote: una vecchina canuta, spingendo una bicicletta carica di buste, dopo aver guardato a destra e sinistra, attraversò sulle strisce ciondolando. La osservai incuriosita: era formosa, ma in un certo senso elegante. Mi incantava il modo in cui, apparentemente senza sforzo, reggesse la bici pesante e allo stesso tempo muovesse le sue forme possenti.

Tutto a un tratto, però, la donna si fermò, là dove il marciapiede formava un angolo retto. Per terra giaceva un barbone, stretto intorno ai suoi abiti stracciati.

Lo guardò incerta, con la fronte corrucciata, ostentando una falsa indifferenza. Rallentò; spostò il peso da una gamba all’altra. Alla fine estrasse un borsellino, talmente piccolo che scomparve tre le sue mani grassocce, ed ne cavò delle monete; le allungò all’uomo, che però non sembrò interessato all’offerta: scosse leggermente la testa. L’anziana donna, allora, parve confusa; per un momento persino offesa. Infine decise di proseguire. Fatti alcuni passi, tuttavia, ci ripensò, e adagiò le monete di fianco al barbone, ricevendo in cambio un cenno di ringraziamento e quello che doveva essere un sorriso.

Svoltai l'angolo, lasciandomi i due alle spalle. Intanto la città sembrava finalmente essersi svegliata: alcune casalinghe aprivano finestre, uomini in giacca e cravatta consumavano velocemente la colazione seduti ai tavoli dei bar, un’autoambulanza iniziava di buon mattino ad assolvere il proprio compito, qualcuno correva a prendere il treno o il pullman.

Infine i miei occhi si posarono su Elena, che, come sempre, fumava la sua prima sigaretta della giornata (anche se io ho sempre dubitato che fosse la prima) in piedi, appena fuori l'uscita del supermercato.

“Buongiorno” mi accolse sorridendo.

“Buongiorno”.

“Mi sa che nemmeno stamattina Rossella avrà pietà di te”.

Sospirai. “Che ci posso fare? È la mia faccia. E, finché non avrò i soldi per farmi una plastica, mi conviene tenermela; non ne ho una di scorta”.

Elena spostò la sigaretta di lato, tenendosi il gomito con l’altra mano. “Tesoro, se continui a fare questa vita, nemmeno la chirurgia estetica riuscirà a salvarti. Ma lasciando perdere i rimedi artificiali, conosco un'alternativa naturale che, sono sicura, ti tirerà un po’ su”. Mi sorrise come solo lei era capace di fare, sollevando un angolo della bocca e mostrando i canini: l’espressione di chi ha trovato la soluzione del problema e tutti gli altri no. Personalmente speravo che mi consigliasse un buon medico o farmaci da comprare in un erboristeria.

Quello che mi disse però fu altro.

“Stasera esci con me”.

Sgranai gli occhi e involontariamente la mia bocca formò una grossa O. Inutile dirlo, la mia faccia doveva sembrare quella di un bambino il giorno in cui gli viene detto che Babbo Natale non esiste, o quella di un commensale che, volendosi servire il bis, si vede soffiare via l'ultima porzione. In ogni caso, una faccia da ebete.

“No, no, non posso”.

“Oh, andiamo, Angie! Stai diventando uno zombie a furia di lavorare e basta. Guardati! Sei un essere umano anche tu, santo cielo; prima o poi cederai se non ti concedi un attimo di svago!>>.

Ci pensai su. La proposta mi faceva tremendamente gola; erano mesi che non uscivo di casa per andare a divertirmi. E, a ben pensarci, anche se avessi voluto, non avevo amici con cui uscire né conoscevo i posti giusti. Non mi era mai venuto il mente di chiederlo ad Elena, soprattutto perché...

“Ehi, aspetta un attimo. E Jessica? Non vorrai mica lasciarla da sola, vero?”.

Jessica era la figlia di Elena, una bambina che avevo visto molto poco, anche se al primo sguardo non avevo notato nulla di innocente in lei. Era già adulta, o almeno si sforzava di apparirlo.

“La nonna non avrà nulla da ridire. Piuttosto farà la predica a me; vedrà bene di ricordarmi di non portare un uomo buono a nulla come il mio ex marito, e soprattutto di non tornare a casa incinta”.

Era infatti così che aveva conosciuto il padre di sua figlia. Una storia nata da semplice attrazione fisica e nulla più.

“Mia madre può stare tranquilla”, sbottò, come scacciando antichi pensieri; ma subito dopo, come se non avesse detto niente, in tutta serenità aggiunse: “Stasera si va a caccia di giovanotti!”.

Alzai gli occhi al cielo e scossi la testa. “Mica li odiavi, gli uomini?”.

Elena fece un ultimo tiro, poi lanciò il mozzicone nel tombino ai suoi piedi. Alzò piano la testa e fissò i suoi occhi chiari come il ghiaccio nei miei. “Chi ti ha detto che voglio averci qualcosa a che fare? Voglio vederli soffrire- Voglio farli crepare di desiderio”.

Mi rivolse lo stesso sorriso di prima, solo che ora era intinto di un nuovo significato. Mi stava facendo venire i brividi, e subito mi pentii di tutte quelle volte in cui riflettevo che, se la reincarnazione non era una favoletta, avrei voluto nascere uomo, perché mai avrei fatto a cambio con gli esseri umani di sesso maschile che avessero anche distrattamente incrociato la strada di Elena.

“Comunque oggi non posso uscire. Devo lavorare in pizzeria, lo sai”, dissi quando mi fui ripresa.

Elena sbuffò. “Dai, la signora Esposito è pazza di te, e suo marito è buono come le pizze che cucina! Non si arrabbieranno se per una volta non vai”.

Abbassai gli occhi. “Non so...”, borbottai.

La verità era che mi sembrava ingiusto approfittare della gentilezza dei mie capi solo perché volevo andare a divertirmi; ma forse avrebbero capito: in fondo era mercoledì e la gente era poca. Una possibilità poteva esserci.

“E va bene”, mi arresi alla fine. “Verrò con te stasera. Ma dove mi porti?”.

Il sorriso di Elena occupò tutto il viso in larghezza: per un momento mi sembrò ringiovanita, a tal punto da ritornare adolescente e rivivere i momenti che una gravidanza precoce non le aveva concesso di gustarsi. “Vedrai, è un posto veramente carino: non troppo affollato, buona musica, ottimi cocktail. Ti piacerà”.

Sembrava non essere felice così da molto tempo, e io non tardai a farmi coinvolgere. “D’accordo allora. Più tardi telefono in pizzeria e chiedo un giorno di permesso”, riassunsi.

“Non potresti aspettare che la signora Esposito venga a fare la spesa?”, mi fece notare Elena.

Feci una rapida riflessione, poi costatai: “No, creerei una coda lunghissima alla cassa: la signora è molto loquace”.

“L'ho notato”. Elena ridacchiò. “Be', in realtà l'hanno notato tutti”. Nel frattempo eravamo entrate nel supermercato e stavamo indossando le nostre divise.

“Il figlio non ha proprio preso dalla madre...”.

“Chi, Matteo?”, chiesi stupidamente io. Era il loro unico figlio, logico che Elena stesse parlando di lui; infatti non mancò di sottolineare la mia stupidità con un'occhiataccia. “Credo che quel ragazzo abbia un debole per te”.

Lasciai stare i bottoni del grembiule per un attimo per fissare sbigottita la faccia divertita della mia amica. “E tu che ne sai?”

“Mah, girano voci...”.

“E cosa direbbero queste voci?”.

“Stasera ne riparliamo. Ora ci conviene sbrigarci, mi sa che oggi il capo ha messo per terra il piede sbagliato, quando è sceso dal letto”.

La mia prima preoccupazione, quando arrivò la pausa pranzo, fu prendere il telefono e chiamare la signora Esposito, la quale, con mia meraviglia, sembrò contenta che per una volta pensassi un po' a me e mi svagassi, perché, diceva, era la conferma che mi ero ambientata.

“Ma certo che puoi prenderti una sera libera, cara”. Non c’era bisogno di vederla per capire che la mia salvatrice aveva le guance rosse e piene per il sorriso. “Lo sai che per me sei come una figlia, ormai”.

Il suono di quelle parole fece crescere in me un calore che non provavo da tempo.

“La ringrazio con tutto il cuore, signora”.

  
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