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Autore: lupabianca    10/11/2012    2 recensioni
"Potrei amarti. Ho sempre pensato che fossi perfetta per me. Fin da quando eravamo piccoli e giocavamo a tirarci la terra e le bambole pensavo che ci saremmo sposati, un giorno. Ma il fatto è che non ci riesco più. Il mio cuore è stato rapito da un'altra."
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Cecilia cercò qualcosa su cui posare gli occhi nel comunissimo, anonimissimo muro giallo ocra. "Chissà perchè usano sempre questo colore nelle scuole" si chiese. Spostò il peso del corpo da un piede all'altro. Era un quarto d'ora che aspettava di essere ricevuta dalla preside. Con una mano si spostò i capelli neri dietro l'orecchio: era estremamente a disagio. Ma non solo perchè stava per entrare a far parte di una nuova scuola, ormai era abituata. Piuttosto perchè si trovava in compagnia di suo padre. I suoi rapporti con lui non erano mai stati dei migliori e quando era morta sua madre la situazione era degenerata. Vivevano, o forse si dovrebbe dire convivevano, nella stessa casa, è vero, ma cercavano di evitare il più possibile la compagnia l'una dell'altro. Era da anni che non aveva un discorso serio con suo padre, perchè ogni volta finiva che litigavano, ognuno che criticava lo stile di vita dell'altro. E piano piano si era creato un solco, sempre più grande, che li aveva allontanati e fatti diventare due perfetti sconosciuti che tuttavia condividevano i ricordi di una stessa vita passata. Ed erano proprio questi ricordi a metterli più a disagio quando erano insieme, essendo gli unici ricordi felici che avevano, e in segreto entrambi speravano di tornare a condurre la vita di un tempo senza rendersi conto che non era possibile, soprattutto se continuavano così. Per questo motivo Cecilia stava odiando con tutte le sue forze quell'attesa che sembrava durare anni, quello squallido corridoio davanti all'ufficio della preside, il silenzio teso che la separava da suo padre. Lui cercò di aprire un discorso, ma come al solito sbagliò approccio: "Certo, ti saresti potuta vestire meglio. Come puoi pretendere di fare buona impressione se vai in giro vestita come... come una punk degradata o una cacciatrice di vampiri?!" Cecilia sospirò, era stanca di dover sempre discutere della stessa cosa. "E non sospirare!" "Come mi vesto non sono affari tuoi! Se così mi sento più protetta, tu non ci puoi fare niente!" Non avrebbe mai abbandonato la sua armatura, il suo scudo contro il mondo esterno. Vestirsi in modo che metteva paura e soggezione era l'unico modo che aveva per tenere lontana la gente da lei, l'unico modo che aveva per proteggersi e per sentirsi più forte di loro. L'unico modo per tenere nascoste le sue debolezze, la sua timidezza, che altrimenti sarebbero state usate contro di lei. Nessuno l'aveva mai capita o ascoltata, tutti l'avevano sempre e solo derisa per il suo comportamento strano e per il suo carattere sfuggente, che le avevano sempre impedito di farsi qualche amica. Solitudine... solo lei sapeva dire cosa fosse realmente, un senso di abbandono e di tristezza più totale, la consapevolezza di non essere come gli altri, l'odio e il geloso amore che provava verso se stessa, poichè non era mai stata abituata a provarlo verso qualun altro. Da quando era morta sua madre, otto annni prima, Cecilia non era più stata felice, il suo carattere era diventato ancora più schivo, tormentato e scontroso e si era chiusa nel suo mondo, escludendo tutti. Aveva cambiato due volte scuola alle elementari, una perchè aveva picchiato un bambino, un'altra perchè aveva urlatocontro la maestra, spinta dalla rabbia accumulata nei confronti del mondo. Alle medie c'era stato un periodo di calma, anche perchè il padre aveva rinunciato a pensare che nelle altre scuole sarebbe stata meglio e aveva capito che il problema non erano gli altri, ma lei. In primo liceo aveva picchiato un ragazzo perchè ci aveva provato con lei, e da quel momento nessuno le si era più avvicinato, per il suo sollievo, ma tutti avevano cominciato a sparlarle dietro, i bisbigli maligni delle altre ragazze l'avevano perseguitata. Aveva provato a tornare alla stessa scuola, quell'anno, essendosi ormai abituata, ma una ragazza un giorno le aveva detto in faccia che pensava fosse un essere spregevole, una malata, ed Cecilia l'aveva mandata all'ospedale con il setto nasale rotto. Il preside l'aveva minacciata di espellerla e di bocciarla, così lei  aveva deciso di andarsene da sola. Per questo si era iscritta, quasi a metà anno, in quella nuova scuola. Quando l'aveva visitata per la prima volta, durante le vacanze di Natale, aveva sentito che forse lì avrebbe potuto costruire qualcosa, che quella sarebbe potuta diventare la sua casa. Ci teneva a fare bella figura, ma non aveva potuto fare a meno di vestirsi così. La maglietta con le borchie sulle spalle e un teschio disegnato, i jeans stretti con le catene che tintinnavano dalla cintura, i grossi anfibi, tutto rigorosamente nero, le dava un'idea di massiccia potenza che non aveva, e odiava e amava quasta dipendenza con tutte le sue forze. Ma anche il padre, con la sua aria ipocritamente impeccabile, la induceva a vestirsi così, come ribellione verso di lui e le sue stupide regole di rigorosità, che puntualmente tutte le sere infrangeva per andare a ubriacarsi in qualche pub, dove si giocava lo stipendio. Era stato segnato dalla morte della moglie quanto lei, ma aveva reagito peggio di una bambina di otto anni. Non era stato capace di riprendersi dal dolore e da quel momento aveva a mala pena sopportato la presenza di Cecilia in casa, l'unico legame che gli era rimasto con la moglie che tanto avrebbe voluto dimenticare, ma lei glielo portava sempre alla memoria, con la sua sorprendente somiglianza alla madre. Non l'aveva riempita di affetto e di attenzione come gli altri padri avrebbero fatto, anzi, l'aveva scansata, allontanata da se con fastidio, costringendola a dover imparare a farcela da sola e lasciandola sola ogni sera. Da piccola Cecilia sofriva per il comportamento del padre, ma adesso, se lo trovava in casa, usciva, ed aspettava con impazienza la sera, quando sarebbe potuta stare da sola, in pace, a casa, lei e il suo gatto Randagio.
Finalmente la porta si aprì, strappandola dal suo disagio, e un signore uscì dall'ufficio della preside. "Prego, entrate" disse una voce dall'interno. Cecilia e suo padre entrarono, ritrovandosi in  un ambiente piccolo, pulito e accogliente. Le pareti, escluse quella da cui si accedeva e quella con un finestra che dava sul cortile, erano ricoperte di libri, anche questi tenuti bene. In ogni spazio libero della stanza vi erano vasi con piante particolari, e al centro vi era una scrivania stracarica di scartoffie e registri vari, dietro cui si intravedeva la testa di una piccola signora anziana. Quasta si alzò, stringendo loro le mani calorosamente. "Sono la professoressa Tamarri" si presentò. "Tu devi essere Cecilia Sasso" le sorrise benevolmente. "Essattamente, professoressa" disse la ragazza. La preside le piaceva. Era piccolina ed esile sì, ma ispirava grande autorità. Gli occhi acuti penetravano a fondo, senza fermarsi davanti alle apparenze, aveva l'aria simpatica e amorevole, ma anche un cipiglio severo che faceva capire che la sua autorità non poteva essere contestata. Davanti a lei Cecilia sentì per la prima volta che voleva fare buona impressione, ma non le importava di essere vestita da "dura", come diceva lei, perchè sapeva che quella vecchina avrebbe l'avrebbe capita.
  
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