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Autore: Rhiane    11/11/2012    0 recensioni
-Allora puoi tornare a rifletterci su, non era tanto male quella canzone Dolcezza– la spintonò dolcemente Damon, incoraggiandola a continuare.
Il tempo di chiudere gli occhi e di ripensare alla note e Kaya fu sopraffatta da un'ondata di ricordi: la depressione, l'arresto, la fuga, l'odio, il ritorno, casa, la spiaggia e la canzone che aveva amato fin da quando se l'era sentita tremare tra le dita. Pensò a Elizabeth, a Dan, a Megan, a Blaine, a Tess e a Lucas. Pensò a Rick e a Kristen per i quali, dopo tutto quello che era successo, provava solo dispiacere. Poi a John e alla promessa che gli aveva fatto e che aveva infranto subito dopo avergli voltato le spalle, a suo padre che aveva lasciato illudendolo su un futuro migliore, a Will e ad Emma che le mancava come l'aria, ma che non aveva il coraggio di chiamare.
Ed infine ad Aiden e al tempo che avevano passato insieme, quel tempo in cui aveva imparato che il sentimento d'odio non cammina mai da solo, che tutti meritano una seconda possibilità e che l'amore non fa così paura.
Anche se non glielo aveva mai detto.
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Dedicato a te,

che mi sostieni, mi supporti e mi sopporti.

Grazie Ang.

 

E dedicato anche a te, Marmocchio!

A te e alla tua mamma,

quella pazza e stupida, stupida, stupida vecchia amica...

Sister.

Al tuo Aiden (sento che sceglierai questo come nome) in ricordo del mio Aiden,

tanti auguri!

 

Come ti ho già detto,

so che sarai una mamma fantastica. 
 

 

CAPITOLO 2

 

Nomi del passato

Mangia qualcosa.

Non ho molta fame. – rispose la mora, mentre cercava qualcosa di vagamente commestibile per i suoi gusti in quel piatto dai calori dell'arcobaleno.

Speranza del tutto vana sfortunatamente, constatò lei, ed esasperata lanciò dall'altra parte del tavolo uno sguardo di supplica, non trovando però né compassione né comprensione.

Non starò a ripetertelo ancora. – asserì infatti con voce scura Robert, prima che la figlia lo guardasse questa volta tra lo scherno e l'offesa.

Infatti non c'è n'è alcun bisogno, Papà. – sospirò, allontanando una volta per tutte il piatto – Ormai sono grande. Posso votare, mangiare quello che mi pare e piace e scappare di casa senza che i miei genitori debbano esserne informati!

Inizialmente Robert rimase in silenzio, poi si lasciò scappare un sorriso – Peccato che sei passata dalla casa di un genitore all'altro.

Kaya alzò le spalle, come a dire “cose che capitano” e cominciò a sparecchiare visto che anche il padre aveva finito.

Mentre riponeva ogni cosa al suo posto la mora ripensò al pomeriggio che avevano passato insieme, dopo tanti anni, e amaramente dovette riconoscere che le era mancato l'odore del dopobarba del padre, la stretta forte che era sempre riuscita a infonderle calore fino nel profondo e quel senso di leggerezza che le conferivano i loro silenzi.

Silenzi non carichi di dolore e delusione come capitava quando stava con sua madre, quelli erano silenzi di ritrovo, gioia e speranza.

Papà, sei qui.

Subito dopo la stazione si erano diretti senza tante cerimonie alla vecchia casa sulla spiaggia e dopo tutte le piogge, le tempeste e il tempo Kaya aveva potuto notare che quella vecchia baracca era sempre la stessa.

Da rottamare, aveva pensato lei con un largo e lungo sorriso in volto.

Suo padre le aveva aperto la porta con il cuore in gola, sapendo che anche la figlia si ritrovava nella stessa situazione e le aveva lasciato il tempo di abituarsi a quei piccoli cambiamenti che aveva subito l'arredamento. Se fosse stato per Robert tutto sarebbe dovuto rimanere come quattro anni prima, proprio nell'attesa di quel momento, ma forze superiori glielo avevano proibito. Così si era dovuto adattare e aveva sperato che Kaya non ne rimasse troppo delusa.

Fortunatamente lei non se l'era presa per quei cambiamenti e anzi gli aveva sorriso, accennando al fatto che la casa non era mai stata così “decente” e che puzzava di “mano di donna”. Ovviamente Robert aveva fatto finta di nulla e aveva velocemente indicato a Kaya la sua vecchia stanza accanto a quella del fratello.

Lei non si era mai sentita così felice come quando si era buttata a capofitto nel suo vecchio e sgangherato letto e aveva osservato il soffitto a occhi chiusi, lasciandosi cullare dal rumore delle onde lì vicino.

Poi avevano chiacchierato, lei e suo padre, e per la prima volta avevano parlato di tutte quelle cose che erano successe in quegli anni lontani e che non si erano detti per orgoglio e dolore.

La Mamma e il suo nuovo amichetto Steve...

Entrambi erano rimasti d'accordo sul fatto che “Steve” era un nome per idioti e Kaya aveva aggiunto che, sopratutto quello, era uno dei peggiori della specie. La mora aveva informato il padre che fin da subito colui-che-era-meglio-non-nominare-per-preservare-la-salute-di-entrambi si era mostrato per l'idiota che era, poiché per avvalorare la scusa del “caro amico” che aveva usato sua madre, la prima volta che li aveva visti, i figli, l'idiota si era perso per almeno una ventina di minuti buoni a cercare di convincerli che quella era soltanto una cena amichevole - forse li credeva idioti almeno la metà di lui -, mentre Kaya restava con le sopracciglia giustamente alzate e Josh lo tartassava di domande inutili, come chi avrebbe scelto di spedire sulla Luna, potendo mandarci solo Bush o Mike Tayson e se si sarebbe mai infilato su per il naso un oliva piccante per scommessa.

Non c'era bisogno di ricordare di come la cena era bellamente saltata e Kaya e Josh era andati a letto prima del solito, ma soddisfatti.

Josh e i 12 anni che si avvicinavano...

Come sta Josh? – le aveva chiesto Robert cercando di mascherare il velo di tristezza che gli era sceso sugli occhi al pensiero dell'altro figlio, quello più piccolo dei due.

Come vuoi che stia quella peste? – lei aveva cercato di sorridere, volendo alleviare in qualche modo il dolore del padre – Non fa altro che spillarmi soldi ricattandomi e dicendo in giro che sono l'incarnazione degli elfi malvagi...

Ma gli manchi. Era il significato del silenzio che era calato subito dopo.

Il pianoforte...

Perché non vai più a lezione?

Preferisco suonare da sola, per me. – aveva risposto la mora rannicchiandosi meglio contro il divano, quasi nascondendosi.

Robert annuì, evidentemente contrariato.

Gli amici...

Kaya era rimasta in silenzio all'ultima domanda fatta dal padre con l'intenzione di strapparle l'ennesimo sorriso - le aveva ricordato quell'imbarazzante episodio successo molti anni prima, quando con la sua migliore amica Kristen avevano sabotato il matrimonio dello Zio Harrison solo perché per loro non poteva essere un vero matrimonio senza l'orchestra e i pasticcini al limone -, ma mordendosi il labbro e giocherellando con gli anelli alle dita lei aveva supplicato Robert con lo sguardo il quale non si era fatto attendere e aveva cambiato velocemente il discorso.

Dentro di sé Kaya si era ripromessa che, prima o poi, avrebbe raccontato tutto al padre, senza escludere niente.

Infondo, glielo doveva.

Papà, sei qui.

E infine si erano messi a tavola, chiamati più dallo stomaco della mora che aveva cominciato a ricordare a tutti la sua presenza e che era da tutto il giorno che tirava avanti solo con lo spuntino (alla faccia dello spuntino!) fatto con i rotoli di liquirizia quel lontano pomeriggio.

Inevitabilmente lei pensò a Emma.

Ragazzina. Bionda. Innocua.

Kaya sorrise.

Quindi, qual è il piano? – chiese Robert mentre la figlia gli voltava le spalle per lavare i piatti sporchi.

Se non fosse stato che quella era la stessa bambina che anni prima gli lanciava le ciabatte per richiamare la sua attenzione o che lo costringeva a stare ore sulla spiaggia aspettando la schiusa delle uova di tartaruga, il tempo che avevano passato separati avrebbe ora dovuto influire sul loro rapporto e lui non avrebbe potuto notare quel leggero irrigidimento all'altezza delle spalle di Kaya, proprio quando lui aveva parlato. Ma lui conosceva sua figlia e anche se era passato troppo tempo dall'ultima volta che, davanti ad una domanda scomoda, lei aveva cercato di sminuire l'argomento o di deviarla del tutto, Kaya era pur sempre la sua bambina.

Non sapevo ci fosse un piano, – ridacchiò nervosamente lei – ma penso che potremo sempre inventarne uno. Tipo a tre lettere, “A”, “B”, “C”... Forse ci potrebbe stare anche un...

Kaya.

– …come nei film e tu sarai il poliziotto cattivo ed io quello buono. – continuò lei incurante di tutto tranne che del malcapitato piatto che stava stringendo fino quasi a romperlo e che aveva avuto la sfortuna di finire nelle mani della ragazza sbagliata al momento sbagliato.

Kaya – la richiamò ancora Robert invano.

So che a te è sempre piaciuto fare il poliziotto buono per vedermi portare quel vecchio capello da western in testa e quella pipa puzzolente che a forza di prendere la polvere la poverina deve essere marcita da tempo, ma cerca di capirmi...

Kaya – il padre si portò una mano tra i capelli esasperato, non sapendo più che altro fare per richiamare l'attenzione di quella sciagurata della sua unica figlia femmina e chiuse gli occhi invocando la forza necessaria a qualche santo che non era nemmeno certo esistesse.

– …quel vecchio capello strampalato mi dava sempre un prurito alla testa pazzesco, per non parlare di quella pipa che per poco non mi ha intossicato quando avevo dieci anni, non oso pensare che cosa mi farebbe ora!

Kaya! – gemette lui sbattendo la mano sul tavolo e facendola sussultare di paura – Devo rispedirti da tua madre?

Finalmente lei posò i piatti nel lavandino e rimase in silenzio ascoltando il padre – Sai che non ci tornerei lo stesso da lei.

Non era una minaccia, nel suo piccolo però Kaya sperò davvero che il padre provasse terrore all'idea di perderla di nuovo.

Robert sospirò, desiderando poter fumare nuovamente in santa pace la sua amata pipa che, purtroppo, come aveva supposto ironicamente la figlia, era deceduta a forza di raccogliere polvere su un vecchio scaffale, anche quello probabilmente in via di decomposizione e lasciò che le sue spalle si arrendessero contro lo schienale della sedia.

E' più grave delle altre volte?

Non l'hai ancora chiamata? – si voltò di scatto Kaya, sorpresa da quella notizia.

L'ho sto chiedendo a te.

Perché?

Robert le sorrise dolcemente.

La sua bambina era cresciuta così in fretta che non si era resa conto che dentro di sé era ancora quello, solo una bambina, pensò mentre le allungava una mano per farla avvicinare.

Non pensi che io sia un po' grande per sedermi sulle tue ginocchia? – rise lei – Potrei spezzare qualche tuo vecchio ossicino...

Siediti e smettila di brontolare, tuo padre non è vecchio come mostrano i suoi capelli.

Kaya fece come gli aveva detto e si pentì di non averlo fatto prima.

Quello era decisamente come tornare a casa.

Papà, sei qui.

A casa.

In verità non ho ancora sentito Karen solo perché si ostina a tenere il telefono spento. – le sussurrò nello orecchio come se fosse stato un segreto di stato, peccato che appena Kaya comprese il vero significato, sapendo bene (e per esperienza) che la madre non teneva MAI il cellulare spento, nemmeno di notte, scoppiò a ridere seguita subito dal padre.

Grazie – e dopo tanti anni Kaya si chinò per baciargli una guancia.

Robert la guardò a lungo, la sua bambina, mentre si portava una ciocca di capelli dietro l'orecchio o mentre cercava di non cadere dalle sue vecchie gambe e l'unica cosa a cui riusciva a pensare era che ormai si era fatta una donna. Senza di lui, la sua bambina era maturata, cresciuta, divenuta grande. Cercò invano di costringere il suo cinquantenne cuore a non piangere come una mammoletta, ma purtroppo qualche lacrimuccia sfuggì silenziosa dentro di sé al suo controllo.

Allora, questo piano? – ruggì lui, nascondendo quel poco di emozione che gli si era bloccata in gola.

Quello vero o quello dei poliziotti buono e cattivo?

Robert ridacchiò – Temo quello vero, bambina mia.

Kaya sospirò e scivolò meglio tra le braccia del padre – Quello vero prevede la ricerca di un lavoro.

E tua madre?

Non c'è poi tutto sto bisogno che le telefoni subito. Insomma, è sempre così occupata. – l'occhiata eloquente di Robert non la indusse a non continuare – E poi lei sa che sono al sicuro, dove non è affar suo.

Sarà sicuramente preoccupata per te.

Non abbastanza per chiamarmi però.

Robert sospirò sconsolato e strinse un'ultima volta la figlia tra le proprie braccia, prima che lei lo lasciasse per concludere le faccende. Mentre l'osservava muoversi nella cucina con destrezza, lui si ritrovò a pensare che mai come in quel momento avrebbe desiderato poter essere stato un padre migliore per Kaya e aver avuto così la possibilità di aiutarla a non soffrire troppo di fronte ai problemi.

Era così cambiata la sua bambina...

Era cresciuta.

Era una donna.

Comunque non mi va bene che fumi. – borbottò Robert, chiedendosi come avesse fatto a sopravvivere fino a quel momento senza la risata di sua figlia.

 

* * *

 

Il Sole le bruciava gli occhi e aveva quasi paura di rimanerne acceccata senza occhiali, così cercò subito riparo sotto la tettoia di un negozio.

Come poteva venire giù il diluvio universale se non si vedeva nemmeno all'orizzonte una minuscola nuvoletta e il Sole picchiava tanto forte da farle venire mal di testa? si chiese Kaya, mentre cercava di capire se certe cose suo padre se le sognasse di notte o se amava prenderla in giro e basta.

Quella mattina, proprio nel momento in cui lei aveva varcato la porta della cucina e senza nemmeno concederle il suo primo buongiorno in Florida, Robert l'aveva urgentemente informata che se nel tardo pomeriggio fosse uscita avrebbe dovuto portarsi con sé un ombrello, poiché, secondo lui, entro sera sarebbe venuto il tipico acquazzone pre-estivo Floridiano. Kaya, però, per non sbagliarsi aveva guardato le previsioni in tv a pranzo e nessun canale aveva parlato di piogge, temporali o nuvole varie e mai nella vita aveva visto un Sole così lontanamente lontano dal brutto tempo.

Così, quando era uscita, aveva scacciato i rimproveri del padre e si era portata con se solo la sua fidata borsa, la rigorosa sigaretta accesa in una mano e nell'altra un rotolo dell'amata liquirizia pronto ad essere srotolato e divorato in un paio di bocconi. Niente che potesse essere riconducibile ad un ombrello.

Robert non l'avrebbe fregata!

Ridacchiando, si mise ad osservare la vetrina del negozio, ma se ne pentì presto, poiché le vennero i brividi al sol pensiero che la gente di quel posto potesse indossare davvero quei vestiti. Involontariamente cercò il telefono nella tasca dei pantaloni, ma solo dopo, maledicendosi, si ricordò che aveva preferito lasciare l'oggetto incriminato a socializzare con la lampada e il libro che il padre le aveva consigliato sul comodino della sua camera.

Era il suo prima giorno lì; solo il pomeriggio prima era arrivata in treno da Chicago lasciando la madre e il fratellino senza un biglietto o una spiegazione e aveva passato la notte insonne nella sua vecchia camera e nel suo vecchio letto nella speranza che il telefono suonasse, potendo ricevere così la conferma che quello che aveva fatto - Kaya aveva scelto la cioccolata - non fosse stato la fine di una lunga serie di casini - La sua misera vita in poche parole. Un gran casino. Ma ciò non era accaduto, il telefono non aveva suonato e quella era davvero la fine di una lunga serie di casini. Così, quella mattina Kaya, per non avere costantemente la prova dei suoi casini a portata di mano e di non sentire crescere dentro di sé il pentimento per quell'azione avventata, aveva deciso che era ora di fare visita alla sua vecchia e cara cittadina Jensen Beach, da sola e senza qualsiasi mezzo di comunicazione.

Ovviamente il giro turistico non la emozionò nemmeno la metà di una torta alle mele o di una battuta scadente, ma comunque non si arrese ed era da almeno un'ora che esplorava in lungo e il largo il molo, il vero centro di quella minuscola cittadina, sia per constatare quanto schifosamente non fosse cambiata nemmeno di un moscerino sia per cercare qualcosa con cui passare quei giorni - aveva lasciato tutte le sue cose a casa di sua madre per la fretta di andarsene - senza dover indossare costantemente i vestiti che aveva portato alla partenza: la maglietta nera che invitava chiunque la guardasse, anche di sfuggita, ad andare gentilmente a quel paese, rigorosamente ribelle tagliata sui lati e lasciando scoperto la parti laterali del busto, esaltando così in questo modo il reggiseno che di puro aveva ben poco, anch'esso nero di pizzo; la felpa che per quanto avrebbe dovuto coprire lo scempio che indossava, (sempre) nera, era talmente consumata e rovinata che avrebbero anche potuto scambiarla per un barbone; e per finire i jeans (ancora) neri stretti e decorati qua e là da strappi tremendamente demodé e gli stivaletti (ma prova a dire?) neri borchiati a mano ultimavano il look eccentrico di Kaya, look che suo padre non aveva potuto evitare di commentare.

 

Ma ti si vede il reggipetto?!

Papà!

Kaya, sei solo una bambin...

É da quando ho 13 anni che porto il reggiseno!

Questo non vuol dire che lo devi per forza sventolare a destra e manca!

Svent... Te rendi conto di quello che stai dicendo?

No, ma tu mi obbedirai lo stesso!

Come no.

Qualche secondo di silenzio.

Kaya...

Sì?

Non è che tu...?

Papà!

Come non detto, torna a giocare con le barbie.

Sguardo sconvolto da parte della figlia. Poi vendicativo.

Robert.

Sì?

Da quant'è che non esci con una donna?

Il padre non aveva risposto.

 

Non aveva mai avuto una conversazione più imbarazzante di quella, nemmeno Karen era così spregevole da scendere su certi argomenti e almeno di questo Kaya gli era sempre stata molto grata. D'altra parte, però, suo padre aveva perso la mano in quegli anni e forse, pensando che la figlia fosse ancora nell'età in cui si cominciava solo a comprendere il mondo degli adulti, aveva dato per scontato di poterne uscire indenne e senza arrossamenti colpevoli.

Ma Kaya aveva capito fin subito, fin dal primo passo oltre il ciglio della porta di casa, che il nuovo arredamento non poteva essere di certo opera di Robert - si sa, gli uomini ci capiscono poco di queste cose - e il sorriso che aveva illuminato gli occhi del padre nel momento in cui lei gli aveva chiesto di appuntamenti e altre donne mostrava quanto non fosse mai stato più felice di così e questo era dovuto solo ad una cosa: una fidanzata.

Era davvero felice per suo padre, si meritava di essere amato tanto quanto si meritava di amare una donna che non scappasse con i figli a centinaia di km di distanza.

Era davvero felice per lui, un po' meno per i suoi vestiti però. Così Kaya si annotò mentalmente di chiamare suo fratello entro la fine della giornata per offrirgli una cospicua, ma discreta, quota di pagamento in cambio delle sue cose, spedite nel minor tempo possibile.

Intanto però si voltò ad osservare l'ennesima vetrina, piangendo amaramente i suoi adorati e fidati negozietti e odiando lo stile da “brava ragazza” che andava tanto di moda in quella cittadina, finché le stridule urla di una ragazza alle sue spalle attirarono la sua attenzione.

Tu, stronzetta! – crepitava la ragazza da lontano.

A causa del Sole negli occhi, però, Kaya non riusciva a capire a chi si riferisse la ragazza. Guardandosi intorno non notò nessun altro che potesse corrispondere al dolce soprannome “stronzetta” e di certo la coppia di vecchietti seduti su una panchina non molto lontano da lei e il bambino con il suo papà che le stavano passando proprio in quel momento davanti - guardandola male oltretutto - non potevano proprio essere il bersaglio della pazza urlante

Per di più ora quella si stava dirigendo proprio verso di lei e la mora si ritrasse di qualche passo allarmata dalla furia con cui stava procedendo la ragazza.

Sì, proprio tu stronzetta! – urlò ancora, arrivandole a qualche metro di distanza – Sto parlando con te!

Con me? – chiese Kaya innocentemente.

E adesso che aveva fatto di sbagliato? Guardare le vetrine era per caso considerato un reato in quella cittadella?

Liz smettila, stai dando spettacolo... – il ragazzo con lei (da dove era spuntato?) le artigliò un braccio per allontanarla, ma la ragazza lo strattonò con ancora più forza liberandosi dalla presa e arrancando ferocemente verso di Kaya.

Lei istintivamente alzò le braccia come se le fosse stata puntata addosso una pistola e ringraziò il cielo che nessuno della compagnia che frequentava a Chicago - ma sopratutto Damon, quello stronzo si era sempre divertito con poco - fosse presente a vederla così spaventata. L'avrebbero presa in giro a vita.

D'altra parte però nessuno le aveva detto che in quel paesino, vi fossero certe pazze urlanti, altrimenti se avesse potuto tornare indietro avrebbe cambiato il biglietto per andare dalla Zia Gertrude, fastidiosamente rompiscatole ma almeno viveva in Alaska con i suoi amati e non-pazzi pinguini di peluche. Forse credeva di vivere al polo sud...

Non mi interessa Dan, è lei per la miseria!

No, Liz, smettila! Non è lei! – il ragazzo afferrò di nuovo la pazza, riuscendo anche a trascinarla per un paio di metri - Kaya quasi pianse dalla gioia -, ma lei, liberando un braccio, si voltò verso il compagno e gli mollò un ceffone.

Oh Dea, aiutami tu! Qua ci sto per rimettere la pelle e non ho ancora incontrato Billie Joe Armstrong per potergli sputare in un occhio - truccato più di molte ragazze - e insultare quello specie di raggruppamento di note che lui chiama musica rock!

Il ragazzo si piegò su se stesso tenendosi il viso dolorante e imprecando talmente tanto che la coppia di vecchietti si alzò indispettita dalla panchina e si allontanò brontolando e lamentandosi sui giovani d'oggi e sul mancato rispetto che avevano. Intanto la ragazza, liberatasi totalmente, avanzava ferocemente verso di lei puntandole contro un dito.

Un dito molto molto minaccioso, per di più.

Oh Santa Dea! Concedimi almeno un ultimo des...

Kaya temendo che volesse picchiarla si portò le mani al voltò e urlò più forte della pazza – Non farmi del male, chiunque tu pensi che io sia non lo sono. Non so chi tu sia!

Non seppe mai se fu la confusione delle sue urla o il vago significato delle sue parole, ma la ragazza si fermò proprio davanti a lei e quando Kaya, riaprendo gli occhi, riabbassò lentamente le mani, l'altra le si fiondò addosso.

Abbracciandola.

Brutta stronzetta che non sei altro! Dio, quanto mi sei mancata! – le mormorò all'orecchio mentre la stringeva in una presa senza fiato.

Liz! – urlò disperato il ragazzo correndo in soccorso di Kaya. – Cazzo, ma tu sei completamente andata...

La mora poteva dirsi d'accordo con lui, ma evitò di esternarlo anche a voce. Infondo la pazza teneva ancora le sue pericolose braccia intorno al suo collo.

Taci, coglione. – e la ragazza la strinse ancora più forte – Neanche da vicino ti sei accorto che è lei.

Kaya continuava a non dire una parola e a non muovere un muscolo, temendo - giustamente - che non assecondando la pazzia della ragazza avrebbe fatto una brutta fine.

Magari poteva strozzarla in una morsa possente e ucciderla togliendole una volta per tutte il respiro.

Che morte sfigata, pensò lei, già piangendo sulla sua tomba.

Liz...

Ancora un attino Dan.

Penso che sia morta – e in quel momento lo credette anche Kaya.

La pazza sussultò e si staccò subito dalla mora, scrollandola poi per le spalle come se fosse stata una bambola di pezza.

Sei viva, stronzetta? – le chiese ansiosamente la pazza, costringendola ad aprire gli occhi.

Cazzo! – sbottò allora poco finemente il ragazzo guardandola – E' proprio lei!

Te l'avevo detto coglione – rise la ragazza tenendola ancora per le spalle e ammiccandole.

Kaya intanto rimaneva ancora in silenzio e non si attentava a chiedersi chi caspita potesse essere questa fantomatica lei che avrebbe tanto voluto farle il culo solo per esserle così simile.

Ma è proprio lei! – continuò il ragazzo – Cazzo, ma che stronza!

Già, sei proprio una stronzetta! – annuì la ragazza sorridendole apertamente.

I due andarono avanti ancora per un po', facendole girare la testa a forza di stronza e stronzetta e sfinita Kaya emise un leggero miagolio.

Quando lui la vedrà saranno dolori. – la ragazza annuì alle parole del compagno e finalmente la lasciò libera.

Mai quando la vedrà La Suora.

A quel nomignolo Kaya, però, sembrò finalmente svegliarsi dal coma di paura e confusione in cui era caduta e guardò per la prima volta negli occhi la ragazza.

Hai detto La Suora? – le chiese temendo ancora una sua reazione negativa.

Ma certo che ho detto La Suora, non dirmelo che te l'ho sei già dimenticata! – la ragazza la guardò sconvolta e pure il ragazzo sembrò rendersi finalmente conto dell'indecisione di Kaya.

Io... – balbettò.

Tu sai chi siamo, vero? – le chiese agitata la ragazza prendendole le mani tra le sue – Vero, Kay-Kay?

Suo padre l'aveva fregata, o almeno lei si era fregata da sola.

Perché, nonostante non avessero previsto nuvoloso per quel giorno, il Sole ora non picchiava più così forte coperto da nubi che Kaya non si spiegava da dove fossero saltate fuori e che avrebbe voluto mangiarsi pur di non dover dare soddisfazione a Robert e i suoi occhi finalmente furono liberi di vedere con chiarezza. Così, improvvisamente, ancora stretta tra le mani della pazza, la mora si rese conto di scorgere qualcosa dentro quegli occhi, dietro il verde chiaro della ragazza e bastò un battito d'ala, un battito di palpebre e lei si ritrovò a rivivere tutte le marachelle e le risate a cui aveva preso parte quando era piccola.

Con loro.

Oh, merda! – si lasciò sfuggire Kaya con un singhiozzo, mentre comprendeva finalmente tutte quelle stronza e stronzetta e allungava le braccia per riavvolgerle intorno a quella pazza e stupida, stupida, stupida vecchia amica.

L'hai detto ragazza! – e tutti e tre scoppiarono a ridere.

Anche se dentro di loro piangevano.

A casa.

I veri amici.

Di felicità.

 

* * *

 

Non ci credo!

Invece devi farlo, purtroppo. – la ragazza rise portandosi ancora la bottiglia di birra alla bocca e non fu l'unica.

Anche se non avevano ancora l'età per bere, nessuno dei tre si era fatto problemi ad ordinare alcolici al bancone del bar e neppure i barman avevano obiettato quando gli occhietti chiari di Kaya avevano chiesto gentilmente una Vodka alla pesca.

Ma non può essere! – rise ancora più forte la mora, anche se la musica copriva tranquillamente le sue urla – Tu odi gli animali! O almeno gli odiavi, fino a quattro anni fa... Come.. Come fai a lavorare in un negozio di animali?!

E devi vederla com'è gentile e simpatica! La adorano proprio tutti – asserì Dan indicando l'amica con lo sguardo e buttando giù d'un fiato il suo Coca e Rum.

In risposta il ragazzo ricevette un pugno sulla spalla, per niente gentile e simpatico, dalla rossa.

Il mondo gira proprio al contrario... Adesso che succederà? La cara e vecchia Prof di Scienze farà una statua in mio onore con i resti dei rospi, il Signor Piton del negozio di antiquariato smetterà di guardare il fondo-schiena alle vecchiette e tu, Dan, mi dirai che hai deciso di iscriverti a legge che è da quando ti conosco, ovvero da troppo troppo tempo, che dici che da grande avresti fatto il ladro?!

Tutti risero, sopratutto Liz che lanciò delle strane occhiate all'amico il quale stava decisamente e indubbiamente arrossendo - arrossendo?! Così Kaya appoggiò il suo drink sul tavolo, conscia di sentire decisamente puzza di bruciato. Aspettò che i due amici si accorgessero della sua passività e quando abbassarono gli occhi sul tavolo, l'uno e boccheggiarono qualche scusa, l'altro, Kaya buttò giù un gran sorso di alcool.

Non me lo dire.

Kaya...

Vi odio. Come amici fate davvero schifo... – brontolò la mora appoggiando malamente la testa sul tavolo con fare sconsolato.

Kay-Kay...

E quindi fai legge, Dan? – chiese alzando solo lo sguardo per vedere il ragazzo annuire dispiaciuto – E tu, Liz, lavori in un negozi di animali.

Solo per pagarmi gli studi di infermeria! – esclamò con foga la rossa; una rossa che era ben lontana dalla rossa che aveva conosciuto Kaya, una rossa che non si avvicinava per niente alla rossa che aveva passato anni a girare al largo da chiunque avesse avuto anche solo un misero raffreddore, che andava in giro con le salviette “anti-batteri” e che solo a sentire odore di richieste d'aiuto da parte di qualcuno, prontamente, se la dava subito a gambe.

Infermeria?!

Il volto di Kaya esprimeva a chiara lettere quale fosse il pensiero che esplodeva nella sua testa, un pensiero che avrebbe sconvolto chiunque desse peso a certe cose, ma per quanto cercasse di darsi un contegno, lo stupore, purtroppo, era troppo per essere contenuto in qualche modo.

Sollevandosi lentamente, come un malato dopo giorni di immobilità nel letto, riuscì a reggersi fieramente sulla sedia e alzò il braccio, con il mano il bicchiere.

Voglio fare un brindisi. – sussurrò mostrando un debole sorriso e cercando di ignorare gli sguardi compassionevoli dei due amici – Voglio fare un brindisi a quegli stronzi dei miei due amici che negli anni in cui io mi sono nascosta in una stupida città piovosa e terribilmente ventosa, loro sono cresciuti, chi di barba e chi di tette, e hanno abilmente scelto di essere l'esatto opposto di quello che erano solo per darlmela in baffo quando poi io sarei tornata in questo buco di culo di paese. E devo ammetterlo, me l'avete proprio fatta stronzi! – urlò ridendo.

Gli altri due la seguirono incitandosi e dichiarandosi dei perfettissimi stronzi e risero, tanto da sentire la pancia dolore e qualche lacrimuccia spingere per ostentare la loro forza. Poi Kaya appoggiò malamente il bicchiere sul tavolo e con in volto un espressione quasi rabbiosa fulminò l'amico.

E ora, Dan, dammi una stramaledettissima sigaretta che mio padre me le ha segregate. Secondo lui non ho ancora l'età per fumare!

 

* * *

 

Continuarono a prendersi in giro per un'altra mezz'ora, finché la musica cambiò improvvisamente e da canzoni da discoteca si passò a chitarre elettriche, batteria, basso e una voce così roca e virile da mettere i brividi. Kaya si voltò verso palco e non fu così stupita di vedere che il proprietario di quella voce così eccitante era anche un figo pazzesco. Poi tornò a chiacchierare con Dan, mentre l'altra ordinava per un secondo giro di drink.

Il locale era pieno, ma la mora si sarebbe stupita del contrario.

Quando abitava ancora lì il Fly Club era sempre stato l'unico posto dove i giovani amassero ritrovarsi, oltre al molo, e pure lei, scivolando silenziosamente fuori dalla finestra della sua amata cameretta, una volta giuntale il segnale, scappava quasi tutte le sere oltre il giardino seguita dai suoi fidati compari nascosti fino a qualche minuto prima dietro o ad un cespuglio o ad un albero - gli stessi compari che ora dopo anni le sedevano di fronte sorseggiando i loro drink e scherzando -, per rifugiarsi in quel buco di locale, dove la musica non smetteva mai di suonare e l'unico problema era quello di non divertirsi abbastanza.

Naturalmente ora il locale non era più quel buco di prima, si era evidentemente allargato, il pavimento, i tavoli e il bancone erano completamente diversi e avevano lasciato spazio per un piccolo palco, forse un po' improvvisato ma davvero efficace.

La cosa più importante, però, era che Kaya si era accorta che l'atmosfera di quel posto conosciuto e pieno di ricordi aveva contribuito a farli riavvicinare senza momenti pieni di silenzi imbarazzanti o parole fuori posto e, come con il padre, anche con Liz e Dan era stato immediato, proprio come se quei quattro anni lontani non fossero mai esistiti. Si era abbracciati, presi in giro e persino arrabbiati per il mancato contatto a distanza. Kaya si era scusata, ma non aveva dato spiegazione per quel lungo silenzio. Forse se avesse spiegato il motivo di quell'improvvisa scomparsa senza aver lasciato nemmeno un bigliettino i suoi amici l'avrebbero compresa maggiormente, ma era davvero stanca di rivangare il passato e lasciare che si desse la colpa a lei o meno, ora non faceva assolutamente differenza.

Le bastava essere tornata ad occupare la sua vera camera, stare a sentire le lamentele di un vero genitore e bere qualcosa con dei veri amici la sera nel solito bar.

Che fosse tornato tutto come prima?

Lo sperava con tutto il cuore.

Verrà giù il mondo stasera – disse Liz riferendosi al brutto tempo, mentre chiamava ancora il cameriere per il terzo giro. Di quel passo il ritorno a casa sarebbe stato molto lungo e faticoso.

L'avevo immaginato. – rispose controvoglia Kaya, maledicendo la pioggia, Robert e il suo settimo senso.

E anche stavolta ci siamo dimenticati l'ombrello! – Dan rise e prese dalle mani dell'amica la bottiglia di birra assaggiandone un sorso. Naturalmente Liz finse di offendersi, ma lo sguardo che rivolse al ragazzo era tutto tranne che offeso.

Kaya arricciò le labbra.

Quello sguardo, pensò lei, l'aveva già visto da qualche parte.

L'aveva visto anni prima quando Robert guardava di nascosto, anche inconsapevolmente, Karen mentre lei parlava con i figli o faceva altro.

L'aveva visto una settimana prima quando, costretta dalla madre, Kaya era andata a trovare sua nonna materna e, mentre Karen era distratta a fare chissà che cosa, lei aveva sorpreso la nonna sorridere ad una vecchia e ormai lontana foto del marito scomparso una decina di anni prima.

E l'aveva visto il giorno prima in Emma, quella ragazzina finta bionda e finta rosa, quando aveva parlato al telefono con il suo solo amico “Willy il coyote” e quando aveva parlato a lei della loro amicizia e di tutti i suoi problemi in una logorroica discussione in cui Kaya aveva simpaticamente evitato di prendere parte.

Consapevolezza.

Ecco quello che trasudava dagli occhi di tutte quelle persone.

Consapevolezza di un'amore finito.

Consapevolezza della mancanza di qualcuno.

Consapevolezza della nascita di qualcosa di puro, gentile e forte.

Voi stavate insieme.

Consapevolezza di un passato.

Sia Liz che Dan si voltarono verso di lei e le sorrisero, consapevoli di quello che c'era stato tra di loro e per niente stupiti di come potevano apparire in quel momento.

Un anno fa. – asserì Dan continuando a bere tranquillamente la sua birra.

Per due anni. – confessò scocciata Liz e Kaya si sforzò di non reagire in alcun modo. Purtroppo l'arricciamento del labbro inferiore e l'irrigidimento delle sopracciglia la scoprirono immediatamente e mostrarono chiaramente il suo disappunto.

Voi stavate insieme. – ripeté la mora lasciando che la sua mano appoggiasse il bicchiere sul bancone.

Tempo fa. – continuò Dan.

Per troppo tempo – finì Liz.

Kaya rimase in silenzio e li guardò come non aveva fatto prima, quando li aveva riconosciuti e l'emozione l'aveva tradita, zittendo sia la sua voce che la sua mente. Una piccola parte di lei però aveva pensato (sperato?) che alla fine quei due ragazzi di fronte a lei fossero gli stessi ragazzini che scappavano a tarda sera con lei per andare al Jensen Club o che saltavano la scuola per fare dispetto alla Professoressa di scienze, ma ora amaramente dovette ricredersi.

Liz, o meglio Elizabeth Samantha Taylor, nonostante fosse più grande di lei di un anno, era cresciuta in abbondanti centimetri da quando aveva sedici anni superando Kaya di netto. Il suo viso non aveva più quell'aspetto rotondetto che l'aveva invogliata più spesso a strigliarle le guance fino a farle diventare rosse, come il resto del suo corpo. Ora era proprio una donna fatta e finita, con le curve al punto giusto. I capelli biondo cenere erano stati evidentemente coperti da un rosso acceso dovuto probabilmente ad una qualche forma di ribellione – la mora sorrise al pensiero che la vecchia Cloe, la madre di Liz, di certo non aveva apprezzato il nuovo look della figlia - e il suo aspetto in generale era così lontano dalla Lizzy adolescente che aveva conosciuto da buttare Kaya giù di morale.

Si era persa così tanto...

Daniel Harris, detto Dan dai tempi dei ciucci e dalla pupù dalla compare di vita Liz - per dispetto lui l'aveva sempre chiamata Beth, finché Liz non gli aveva tirato una scarpa in fronte e Dan aveva smesso di cercare nuovamente il suicidio -, era quello che c'era di più lontano dall'idea di “ragazzino”, tanto che se non fosse stato proprio quel Dan, Kaya avrebbe anche osato con il considerarlo “accettabilmente carino”, nonostante fosse molto, ma molto, lontano dal suo ideale di uomo. Ma non poteva non ammettere che Dan, però, era cresciuto e la barba, l'altezza, i muscoli erano solo dettagli in confronto a quella massa ricciola che portava in testa, ma che gli dava un ché di affascinante.

Si era persa troppo...

E Kaya, guardandoli insieme, l'uno affianco all'altro, mentre si contendevano la birra di Liz, poté capire perché quei due avevano deciso di ingarbugliarsi la vita per due anni e mettere a rischio la loro storica amicizia per quello. Che ne fosse rimasto ora di quello, non era sicura di volerlo sapere, ma la mora temeva che il suo sogno che tutto potesse tornare come prima fosse solo una stupida illusione.

Aveva perso pure se stessa.

Ma voi due stavate insieme! – gli altri due risero, era inevitabile di fronte allo stupore di Kaya.

E' acqua passata – disse Dan mentre Liz voltava lo sguardo da un'altra parte, irrigidendosi.

Ma... Come? – cercò di farfugliare Kaya – Siamo... Da una vita! Noi, voi... Amici!

Me lo sono chiesta più volte anche io – Liz la guardò e poi buttò giù d'un fiato il restante della sua birra – ma ora il problema non esiste più. È esattamente tutto come prima.

Kaya pensò che quell'esattamente della sua pazza e stupida stupida stupida vecchia amica Lizzy non fosse il vero “esattamente” esattamente esatto che intendeva lei e si chiese come mai la sua sempre pazza e stupida stupida stupida vecchia amica Lizzy avesse anche un così discutibile senso autolesionista.

Mentre la mora ci rimuginava su, però, quella dalle scelte ambigue e dal gusto masochista si lasciò scappare un “oh cazzo” non del tutto fine per una giovane ragazza rossa futura infermiera, subito dopo aver lanciato uno sguardo alle spalle di Kaya. Prima che però lei potesse voltarsi anche Dan, seguendo l'esempio della compare, si mostrò per lo scaricatore di porto che era e a quel punto lei non poté più trattenersi.

Il locale era gremito di sudore, alcool e fumo dalla dubbia provenienza. La musica pompava sempre più forte nelle casse e la massa di corpi mezzi nudi si strusciavano gli uni sugli altri senza un minimo di dignità. Qualcuno gridava - forse più di uno, anzi sicuramente -, altri si baciavano, si toccavano, ballavano e si divertivano.

Però Kaya era immobile, come se gli fosse stato l'uso delle gambe e la gola facesse così male da poter riuscire ad emmettere un suono.

Si era immaginata tante di quelle volte quel momento, di come sarebbe finita ancora in commissariato, forse stavolta per violenza, di come sarebbe stata soddisfatta di quella rivalsa o, invece, di come ne avrebbe sofferto ancora di più; aveva ampliato i suoi orizzonti e aveva preso in considerazioni diverse opzioni, possibili futuri e scene che avrebbero potuto determinare molto o essere solo un misero punto nella sua vita, ma ora che c'era finalmente, che era arrivato quel momento che aspettava da anni, non stava succedendo niente di quello che aveva pensato e non sapeva se era più sconvolta dall'averlo incontrato così presto o dal non riuscire a provare le emozioni che avrebbe dovuto provare.

Che cosa le stava succedendo?

Kaya aveva scelto il cioccolato.

Aveva sempre creduto che sarebbe passato più tempo, dal suo arrivo a Jensen a quando l'avrebbe incontrato, infondo era lì da meno di un giorno e vedere Liz e Dan dopo quattro anni era stato già dannatamente troppo per la sua sanità mentale. Ma come era solito, quello che si riceveva non era mai quello che si era aspettato e adesso Kaya avrebbe dovuto essere tanto abile da riuscire a gestire tutto nei migliori dei modi, sperando che Dan si fosse sbagliato prima – Quando lui la vedrà saranno dolori!

Sarebbero arrivati addirittura alle mani?

Sinceramente una piccola parte di lei avrebbe come minimo voluto prenderlo a ceffoni, per soddisfazione personale e solo per il gusto di farlo soffrire, ma un'altra, una parte che odiava nettamente e a cui avrebbe fatto volentieri a meno, e che stranamente indossava il volto di Emma - Ragazzina. Bionda. Innocua. - le ripeteva in continuazione quanto fosse disdicevole per una signorina come lei anche solo alzare la voce.

Sospirò e alzò la testa con orgoglio, non sarebbe scappata una seconda volta.

E poi si accorse che lui l'aveva vista.

Non sembrava nemmeno tanto stupito, lui, di vederla lì, così senza rimandare ancora la mora gli fece segno di seguirla, senza preoccuparsi se lui le stesse davvero dietro e, sapendo già dove andare, si diresse verso il corridoio dei bagni, proprio affianco al palco della band.

Vedo che ti sei disintossicata bene.

Purtroppo, pensò Kaya, lui c'era davvero dietro di lei.

Non mi sono disintossica. – rispose la mora in un sibilo, trattenendo la mano che prudeva per potersi scagliare contro la faccia di lui.

Allora sembri davvero una che non si fa.

Rick, io non mi sono mai fatta e non mi faccio. Tu lo sai.

Ci crederò poi quando lo vedrò.

Lei non gli rispose e guardandolo gli diede silenziosamente dell'idiota.

Lo era sempre stato, pensò la mora, un patetico idiota.

Sfruttando il quasi-silenzio che era sceso nel locale - a quanto pare la band si era finalmente presa una pausa, lasciando una base in sottofondo però -, lei avanzò verso di lui tentando di parlargli. Rick, però, le voltò le spalle per salutare un paio di ragazzi e ,perdendosi in stupidi convenevoli, le diede il tempo di notare che un ragazzo sul palco la stava fissando.

Il ragazzo dalla voce eccitante.

Sei tornata. – Kaya annuì distrattamente, ma il tocco della mano di Rick sul fianco la paralizzò.

Che stai facendo? – gli sussurrò gelida lei.

Quello per cui sei venuta...

Subito dopo la mano, seguì l'altra, sul suo sedere e le braccia la strinsero tanto che il suo seno sfiorava il petto di lui. Quel contatto la infastidì e stupendosi, lo allontanò con forza.

Che ti prende?! – le artigliò un polso Rick, portandola a pochi centimetri dal suo volto.

Un brivido le scese lungo la schiena e la mora sentì le mani congelarsi all'istante.

Ma che prende a te! – gracchiò Kaya, sentendo la gola improvvisamente in fiamme – Io volevo solo parlare!

Rick piegò il viso in una smorfia e ridacchiò, trascinandola nuovamente vicino a lui – Parlare? E quando mai noi abbiamo solo parlato?!

Rick, noi er... Io t...

Le parole le morirono tra le labbra, nel momento in cui il sorriso canzonatorio del ragazzo si stagliò davanti ai suoi occhi e la consapevolezza di aver sbagliato calpestò la sua misera dignità in pochi secondi.

Tu mi amavi? O mi ami ancora? – lui cercò la sua bocca, spingendo con una mano sulla sua testa e con l'altra sulla schiena, ma ricevendo solo un morso, per ripicca le tirò i capelli – Non ti facevo così pateticamente sentimentale, Kays.

Avrebbe potuto fargli molto male se solo l'avesse voluto, come anche lui a lei. Ma la mora era stufa di fare e immischiarsi in situazioni che la portavano sempre e solo verso la fine - La sua misera in vita in poche parole. Un gran casino -, così preferì fingere di non trovarsi imprigionata tra le braccia di Rick e ignorare le sue mani che, per quanto sopportabili, pungevano sempre di più.

Poi, però alzò lo sguardo e, anche se lontano, si ritrovò immersa in un mare chiaro.

Il ragazzo dalla voce sexy la stava guardando e sembrava non gradire la presa che Rick aveva su di lei.

Per un secondo fu veramente tentata di aspettare e vedere se quel ragazzo avrebbe fatto veramente qualcosa, poi però rinsavì. Dove pensava di trovarsi? In una stupida favoletta per bimbe bisognose di un principe azzurro? Qui, il principe era uno e uno solo e non aveva niente a che vedere con uomini possenti o maschi coraggiosi. Il principe era sempre stato lei stessa, un principe ed una principessa allo stesso, poiché come aveva promesso al padre giurando sul suo peluche preferito mai, mai e poi mai si sarebbe fatta sottomettere dallo stupido stereotipo della donna in gonnella bisognosa d'aiuto, men che meno da un maschietto in calza maglia.

Quindi aveva imparato ad essere entrambi e se ci era riuscita in tutti quegli anni, sopratutto a Chicago, poteva farcela anche in quel momento. Con o senza il ragazzo dalla voce eccitante.

Se non mi lasci immediatamente, giuro su chiunque tu voglia, che mi metterò ad urlare e poi, quando saremo usciti da questo locale, te la farò pagare con gli interessi e ti prometto, ti assicuro, che non mi impietosirò davanti al tuo faccino da sfigatello e se non sarà questa sera, aspetterò domani o il giorno dopo o quello ancora. A te la scelta, genio – gli sussurrò all'orecchio lei, fingendo di assecondarlo con un sorriso e, strusciando il bacino contro quello di lui, scivolò via aiutata dalla presa che si allentava sempre di più.

Sei solo una stronza.

Kaya sorrise, sollevata di non sentire più il suo fetido alito addosso e si aggiustò il vestito, lanciando distrattamente uno sguardo verso il palco. Stranamente rimase delusa dalle spalle che le volgeva il ragazzo.

Kaya, dacci un taglio! Le donne hanno il potere, punto!

Acida come solo un acido aciderrimo poteva essere fulminò con lo sguardo Rick – E tu il solito idiota. Una coppia perfetta, non trovi?

Lui la mandò gentilmente a quel paese e si accese una sigaretta, evitando il suo sguardo – Allora, che vuoi?

Che voleva? La mora avrebbe potuto rispondere tante di quelle cose che al sol pensiero le veniva il mal di testa, ma quando era partita si era prefissata un punto fondamentale che avrebbe voluto raggiungere. Ora, però, realizzare quel punto sarebbe stato contraddittorio e tremendamente da stupidi. Per quanto avesse desiderato recuperare quello che aveva prima del suo trasferimento a Chicago - questo voleva dire recuperare anche la sua amicizia con Rick, perché per prima cosa, loro due, erano stati amici -, adesso Kaya si rendeva conto che sarebbe stato impossibile, visto anche come si era appena comportato.

Da idiota, appunto.

Allora, me lo dici che cavolo vuoi da me Kaya?!

Rick era stato un caro amico e ancora di più un caro ragazzo con cui provare ad imparare ad amare. Forse non ci era riuscita, infondo aveva solo quindici anni all'ora, forse era sempre stato solo un caro amico e basta, ma le sue avance continue e quegli occhi, quello sguardo, che una volta l'aveva attratta senza pretese e senza scampo, probabilmente l'avevano ingannata, confusa, abbindolata.

Ma, ora, guardando quegli stessi occhi, quello sguardo, la mora non riusciva a vedere quello che un tempo l'aveva legata a lui. Ora erano solo lo stesso abisso di misteri e certezze - certezze in cui lei non era mai stata inclusa – privi di qualsiasi sentimento o catene. Non le ricordavano nulla di bello o divertente. Eppure ne avevano passato di tempo assieme, quante ne avevano combinate con l'aiuto dell'altro, ma nessuna di quei ricordi le dava quello che stava disperatamente cercando da quando aveva preso il treno - da quando Kaya aveva scelto la cioccolata - e si rese tristemente conto che aveva passato anni a pensare, a scervellarsi, a dannarsi per quell'incontro, per lui, quando, qualsiasi cosa ci fosse mai stata tra di loro, era sparita appena lei aveva lasciato Jensen per trasferirsi a Chicago.

Io... – ma le parole le morirono tra le labbra, troppo rattristata dalla conclusione a cui era giunta – Non importa, ormai non ha più importanza.

E questo che vuol dire?! – avanzò ormai rabbioso Rick.

Beh, abbiamo già appurato che sei un totale idiota, un genio incompreso e uno sfigatello. Penso che se andassimo avanti comincerebbe a diventare offensivo, non credi?

Sta zit.. – ma stavolta fu lei quella ad avanzare e gli si parò proprio sotto il naso, ruggendo le parole come se fossero stati pugnali pronti a colpire.

No, stavolta non sto zitta Rick. Stavolta sei tu che devi chiudere quella cavolo di bocca che hai e starmi a sentire!

Lui sembrò stupito della sua reazione – Ma sei hai det..

Stai zitto! – con forza gli strappò la sigaretta ancora accesa dalla mano e tirò un tiro, praticamente finendola – Mamma mia, sei davvero un'idiota! Già, un'idiota, perché quattro anni fa la sera che mi hai bellamente tradita io ero venuta per dirti che ero disposta a venire a letto con te. Ma tu sei un'idiota e di questo non posso fartene una colpa. Ma, adesso, ti comporti come se io fossi così stupida da ricaderci di nuovo?! Rick, ti prego, risparmiati questa ulteriore umiliazione!

Forse l'aveva insultato abbastanza, pensò la mora, o forse ripetere la parola “idiota” più volte nella stessa frase aveva avuto più effetto che diversi insulti sparsi qua e là, comunque Rick cambiò totalmente espressione, le sue guance si colorarono di un tenero e sfacciato rosso e i suoi occhi fiammeggiarono d'ira.

Kaya si accorse che non era l'unica a trovare la scena divertente. Finalmente il ragazzo si era voltato - chissà da quando la stava guardando... - e ridacchiava bellamente e piacevolmente seduto su uno sgabello con in braccio la sua chitarra. Provò a sorridergli, ma la replica di Rick la distrasse nuovamente.

Sono io che ho lasciato te!

No, Rick. Io ho lasciato te, tu mi hai supplicato di non farlo. – la mora lo guardò amorevolmente, per non infierire ancora di più e cercò di capire, forse per la prima volta, cosa mai passasse per la sua testa – Davvero non ricordi?

L'apparente silenzio che scese su di loro - la pausa della band sembrava andare per le lunghe e lei avrebbe scommesso che centrasse anche un qualche scambio di sguardi che aveva continuato fino a quel momento - diede a Kaya la forza di alzare le spalle e soffiare fuori qualsiasi briciolo di sentimento che la legava a lui.

Mi dispiace, che tu sia così idiota. Ma, adesso, è ora di farsene una ragione. Prima è, meglio è.

E gli voltò le spalle, questa volta senza versare nemmeno una lacrima.

 

* * *

Pioggia.

Baciami.

Quel tipo sapeva di pioggia.

O almeno le sue labbra, pensò lei mentre il ragazzo continuava a mordergli il labbro inferiore.

Baciami.

Pioggia e tabacco.

Baciami.

Pioggia, tabacco e muschio.

Ancora uno, baciami.

Muschio o maschio. A Kaya non faceva nessuna differenza.

Inarcò la schiena dandogli un accesso migliore al suo collo - aveva bisogno che le labbra di lui fossero dappertutto, voleva sentirsele ovunque. Forse per chiudere una volta per tutte quelle vecchie ferite che si portava ancora addosso e quelle nuove che, invece, sembravano non volersi rimarginare nemmeno con il fuoco -, ma per quanto la mora provasse ad aprire gli occhi - voleva specchiarsi in quelli di lui senza sentire quello strano fastidio allo stomaco, come se le stesse sfuggendo qualcosa o come se non riuscisse a vedere chiaramente -, le palpebre le sembravano così pesanti, deboli, affaticate che rinunciò al terzo tentativo.

Baciami.

Pioggia, come quella che stava cadendo su di loro e intorno a loro.

Quando erano usciti dal locale? Stava davvero piovendo? In Florida? Allora suo padre non l'aveva presa in giro o era lei che aveva bevuto troppo? Eppure era sicura di aver preso solo un paio di drink …o forse erano tre?

Kaya rise, contagiando anche lui e si strinsero le mani dopo che lei, avendo fatto scivolare la sua oltre il maglione nero, aveva incontrato la pelle nuda del ragazzo. Lui era sobbalzato per la pioggia fredda o la sorpresa della sue dita e involontariamente le aveva morso il labbro inferiore.

E ora ridevano, mentre il ragazzo le accarezzava il labbro leso con un dito.

Baciami.

Pioggia e tabacco, come quello che sentiva tra di loro e su di loro.

Qualcuno stava fumando, o forse molto più di qualcuno. Erano sul retro? Come ci erano arrivati? Perché erano lì? Eppure era sicura di non essersi sentita mai così lucida...

La mora lo spinse più vicino a sé, sentiva così freddo - si sentiva sola, così lontana da Chicago, da sua madre e suo fratello e, anche se lì c'erano i suoi veri amici e suo padre, Kaya sentiva un buco, un vuoto, nella propria vita, nel petto, che voleva, doveva colmare in qualche modo - e affondò le proprie labbra nelle sue, senza neanche concedergli il tempo di riprendere fiato.

Baciami.

Pioggia, tabacco e muschio, come quello su cui era poggiata.

Un albero? No, un palo. Un palo di legno con sopra del muschio. Ma in Florida non cresceva il muschio, per quanto lei ne sapesse. Allora, cosa... Erba! Era erba! Questo voleva dire che però loro erano ...sdraiati?

Finalmente si concessero uno sguardo, sostenendo il peso con i gomiti il ragazzo si spostò abbastanza da lasciar trapelare un filo d'aria e acqua tra di loro e Kaya sentì male all'altezza delle scapole, o almeno fino a quando lui non le aprì i suoi occhi e la fitta, il coltello piantato nel petto, non affondò ancora una volta la sua lama più a fondo nelle sue viscere - quel verde, quel mare, quel dolore, quella profondità, quella realtà -, perché quegli occhi non le erano sconosciuti.

Ancora uno, baciami.

Muschio o maschio, come quello che poteva toccare, sentire, gustare, odorare e vedere.

Le sue mani... il suo respiro... le sue labbra... il suo dopobarba... i suoi occhi...

Per Kaya non faceva nessuna differenza.

Ora si sentiva completamente ubriaca, di baci, di carezze, di calore.

Sei qui – soffiò quasi senza fiato lui, quasi come se fossero state ore che le stringeva le labbra tra le sue e secoli da quando non le aveva ancora incontrate, ma il ragazzo non le concesse una risposta, poiché unì nuovamente e più bruscamente le loro bocche e si lasciò cadere su di lei con tutto il peso schiacciandola tra il terreno e il suo corpo, forse temendo una sua fuga.

Kaya non si oppose, nonostante non comprendesse l'atteggiamento di lui e si lasciò trascinare in un'altra serie infinita di baci languidi e appassionati. Assecondata dai suoi movimenti, lo strinse più forte, avvolgendo le gambe oltre il suo bacino e scostandogli il maglione abbastanza da lasciare la pelle della schiena completamente libera di godere della pioggia e del suo tocco. In risposta il ragazzo le strappò, letteralmente, la canotta ai lati già mezza stracciata, scoprendole il reggiseno di pizzo e dalla foga e dal piacere si lasciò sfuggire un soffio che la mora cercò di ignorare – Sei tornata.

Anche questa volta Kaya non ebbe la forza di ribattere, poiché il ragazzo era già sceso con la lingua oltre il suo collo, puntando decisamente verso le sue piccole colline. Lei morse la propria mano per evitare di lasciarsi scappare gemiti e grida indecorose, per quanto lo fosse già abbastanza quella situazione e si lasciò sopraffare totalmente dall'emozioni e da lui.

Lui, il ragazzo dalla voce eccitante.

Lui, il ragazzo dalla voce eccitante sul palco con la chitarra tra le mani che la guardarla.

Lui, il ragazzo dalla voce eccitante sul palco con la chitarra tra le mani, mentre le suonava negli occhi.

Lui, il ragazzo che le aveva sorriso poco prima di baciarla, trascinarla fuori dal locale e poi per terra.

Kaya non era mai stata una ragazza che si facesse tanti problemi a rimorchiare un ragazzo, per di più da quando si era trasferita a Chicago il desiderio di fermarsi, e smettere di correre e correre e correre, a conoscere qualcuno, un ragazzo per di più, si era del tutto affievolito. Forse per ribellarsi a quel trasferimento, al suo allontanamento da casa e dagli amici. O forse perché se la “vecchia” Kaya ne era rimasta così sconvolta, allora solo una “nuova” avrebbe potuto sopportare meglio una prossima possibile delusione. Quindi si era semplicemente e completamente lasciata trascinare dalla corrente, dagli altri ragazzi, finché non era diventato naturale, quasi necessario e la maggior parte delle volte era addirittura stata lei stessa a fare il primo passo.

Li guardava, ammiccava e tempo una decina di minuti si ritrovava in bagno con il fortunato di quella sera.

Naturale, necessario, normale, ma non sempre indolore.

C'erano volte, c'erano serate, infatti, in cui si guardava intorno, in quella massa di corpi sovreccitati e sudati, e non vedeva niente, niente che potesse essere giusto per lei. In quelle serate, che nell'ultimo periodo erano apparse più frequentemente del solito, Kaya tendeva ad uscire dai propri schemi, a fare qualcosa di diverso, qualcosa che potesse piacerle - Kaya aveva scelto il cioccolato -, un film horror al cinema, una passeggiata nel parco di notte, un paio d'ore in camera a suonare il piano, e stranamente quello spillo tra le mani e nello stomaco si affievolivano, quasi le sembrava che non ci fossero più. Poi, però, bastava poco per tornare con i piedi per terra - leggere i titoli di coda, attraversare le strade più trafficate di Chicago, sentire solo il silenzio intorno a se -, e allora tornava a farle male, lo spillo e tutti gli altri spilli che erano cosparsi sulla e nella sua pelle.

Kaya era diventata scontata, per gli altri.

Ma sì, sono stato con Kaya. Che vuoi che sia...

Dammi retta, non ci provare nemmeno con quella. Tanto, appena vedrà che hai un biscione, sarà lei a venire da te.”

Kaya, già che ci sei, potresti almeno farti pagare. Guadagneresti una bella sommetta”.

E più le voci continuavano ad insistere, più lei le provocava, le sfidava, le incitava, sapendo benissimo che la verità era una e che nessuno la conosceva per davvero.

L'avevano chiamata in mille modi diversi e nessuno l'aveva descritta davvero per come era.

L'avevano trattata in un unico modo e mai era come avrebbe dovuto essere.

Per gli altri Kaya era vuota, per lei era solo finta.

Naturale.

Necessario.

Normale.

Finto.

E questa volta non era diverso, ma per quanto ogni fatto e azione le confermassero che era ricaduta nello stesso errore da cui aveva cercato di scappare una piccola parte di lei, autolesionista e tremendamente masochista, l'aveva convinta a non opporsi, che non bisognava fare di tutto un nervo un fascio, che forse questa volta non le avrebbe fatto male, più di tanto.

Kaya.

La mani di lui le sfioravano il ventre, ma fu la sua voce, il suo nome, a risvegliarla e Kaya comprese quanto tutto ciò fosse sbagliato - Naturale, necessario, normale, ma non sempre indolore. Finto -, che qualcosa le stesse davvero scivolando dalle mani - ...quello strano fastidio allo stomaco, come se le stesse sfuggendo qualcosa o come se non riuscisse a vedere chiaramente. Quel verde, quel mare, quel dolore, quella profondità, quella realtà... perché quegli occhi non le erano sconosciuti – ed era sicura che se non avesse agito subito, le sue labbra non si sarebbero serrate mai più, le sue mani avrebbero stretto ancora quel corpo a sé e i suoi occhi si sarebbero nuovamente chiusi, lasciandola fuori dal mondo e da se stessa.

Cercò di sviare un suo bacio e quasi trattenne il respiro.

Baciami, baciami ancora...

Baciami.

Ma la mora non rispose, immobilizzò le braccia e le gambe e voltò il viso da un'altra parte, fissando quasi furiosamente le ultime gocce di pioggia scivolare sul terreno.

Ehi...

Chi sei? – soffiò Kaya, fermando il ragazzo che stava cercando di voltarle il viso verso di lei.

Il ragazzo si irrigidì e Kaya rise, amaramente.

Allora non era solo una sensazione, c'era d'avvero qualcosa che non tornava, pensò la mora, prima di ingoiare il groppo che aveva in gola e pregare di non essersi cacciata in uno dei suoi soliti casini.

La sua misera vita in poche parole.

Un gran casino.

Chi sei? – ma ancora lei non ricevette risposta. Quindi voltò di scatto lo sguardo nel suo e facendo forza con la mani lo spintonò indietro, sollevandosi a sedere. – Come fai a sapere il mio nome? Chi sei? Che cosa vuoi da me? Rispondi, per la miseria!

Lì, sotto un cielo nero come la pece e sporchi d'acqua piovana e fango, lui le sembrò il ragazzo più bello che lei avesse mai visto.

Era arrabbiata Kaya, tanto, ma non poteva evitare di guardarlo, di vedere come i capelli scuri bagnati riuscissero a vincere la forza di gravità comunque, di constatare come quegli occhi che inizialmente le erano sembrati verdi fossero in realtà un misto, di grigio, di comprendere che quella bocca, quelle labbra, così carnose e morbide le avessero dato il migliore bacio in tutti i suoi diciannove anni.

Il ragazzo sospirò e lei non riuscì a non desiderare di poterlo di nuovo sentire addosso di nuovo, il suo respiro.

Finalmente te ne sei accorta – piegò le labbra lui, senza sorriderle realmente. Sembrava quasi che nemmeno a lui piacesse quella situazione.

Accorta di cosa?

Il ragazzo si alzò, cercò di levare abbastanza fango dai pantaloni per non sembrare un barbone - al massimo poteva passare per un altro sciocco che aveva pensato che quel giorno non sarebbe piovuto lasciando l'ombrello a casa - e lanciò uno sguardo intorno a loro, prima di accendersi una sigaretta con quello che rimaneva del pacchetto zuppo che teneva in tasca. Era già tanto che si fosse accesa davvero, quella sigaretta.

Intanto Kaya si stava innervosendo sempre di più, non le piaceva il fatto che lui sembrasse sapere che stava succedendo e lei no. Non le piaceva il fatto che lui la conoscesse e lei no. Non le piacesse il fatto di non sentirsi abbastanza spaventata. Così ripeté la domanda, stavolta tenendo un tono più irato.

Quattro anni sono lunghi, sopratutto alla nostra età. Si cresce in altezza, ti viene la barba o nel tuo caso le tette – fissandola senza pudore e indicandole il petto quasi nudo lui ridacchiò, ma la mora non accettò quella provocazione e non si mosse, tenendo ben alto il mento – e si cambia. Si cambia molto, tanto che ci si può anche confondere, non riconoscere.

Kaya rabbrividì.

Tu sai chi siamo, vero?

Vero, Kay Kay?

Quel giorno lei aveva dimenticando troppe persone, ma ora, per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a capire chi fosse, chi le ricordasse quel ragazzo.

Vedendo la sua indecisione, il ragazzo sbuffò scocciato e si tirò su la manica del maglione arrotolandosela e mostrandole così una piccola cicatrice bianca all'altezza del gomito interno.

Forse questo ti ricorderà qualcosa.

Ma Kaya non batté ciglio e questo lo spazientì solo di più.

La scuola? – esasperato la guardò sconvolto – La Professoressa Megging? Il negozio di dischi? Il capanno nel parco? La macchinina rossa?!

Il silenzio era opprimente.

Dio, come... no, davvero. Come puoi non ricordarti chi sono?! – dalle sue parole traspariva un dolore quasi viscerale e questo le aprì gli occhi, questo e il tic nervoso alla mascella che la fece contrarre nervosamente. Quasi tremante - cominciava a fare davvero freddo. Nonostante fosse l'inizio dell'estate, erano pur sempre bagnati spolti - lo vide aspirare un'ultima volta e finire definitivamente la sigaretta.

Forse...

No, non poteva essere.

Le sue mani... il suo respiro... le sue labbra... il suo dopobarba... i suoi occhi...

Quel verde, quel mare, quel dolore, quella profondità, quella realtà.

Perché quegli occhi non le erano sconosciuti.

Merda...

Oh, merda!

L'hai detto ragazza!

Kaya sbiancò e velocemente si portò le mani a coprirsi il petto. Lui rise - accorgendosi che anche lei aveva capito -, ma dalla sua voce traspariva tutto tranne che felicità e, infatti, il suo sorriso si spense poco dopo.

Non può essere. – sussurrò Kaya, inerme e terribilmente spaventata.

La cicatrice.

Gliela aveva fatta lei, a otto anni, perché lui le aveva detto che il suo disegno era brutto come il parrucchino dell'insegnante di italiano e perché, lei lo sapeva, era per colpa sua se la sua famiglia si stava rompendo e allora lei lo aveva ferito, tagliato, segnato con lo stesso disegno che lui aveva disprezzato imprimendogli tutto l'odio che lui l'aveva costretta a provare.

Purtroppo per te, invece, è così. Ti dispiace così tanto? – lui la fissò duramente e la mora pensò che quel “ti dispiace”, detto con quel tono - rassegnato, deluso, arrabbiato - nascondesse invece un desiderio, una timore più profondo.

La scuola.

Fortuna del destino erano finiti sempre in classe assieme, anche in quei pochi anni di liceo che lei aveva fatto prima di andare a vivere a Chicago e l'aveva maledetto e si era maledetta per averlo dovuto sopportare così tanto, troppo, infinitamente troppo per lei.

Naturalmente faceva di tutto per rendergli la vita impossibile.

Tanto quanto è dispiaciuto a te. – rispose tra i denti Kaya, sfidandolo con lo sguardo – Cos'è? Uno scherzo per caso o una minaccia? Adesso verrà fuori il tuo amichetto con una videocamera, urlando che se non vi do le caramelle farete vedere il filmato al Don Henry? Non siamo più ai tempi dell'asilo, come hai detto tu siamo cresciuti e adesso certi giochetti non funzionano.

Quasi si disgustava per aver pensato che lui potesse essere il ragazzo più bello che avesse mai visto, ma almeno non gli aveva dato quella soddisfazione a voce, pensò la mora e si passò il dorso della mano sulla bocca per pulirsi dal sapore che ancora sentiva.

A lui non passò inosservato e lo vide chiaramente contrarre la mascella prima di stringere i pugni.

La Professoressa Megging.

Proprio al liceo la Professoressa di scienze li aveva messi di banco vicini, perché a detta sua, solo così avrebbero calmato “i bollenti (violenti) spiriti”, ma non c'era giorno in cui entrambi non finissero comunque in punizione ed era sempre la stessa professoressa che, puntualmente, li mandava dalla preside o li teneva anche il pomeriggio per fare lezioni extra o pulizie.

E sempre perché erano loro stessi la causa del loro male.

Deve essere per forza uno scherzo? Non potrebbe essere così e basta? – Il ragazzo si dondolò da un piede all'altro, scaricando la tensione sulle mani e sullo sguardo che non riusciva a trovare un punto fisso in cui fermarsi.

Sembrava quasi che lui avesse paura dei suoi occhi, degli occhi chiari di Kaya.

Così e basta? Come poteva essere così e basta?! Pensò sconvolta la mora.

Tu mi hai baciata! – esclamò lei come se quello fosse abbastanza per spiegare i misteri dell'uomo e dell'umanità intera e si morse le labbra, forse per risentire il suo sapore o forse per odiarlo ancora di più. Perché era dannatamente buono.

Il negozio di dischi.

Lei amava andarci, ma amaramente aveva dovuto sopportare la sua presenza anche lì, poiché lui ci lavorava. Una volta il proprietario aveva addirittura dovuto cacciarla via di peso, dopo che lei aveva cercato di buttargli addosso un cartellone-immagine. Per l'ennesima volta lui le aveva detto che lei di musica non ci capiva nulla, si era insultati per un quarto d'ora, finché lei, stufa, aveva cercato di mettere una fine una volta per tutte e di fargliela pagare.

Per quello e per tutto il resto.

E tu hai fatto altrettanto. – rispose fin troppo tranquillamente lui, tirando fuori un'altra sigaretta.

In quel momento lei avrebbe voluto trovare il coraggio per avvicinarsi e prendergliene una, di sigaretta, sentiva il disperato bisogno di concedersi alla sua amata Dea per risolvere il conflitto interiore - lo spillo e tutti gli altri spilli cosparsi nella e sulla sua pelle - che portava dentro, ma temeva troppo che se mai avesse mosso anche un solo muscolo lui l'avrebbe avviluppata in un abbraccio caldo e allora sarebbe stata la fine.

Per lei e per la sigaretta che voleva.

D'altra parte Kaya si chiedeva come lui facesse a restare così calmo, lei non lo sapeva proprio e a confronto del ragazzo si sentiva il sangue ribollire nelle vene e il colore dell'umiliazione passare sul viso. Avrebbe voluto svenire per risvegliarsi nel suo letto a Chicago, avrebbe rinunciato a tutto pur di evitare quella situazione, tremendamente orribile e indimenticabile.

Sì, ma noi ci odiamo! – la mora quasi urlò, prima di mordersi la lingua. La mascella di lui si era contratta ancora e del bastoncino bianco e marrone ne rimaneva ora ben poco nelle sue mani. L'aveva stretto come se avesse voluto che al suo posto ci fosse stato il collo di Kaya.

Allora provava anche lui delle emozioni, pensò lei coprendosi la gola con le mani.

Il capanno nel parco.

Era il suo rifugio, dai suoi genitori che litigavano almeno tre volte al giorno e da Rick che spingeva sempre di più per farlo. L'aveva trovato per caso, addentrandosi nel parco vicino a casa sua e gironzolando senza una vera meta. Non era passato molto, però, da quando l'altro proprietario si era fatto vivo e Kaya si era ritrovata con lui a condividere il suo rifugio.

Per poco non l'avevano distrutto perché almeno su una cosa era d'accordo: solo uno dei due poteva averlo.

Già, noi ci odiamo. Me n'ero quasi dimenticato.

Kaya scosse la testa e si strinse le gambe al petto – Smettila, non è divertente!

Perché lui non riusciva a capire?

Perché l'aveva spinta in quella situazione se sapeva bene chi era?

Perché si era abbassato tanto?

Perché si era abbassato a lei?

Kaya spalancò gli occhi e si portò una mano alle labbra.

Sei qui.

Sei tornata.

Kaya.

Baciami, baciami ancora.

Che lui... No, non era possibile. Non doveva essere possibile.

Poi però Kaya ricordo l'ultimo pezzo, ricordò la macchinina rossa.

La macchinina rossa.

La sua macchinina rossa.

Aveva sei anni quando l'aveva persa. Se la portava sempre dietro, a scuola e al parco giochi e tutti i suoi amici gliela invidiavano. Lui gliela invidiava e lei aveva sempre goduto di questo, l'aveva stuzzicato, preso in giro e dannato, finché un giorno, però, la macchinina rossa era sparita e mentre lei piangeva tanto per questo lui rideva, felice. La mora ci teneva particolarmente a quel gioco, poiché era un regalo di suo padre e aveva un valore profondo. Robert gliela aveva regalata in ricordo di quando glielo aveva dato il padre in punto di morte e lui aveva voluto darla a lei, per ricordarle che qualsiasi cosa sua era anche di Kaya, “perché il mio cuore è tuo, bambina mia, e non ti lascerò mai”.

Poi, improvvisamente, a quindici anni l'aveva ritrovata. Non l'aveva mai dimenticata quella macchina rossa, ma ritrovarsela nell'armadietto il giorno dopo aver scoperto che il fidanzato l'aveva tradita, per Kaya era stata una sorpresa. Sapeva da sempre che gliela aveva presa lui, non c'era giorno in cui il ragazzo, allora bambino, non facesse allusioni riguardo alla sua macchina, ma lei non aveva mai detto niente in proposito. Forse, perché un po' si sentiva in colpa e, forse, perché pensava di meritarselo per come si era comportata in passato. Però non si sarebbe mai aspettata che dopo anni quella macchinina potesse ritornare tra le sue mani, per di più dopo quello che le era appena successo. Era come se lui le avesse detto che gli dispiaceva, era il suo modo per farle capire che non era poi così sola.

Per la prima volta, lei l'aveva cercato con lo sguardo e con gli occhi e la macchinina in mano, l'aveva ringraziato.

Forse dovresti solo scioglierti un po' allora, perché non prov..

Scuotendo la testa, Kaya si alzò finalmente in piedi.

No, smettila! Basta! – lei sospirò, stringendosi le braccia al petto per provare a colmare quel vuoto che sentiva ancora dentro – Sono stanca di fare finta che tutto vada bene! È una merda, ogni cosa, ogni decisione, ogni dannata persona che incontro è una merda! E tu non puoi dirmi di sciogliermi, perché non sai nemmeno che cosa voglia dire per me “sciogliermi”! Non sai che effetti abbia su di me! Quindi sta zitto e tieni le tue stupide considerazioni per te! Tu non sai nulla di me e questo ...questo è stato un orribile errore! Mi hai ingannata, deve essere stato divertente per te, vero? Beh, ti dico una cosa, per me non è assolutamente divertente e mi dispiace se deluderò le tue aspettative, ma sono stanca dei litigi, delle vendette, di qualsiasi cosa che mi porterà a fare altri casini che mi rovineranno ancora di più la vita. Credo... no, sono sicura che sono cresciuta, oltre alle tette, sono diventata grande. E questo, tutta questa rabbia repressa, ormai non fa più parte di me, non ho più una valida ragione per avercela con il mondo. Ormai sono cambiata. E sono stanca di fingere che niente mi tocchi, tu non hai idea invece di quanto tutto, tuuuuuuutto, quello che succede mi rimane impresso e non posso giurarti che dimenticherò quello che è successo stasera. Non posso. Ma sono stanca, terribilmente e maledettamente stanca di essere finta. Non voglio più fingere.

Kaya aveva scelto la cioccolata.

In quel momento si sentì tanto Emma nei suoi momenti di molta loquacità, ma dovette ammettere che era dannatamente liberatorio poter azzittire due persone nella stessa sera.

Lui la guardò, tra le dita il mozzicone che si spegneva via via che il freddo della sera l'avvolgeva e con gli occhi affondati nei chiari di lei. Lo lasciò cadere per terra e le sembrò di scorgere dell'indecisione sul suo volto.

Poi lui sospirò e le diede le spalle.

Io non ho mai finto con te, Kaya.

La macchinina rossa.

Ora lo so, Aiden, pensò lei mentre lui era ormai troppo lontano.


 

  
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