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Parole
“Quando
la smetterai di trattarmi così male?”
Draco
sbuffò, volgendo lo sguardo alla sua sinistra, ignorandomi
deliberatamente.
Feci il giro della panchina e mi posizionai di fronte a lui, cercando
di
indurlo a guardarmi negli occhi.
Lui
sbuffò di nuovo, accavallando le gambe e fissando
ostinatamente il lago a pochi
metri da noi.
“Sai
che è da maleducati voltare la faccia alle persone mentre ti
parlano?”
“Non
vedo nessuno qui intorno.”
Incrociai
le braccia sul petto, con un sorrisino di scherno sul viso.
“Allora perché
parli da solo?”
Arrossì
leggermente, serrò le labbra e continuò ad
ignorarmi come se fosse realmente
solo, e io non fossi altro che un moscerino molesto che gli ronzava
ostinatamente intorno.
Lo
fissai a lungo, sbuffai a mia volta, e mi sedetti sul lato opposto
della
panchina, come se io e quel ragazzo dall’aria aristocratica
fossimo due
perfetti sconosciuti.
Passarono
minuti interi – ormai anch’io osservavo come
imbambolata mamma papera che
guidava i suoi piccoli in una lunga traversata del lago di fronte a noi
–
finché non avvertii il suo sguardo insistere sulla mia
persona. Non mi voltai,
finsi di non accorgermene, e continuai a giocare al gioco del silenzio.
Avrebbe
ceduto per primo e, in cuor suo, ne era consapevole.
Infine
sbottò con un urletto isterico degno della più
viziata delle principessine.
“Non
avevi alcun diritto di chiedermi quelle cose!”
Sorrisi
tra me, e nascosi quell’espressione prima di girarmi e
affrontare quello che si
prospettava un nuovo ed ennesimo litigio.
“Non
puoi pretendere che io ti parli di me, ti racconti tutto della mia vita
e che
tu non mi dica niente!”
“Non
hai il diritto di sapere certe cose.” Ripeté,
stavolta con una nota di freddo
distacco nella voce.
Inarcai
un sopracciglio, e diedi sfoggio di tutta la mia indignazione.
“Senti,
bellimbusto dalla chioma ossigenata dei miei
stivali…” Stava per ribattere ma
continuai imperterrita. “Il semplice fatto che io non sia
un’aristocratica come
te, piena di soldi fino alla nausea e dal nome di famiglia prestigioso,
non
vuol dire che io non abbia i tuoi stessi diritti!”
Come
se non avesse ascoltato nulla del mio discorso eccetto la prima parte,
disse:
“È il mio colore naturale!”
Spalancai
la bocca, ma la richiusi subito dopo. Ormai non mi sorprendeva
più di tanto la
sua frivolezza.
“Stai
scherzando, vero?” Però restava una frivolezza
contagiosa.
Sorrise
trionfante, quasi credendo che il discorso sarebbe continuato su quelle
sciocchezze superficiali e che io avrei lasciato correre. Ma quando mi
vide
mentre mi alzavo, lo sguardo serio e le mani sui fianchi, i suoi occhi
mi
suggerirono che aveva capito che non avrei ceduto facilmente.
Mi
avvicinai, sormontandolo con fare minaccioso. “Esigo
rispetto!”
Si
alzò, fronteggiandomi, uno sguardo divertito sul volto.
“Tu? Rispetto? Da me?”
Ogni parola sembrava un insulto.
“Ma
chi ti credi si essere?”
“Io
sono un Purosangue, dannazione! Non puoi nemmeno pensare di
confrontarti con
me!”
“Sei
un cavallo di razza?”
Draco
rimase interdetto. Sbiancò visibilmente, sgranando gli
occhi, come si fosse
lasciato sfuggire qualcosa di importante.
Io,
dal canto mio, utilizzavo ogni provocazione proprio a questo scopo:
fargli
svelare gli altarini senza che lui lo volesse davvero.
Amavo
provocarlo. Mi aveva dato l’impressione, sin dal primo
momento in cui avevamo
parlato, che pochi lo sfidassero apertamente come facevo io. Era quel
suo
essere troppo tronfio e pieno di sé che mi aveva spinto
verso di lui. Pane per
i miei denti.
Stavolta,
però, non riuscivo a carpire il giusto significato dalle sue
parole.
Lui
ricadde sulla panchina, parlottando da solo.
“Allora,
sei un cavallo?” Iniziai a ridacchiare, mentre lui mi
fulminava con lo sguardo.
“Io…
Intendevo dire…”
Bloccai
il suo balbettio per pietà. “Draco, ho afferrato.
Intendi dire che sei un
nobile, hai il sangue blu… Ma ciò non toglie che
tra me e te non ci sia alcuna
reale differenza.”
Sembrò
sollevato, ed io gli feci credere di avermela fatta. Mi appuntai quel
termine
alla mente, da riusare nel prossimo battibecco. Prima o poi lo avrei
messo alle
strette.
Fece
scivolare il suo sguardo su di me, improvvisamente gelido.
“Tu.”
Mentre
si alzava, dissi: “Io.”
“Tu
non sei nessuno.”
Sgranai
gli occhi, stavolta realmente piccata. “Come fai ad essere
così disgustosamente
egocentrico?”
Sembrò
quasi riscuotersi alle mie parole, illuminandosi come se il mio fosse
stato un
complimento. “Non saprei, credo di avercelo nel
sangue.”
“Eppure,
dopo queste tre settimane credevo di aver almeno scalfito la
corazza.”
Per
un secondo, un solo attimo sfuggente, vidi un cambiamento
impercettibile nei
suoi occhi, così infinitesimale che potrei averlo anche solo
immaginato.
Mi
era sembrato turbato, sconvolto… impaurito.
Mi
avvicinai e addolcii il tono, istigata da quella piccola fiammella di
speranza.
“Ti fa paura, vero? Lasciare che qualcuno veda oltre la tua
solida corazza di
menefreghismo?”
Arretrò
di un passo, andando a sbattere contro la panchina. “Tu non
sai nulla di me.
Non parlare come se mi conoscessi.” Il suo tono era quasi
infantile, carico di
rabbia e d’accusa.
Che
illuso. Lo conoscevo meglio di quel che pensasse. Nonostante si fosse
vantato
più e più volte delle sue grandi doti non era
altri che un codardo. Un
quindicenne spaventato dal suo stesso
stemma nobiliare al punto di non volermi neppure rivelare il suo
cognome e che
viveva intrappolato in un ambiente familiare così ostile da
dover uscire di
nascosto per potersi sentire minimamente libero.
Tranne
quelle poche volte in cui riuscivo a tirargli fuori di bocca qualcosa
su di
lui, il resto lo avevo capito da me. In quelle poche settimane estive
trascorse
assieme avevo imparato ad ascoltare i suoi silenzi, a capire i suoi
gesti, a
carpire significati nascosti nel suo stesso sarcasmo. Era facile da
leggere
proprio perché, inconsciamente, me lo permetteva, lo
desiderava, ne aveva un
disperato bisogno.
Ma
non gi dissi nulla di tutto questo. Lo sapeva già.
“Permettimelo,
allora.”
Si
accasciò sulla panchina, apparentemente esausto. Mi
accomodai accanto a lui,
lasciandogli un po’ di tempo per pensare.
Il
sole stava quasi per sorgere all’orizzonte, rischiarando noi
e tutto ciò che ci
circondava di una dolce, fredda luce rossastra: Little Ridge Wood stava
finalmente per svegliarsi.
L’alba,
nonostante la sua bellezza e il fascino che m’aveva sempre
incantata, in quelle
settimane era divenuta mia nemica.
Mi
avvisava del momento di rincasare prima di essere beccata da mia madre,
segnava
il momento dei saluti.
Sospirai,
voltandomi verso Draco. “A domani, allora.”
“No.”
“Ah?”
Senza
guardarmi negli occhi, sussurrò a bassa voce:
“Domani non verrò. Non ci vedremo
più.”
Non
mi scomposi nemmeno un po’ alle sue parole.
Perché,
alla fine, non erano nient’altro: parole.
Sbadigliai,
fingendomi annoiata. “Come vuoi. Addio.”
Mi
alzai prima che avesse il tempo di ribattere, avviandomi lungo la
sponda del
lago verso l’uscita del parco. Sembravo tranquilla e
distaccata, anche se, in
verità, un minimo di panico si stava insinuando in me:
c’era un misero 0,1% di
possibilità che non mi richiamasse indietro, che non mi
seguisse, che quello
fosse stato davvero il nostro ultimo incontro.
Non
ci volle molto per spazzare via questa possibilità.
“Non
puoi fare così! Sono io quello che deve
andarsene!” Gridò, il tono carico di
sdegno.
Mi
voltai verso di lui, alzando gli occhi al cielo. “Smettila di
fare il bambino
viziato e cresci una buona volta. Ci vediamo domani.” E con
un tono che non
ammetteva repliche, ripresi il cammino lungo il lago.
Mi
urlò dietro: “Non prendo ordini da te,
Collins!”
Agitai
una mano in segno di saluto senza più voltarmi.
***
“Chi
diamine si crede di essere quella sporca Babbana invadente?”
Scalciai
irritato una ghianda sul prato che, con mio gran divertimento, mise in
fuga uno
scoiattolo che si precipitò sull’albero
più vicino.
Ritornai
alla panchina, e nonostante il cielo fosse limpido e sereno, intorno a
me
aleggiava un alone scuro, palpabile.
Mi
stravaccai sulla panchina, allungando le gambe e reclinando la testa
all’indietro, osservando le fronde ombrose sopra di me.
Era
tutto così facile per lei. Se ne stava lì, a
parlare e parlare dei suoi
problemi, rivelandomi ogni suo pensiero, ogni suo stato
d’animo… ed io dovevo
stare attento anche alla più piccola rivelazione.
E
lei non mi rendeva di certo le cose più facili! Era
dannatamente astuta per
essere una Babbana. Se fosse stata una strega sarebbe divenuta una
degna Serpe.
Quel
pensiero mi trafisse, e prima che potessi impedirlo, nella mia testa
iniziarono
a vorticare immagini frammentarie di una realtà parallela.
Teresia
ad undici anni, seduta su uno sgabello con in testa il Cappello
Parlante,
quest’ultimo che scandiva a voce alta
“Serpeverde!”
Lei
che si sedeva al tavolo affianco a me, io che mi presentavo come Draco
Malfoy e
non solo Draco.
Le
lezioni e le serate nella Sala comune, le gite a Hogsmade, il parlare
senza
timore alcuno.
Su
questa panchina avrei potuto dirle la verità. Chi ero, cosa
facevo, cosa era
diventato…
“Mi
ha reso un Mangiamorte. Era esattamente quello che volevo.”
“Bugiardo”
Mi avrebbe detto.
Mi
risvegliai da quel sogno ad occhi aperti, dandomi ripetutamente dello
stupido.
Lei
non era una strega, non era una Mezzosangue, non era una
Maganò. Era solo una
Babbana, una tipa qualsiasi i cui problemi erano sciocchi ed
insignificanti
confrontati ai miei... Ma proprio l’ascoltare quei pezzi di
vita quotidiana
così semplici ed innocui erano una piacevole fuga dalla dura
realtà.
“Tsk!
Se mi vedesse mio padre…”
Lo
immaginai mentre, dall’alto della sua figura statuaria, mi
osservava con sdegno
e disgusto.
Riuscivo
quasi a sentire la sua voce mentre diceva: “Sei causa di
disonore per la
famiglia! Frequentare feccia del genere, cosa credi di fare?”
Ed
io non avrei saputo dare una risposta. Perché mi ostinavo a
vederla, a
parlarci, ad ascoltarla? E soprattutto perché, nonostante le
avessi detto
addio, domani tornerò in questo dannato parco?
Sapevo
che così non poteva continuare. Prima o poi sarei finito col
farmi sfuggire
qualcosa di molto più compromettente di un termine come
‘Purosangue’, con tanti
cari saluti allo Statuto di Segretezza…
E
a Teresia, pensai.
Sarebbero
intervenuti quelli del Ministero, modificandole la memoria…
Mi
si strinse stranamente lo stomaco. Avrebbero cancellato tutto? Ogni
litigio,
ogni parola, ogni giorno trascorso assieme?
Si
sarebbe dimenticata completamente di me?
Un
formicolio al braccio sinistro mi causò un brivido freddo
lungo la schiena.
Scherma
la mente,
scherma la mente, pensai.
E
mentre mi alzavo dalla panchina, stringendomi il braccio
così forte da farmi
male, pensai al Ministero come al minore dei mali.
Ma sappiate che non ho mai abbondato una storia in corso già pubblicata e anche se non sarò precisa come in passato arriverò al termine di questa storia (non sono molti capitoli, prevedo sette, massimo otto in tutto).
Grazie per chi mi sta seguendo nonstante tutto e per chi ha deciso di lasciare la storia tra i preferiti e tra le ricordate/seguite.
Grazie anche a chi la legge soltanto, spero che non vi stia deludendo.
Anche se odio questo capitolo, spero che almeno a voi piaccia.
Un bacio,
Lily